Poche settimane fa l’Italia è tornata dalla Coppa del Mondo con un bottino di quattro vittorie (due dopo la lotteria dei rigori) e sette sconfitte, 31 gol segnati e 50 subiti, uno 0-8 incassato dal Kirghizistan e un 3-7 dall’India. Avrete già capito che non si tratta di quella Coppa del Mondo, d’altra parte non c’è nessun processo mediatico e popolare contro un CT in corso. Parlo invece della Homeless World Cup (HWC), cioè letteralmente il Mondiale dei senzatetto, termine che come vedremo ha un’accezione più ampia di quella generalmente intesa.
Al ritorno da Seoul, Corea del Sud, in cui si è svolta la competizione, nella Nazionale italiana non c’era però traccia di delusione. «È stata un’esperienza molto positiva», mi ha detto il team manager della squadra, Michael Scorletti «Eravamo consapevoli fin dall’inizio che stavolta non saremmo riusciti a fare molta strada, perché dal punto di vista tecnico il nostro livello non era alto. Nonostante questo, la coesione e lo spirito di squadra che si sono creati sono stati incredibili - ed è ciò che conta davvero, più dei risultati sportivi».
Ma che cos’è la Homeless World Cup? Sintetizzando al minimo potremmo definirlo come un evento di calcio di strada, che nel 2024 ha accolto quasi 500 atlete ed atleti da una cinquantina di Paesi in tutto il mondo. Parte del network Football for Goals (Nazioni Unite), dall’edizione di quest’anno il progetto è patrocinato anche dalla FIFA, che oltre alla fornitura di materiali e sponsor ne ha aumentato sensibilmente la visibilità, trasmettendo le partite in streaming online sulla propria piattaforma (FIFA+).
La delegazione italiana si è trovata nel girone di Portogallo, Svezia, Polonia, India, Stati Uniti, Repubblica Ceca, Kirghizistan e Giappone, e fin dall’inizio è stato chiaro che non avrebbe potuto competere per arrivare fino in fondo. «Calcisticamente è stata una spedizione così così», mi ha confermato Scorletti dopo essere tornato dalla HWC 2024, la prima disputata in Asia «Ma per la nostra esperienza, è stata una delle più belle a cui abbiamo partecipato». Il team manager era presente quando gli azzurri hanno vinto l’oro in back-to-back nella seconda e terza edizione del torneo, nel 2004 a Goteborg e nel 2005 a Edimburgo, ma ora che è giunto alla 19esima si racconta «meno preoccupato e attento ai risultati che in passato», spiegando di vivere l'esperienza «con assoluta serenità». «Le vere vittorie non si misurano con la classifica, ma con il cuore e lo spirito con cui vengono affrontate le sfide».
Le sue parole riflettono lo spirito dell’evento e gli obiettivi per cui è nata Nazionale Solidale, l’organizzazione no-profit milanese di cui è co-fondatore. L'associazione si occupa, tra le tante iniziative in ambito sportivo e sociale, di gestire la spedizione azzurra alla Homeless World Cup: dalla selezione dei partecipanti agli spostamenti, dalla logistica alle questioni di campo, fino ad aspetti burocratici che talvolta, come vedremo, in questo ambiente sono fonte di complicazioni.
Prima di tornare alla Nazionale italiana e di ascoltare le voci di chi era presente a Seoul il mese scorso, un piccolo recap sulla storia di questa competizione, per chi si sta chiedendo di che cosa stiamo parlando.
LA STORIA DELLA HOMELESS WORLD CUP
La Homeless World Cup ha mosso i primi passi a inizio millennio, durante la conferenza dell’International Network of Street Papers, organizzazione che si occupa di lotta alla povertà, tenutasi a Città del Capo (Sudafrica) nel 2001. È in quell’occasione che Mel Young (giornalista scozzese e co-fondatore di Big Issue Scotland) e Harald Schmied (direttore dello street newspaper austriaco Das Megaphon) hanno gettato le basi per un progetto con cui promuovere l’inclusività sociale attraverso la lingua universale dello sport. Il disegno di Young e Schmied è diventato presto realtà, con la prima edizione che si è svolta meno di due anni dopo a Graz, in Austria. Da allora l’evento ha viaggiato per tutti i continenti, passando nel 2009 anche per Milano, e interrompendosi soltanto dal 2020 al 2022 per via della pandemia.
Il torneo segue le regole dello street soccer, con qualche variazione sul tema messa a punto negli anni per rendere gli incontri più dinamici e imprevedibili. Le squadre scendono in campo con quattro giocatori - un portiere e tre di movimento, più le riserve - e si sfidano su un terreno di gioco di 22x16 metri (la metà di quelli da calcetto) senza il fuori, quindi usando le sponde. Le partite - 14 minuti, rigori in caso di parità - hanno una peculiarità: “si attacca in tre e si difende in due”, come si legge nel regolamento ufficiale. Un giocatore, quindi, deve sempre rimanere nella metà campo offensiva, facendo sì che la difesa sia costantemente in inferiorità numerica. Niente gare bloccate sullo 0-0, insomma.
L’iniziativa - raccontata anche nel documentario The Beautiful Game, disponibile su Netflix - si rivolge a uomini e donne di varia estrazione che hanno sperimentato trascorsi di povertà, emarginazione sociale o isolamento. Persone senza una dimora fissa o che vivono in condizioni particolarmente difficili all’interno di baraccopoli (o slums, favelas, bustees e via dicendo), comunità e centri di riabilitazione da dipendenze; ma anche richiedenti asilo, migranti, minoranze discriminate, dislocati da guerre e catastrofi naturali, giovani che crescono in realtà senza prospettive. Insomma, tutti gli “invisibili”, gli “scartati” e i “dimenticati” che vogliono ribellarsi alla percezione di “reietti” con cui la società tende a identificarli. Come? Facendo sentire la propria voce o anche semplicemente ricordando al mondo di esistere, di avere bisogno di aiuto; e allo stesso tempo, di essere trattati come umani e non come pazienti o oggetti indesiderati.
L'impegno si dirama lungo tre direttive: sensibilizzare l'opinione pubblica, offrire nuove occasioni e prospettive agli emarginati, incentivare un circolo virtuoso in cui l’aiutato diventa aiutante. Il fine ultimo è contribuire a ridurre le disuguaglianze e la homelessness che riguardano milioni di persone in tutto il mondo, scalfendo quelle barriere nel tessuto sociale che ostacolano l'inclusività. La HWC fornisce inoltre una via per (ri)acquisire la salute fisica e mentale, la capacità di socializzare, la fiducia nei propri mezzi e un senso di appartenenza; e non solo, è anche una chance per vivere uno spazio non familiare, positivo e di svago, per valorizzare il talento individuale e per condividere responsabilità, traguardi e valori con un collettivo. «La cosa bella», dice David Duke, fondatore di Street Soccer Scotland (realtà coinvolta fin dalla prima edizione) «È che molte squadre promuovono gli atleti a coach: oggi vedi tanti giocatori che nel 2010 erano in campo e che ora invece sono allenatori, è fantastico».
«In questi anni ho potuto notare il forte attaccamento al progetto dei ragazzi non solo durante l’evento, ma anche una volta terminato il torneo», mi conferma Michael Scorletti «È un catalizzatore per il cambiamento: molti di loro sentono il desiderio di restituire quello che hanno ricevuto, contribuendo attivamente al percorso di riabilitazione dei nuovi partecipanti». Le statistiche raccolte dagli organizzatori restituiscono un’incoraggiante risposta in tal senso: l’80% afferma di aver “cambiato la propria vita” negli anni successivi al torneo, l’83% di aver ricucito i legami con familiari e amici, il 71% di aver continuato a giocare a calcio. C’è anche chi ha intrapreso una carriera da professionista, basti pensare alla storia piuttosto incredibile di Bebé.
È capitato anche di vedere un ex partecipante della HWC, l’ivoriano Richard Kone (Wycombe), segnare una tripletta - in undici minuti! - nella League One (terza divisione inglese).
HOMELESSNESS ED EMARGINAZIONE
«Questo non è un torneo di seconde possibilità ma di trasformazione», dice David Duke «Per la maggior parte di noi è la primissima possibilità, come è stato anche per me. Purtroppo va detto che le sfide che abbiamo affrontato 20 anni fa, e che io stesso ho affrontato esistono ancora oggi. Ecco perché siamo ancora qui, per ridimensionare il problema della homelessness, per dire al mondo che tutti meritano un posto dove tornare a casa, una comunità di cui sentirsi parte. Non dobbiamo smettere di parlarne e di gridarlo».
Quali sono le proporzioni, oggi, di questo disagio? Delineare un quadro accurato della homelessness a livello globale è molto complesso. In primo luogo, per la varietà di modi e forme con cui si manifesta il fenomeno dalla crisi abitativa: dal vivere in strada o in strutture non idonee all’abitazione, all’essere ospitati in centri specializzati o anche semplicemente sul divano di amici; secondo, per l’impossibilità di indagare in modo esaustivo i contesti in cui si verifica con maggiore incidenza, come ad esempio le mega-baraccopoli in India, Pakistan, Brasile, Nigeria e tanti altri Paesi; infine, per la volatilità dei confini tra senzatetto, tossicodipendenti, dislocati e tutte le altre categorie cui si è fatto riferimento. Un report delle Nazioni Unite del 2005 e uno più recente del World Economic Forum (2021) suggerivano stime tra i 100 e i 150 milioni di persone senza una dimora fissa in tutto il mondo. Una ricerca di Habitat for Humanity del 2015 parlava invece di un miliardo e mezzo di esseri umani - più di un quinto della popolazione globale - sprovvisti di un’abitazione adeguata e di standard “accettabili”.
Anche l’Italia, come sappiamo, è tutto fuorché immune a questo fenomeno. L’intensificarsi dei flussi migratori ha accresciuto nell’ultimo decennio la sua gravità, con un’incidenza sproporzionata - quasi il 60% - all’interno delle comunità straniere, come ha evidenziato una ricerca della FIOPSD (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora).
È una condizione «che può riguardare chiunque, se troppe cose vanno per il verso sbagliato nello stesso momento», dice Heidi, una giocatrice della selezione finlandese presente quest’anno a Seoul (dopo l’assenza nel 2023 a Sacramento, per l’impossibilità di ottenere un visto per gli Stati Uniti a causa di precedenti penali). «La mia vita era buona, normale. Possedevo la mia casa con il mio partner e i nostri quattro figli, avevo un buon lavoro, una macchina, un cane…» - poi gli imprevisti hanno preso il sopravvento. Un danno alle tubature dell’abitazione e una lunga disputa legale sulla responsabilità dell’accaduto hanno reso la casa inabitabile, coperta di muffa, e dopo la separazione dal compagno e l’allontanamento forzato dai figli, Heidi ha finito per «spostarsi da un posto all’altro, da camere d’albergo al divano di amici, fino a dormire in auto».
Casi simili possono aiutarci a sentire tutto ciò meno distante dalle nostre vite. Sebastian, portiere della Norvegia, racconta una storia per certi versi analoga: aveva 15 anni quando la sua giovane carriera da calciatore si è interrotta bruscamente per un infortunio, l’inizio di un calvario che l’ha portato ad allontanarsi dallo sport, dalla ragazza con cui conviveva e da tutto il resto. «In poco tempo è tutto andato a rotoli. Mi sono trasferito in una kommune [complesso abitativo non ufficiale per tossicodipendenti, ndr] dove mi fornivano eroina, aghi e tutto ciò di cui avevo bisogno per continuare a vivere da tossicodipendente. No, non è un buon modo per aiutare nessuno, e io ho completamente perso ogni contatto con la realtà». Giouloglou Ioannis (Grecia) aggiunge che «partecipare alla Homeless World Cup l’ha cambiato», convincendolo di «non voler essere più solo, perché la solitudine è il più duro degli isolamenti: se parli con la tua ombra, ti può portare dritto verso la droga».
NAZIONALE SOLIDALE
Trascorsi di questo tipo sono difficili non solo da superare ma anche da smaltire, e possono presentare il conto in una varietà di contesti. Emerge nitidamente dalla testimonianza di Michael Scorletti, che mi ha raccontato «il momento di grande difficoltà vissuto durante il terzo giorno del torneo» a Seoul dalla Nazionale Solidale. «Il rendimento della squadra in campo era insoddisfacente, e questo rifletteva non solo le sfide sportive, ma anche le ferite emotive e i traumi personali che ciascun giocatore si portava dentro. Le difficoltà sul campo toccavano le sofferenze esistenziali più profonde di ciascuno, come a riattivare dolori e blocchi che molti di loro avevano affrontato nella vita. Questo ha portato a un crollo emotivo e di gruppo, che però ha rappresentato un’opportunità cruciale di crescita. L’intervento simultaneo dei due mister – quello sportivo e quello dedicato al benessere mentale [gli altri due co-fondatori di Nazionale Solidale, Mirko Bigatton e Giorgio Cerizza, ndr] - è stato fondamentale per trasformare la crisi. Insieme, sono riusciti a intervenire in modo sinergico, lavorando sia sulle difficoltà tecniche sia sulle questioni più intime e personali che stavano emergendo. Questo approccio integrato ha permesso ai ragazzi non solo di superare il momento di crisi, ma anche di utilizzarlo come trampolino per una crescita personale e collettiva. Dopo questo intervento, la squadra ha iniziato a vincere delle partite e il clima tra i giocatori è cambiato drasticamente. Da quel momento si è formato un vero team, coeso e in sintonia, capace di sostenersi a vicenda sia dentro che fuori dal campo. Questo episodio è la dimostrazione di come il calcio e lo sport possano rivelarsi strumenti potenti di trasformazione personale».
Nazionale Solidale è stata fondata nel 2011, raccogliendo l’eredità dell’Associazione L’Approdo, nata nel 2002 da un’idea di Giorgio Cerizza e sostenuta attivamente da un volto noto del calcio italiano, Emiliano Mondonico. Oltre a formare la delegazione italiana per la Homeless World Cup, l’associazione gestisce altri tre progetti in ambito sportivo: la Coppa Italiana Homeless, Calcio Solidale e Scuola Solidale, tutti rivolti a persone ai margini della società e in particolare a «chi ha cercato rifugio nell’uso di droghe e alcool, o nel gioco d’azzardo, trovando illusorie sensazioni di benessere», spiega Scorletti. «In questo percorso, lo sport diventa un allenamento non solo fisico, ma anche mentale ed emotivo: uno spazio in cui le idee, i pensieri e le riflessioni sviluppate durante gli incontri individuali o di gruppo possono essere messe in pratica. Lo sport ha una capacità unica di abbattere le barriere sociali e culturali, rendendo visibili problematiche spesso ignorate o sottovalutate; racconta storie di riscatto e speranza, mostrando che il cambiamento è possibile. La Homeless World Cup, nello specifico, rappresenta un'occasione per le persone emarginate di sentirsi parte di qualcosa di grande, di vivere un’esperienza di inclusione che manca nella loro quotidianità».
I criteri adottati da Nazionale Solidale nel processo di soluzione non vertono unicamente sulle qualità dei giocatori. Anzi, «uno degli aspetti fondamentali è il comportamento e l'attitudine al gruppo, oltre al punto in cui la persona si trova nel proprio iter di riabilitazione: non basta essere bravi a giocare a calcio, è essenziale dimostrare di meritare l’esperienza attraverso un comportamento positivo, un impegno nel proprio percorso di crescita e una predisposizione a lavorare di squadra».
"DOVE VIVO IO"
Se le testimonianze riportate fin qui sono tutte di estrazione a noi vicina, la natura e la geografia della crisi abitativa nel mondo suggeriscono di passare il megafono a chi ha origine in contesti più critici, che espongono le persone alla marginalizzazione sociale con maggiore frequenza, se non sistematicamente. La realtà che affligge, ad esempio, milioni di donne e ragazze che abitano le baraccopoli di Delhi, Mumbai, Calcutta e altre metropoli indiane, come Yasmeen (20 anni).
«Dove vivo, bambini piccoli, anche di sette anni, si drogano e sono nel giro dello spaccio. Ci sono molti pericoli, inclusi stupri e violenze di genere. Per la maggior parte delle famiglie il reddito deriva dalla raccolta di rifiuti, c’è molta povertà e poche opportunità, soprattutto per le ragazze. Lì lo sport non è pensato per le donne: nella comunità musulmana in cui sono cresciuta, persino indossare abiti sportivi come i pantaloncini non è permesso». Quando Yasmeen aveva 16 anni, un membro dell’ONG Slum Soccer «venne a bussare alla mia porta, per coinvolgermi in un progetto calcistico. Non c’era nessun’altra ragazza, quindi dovevo essere la prima. La gente diceva ai miei genitori che avrebbe portato a cose negative, e ci è voluto molto per convincerli. Gli allenatori di Slum Soccer hanno dovuto prima guadagnarsi la fiducia della comunità».
Il calcio ha dato una nuova prospettiva a Yasmeen, che grazie alla Homeless World Cup ha visto per la prima volta con i propri occhi l’abisso che separa le condizioni igienico-sanitarie della sua slum con gli standard di Seoul. «Dove vivo, le case sono piccolissime e senza servizi: usiamo tutti bagni comuni che condividiamo con molti vicini. All’arrivo ho scattato un sacco di foto alla camera in hotel e le ho mandate alla mia famiglia». Un’esperienza che le ha fatto sentire «il dovere di tornare lì e aiutare chi ci vive, un giorno», dopo aver studiato ed essersi costruita un futuro altrove.
Anche Verah Adhiambo, ragazza kenyota di 22 anni, ha dovuto sfondare una barriera di genere per lasciare che lo sport potesse entrare nella sua quotidianità. «Amo il calcio, mi aiuta a distrarmi dalle cose brutte che sono successe a casa quando ero piccola, dalle condizioni difficili delle donne - tra gravidanze e matrimoni precoci - e da ciò che accade per strada». Verah si è presentata a Seoul con la Vijana Amani Pamoja, una rappresentativa di quattro Paesi africani (Kenya, Tanzania, Zambia e Zimbabwe) sostenuta dal progetto Football to protect vulnerable women from exploitation, finanziato tra gli altri da FIFA Foundation. «È stata una grande sfida riuscire a giocare per me. La mia comunità mi scoraggiava, diceva che le ragazze dovrebbero prendersi cura della famiglia, che il calcio è solo per i maschi. Io però sentivo che quando giocavo tutti i problemi scomparivano, che l’unico posto sicuro era il campo, e sono andata avanti. So che essere qui mi cambierà come persona, e potrebbe trasformare la mia vita».
C’è chi, infine, per problemi relativi a visti e passaporti non è riuscito a iscriversi al torneo. È il caso della nazionale del Bangladesh, come racconta il responsabile Pappu Modak. «Nel nostro Paese ci vuole almeno un anno per ottenere l’appuntamento per chiedere un visto. Noi abbiamo iniziato due anni fa, ma abbiamo ricevuto i documenti solo due giorni prima dell’inizio della Coppa del Mondo». E così, alla Homeless World Cup 2024 la rappresentativa bengalese ha potuto disputare soltanto incontri amichevoli. «Avevo promesso ai ragazzi che se avessimo ottenuto i visti, saremmo andati a giocare: non potevo dire no a questo viaggio, anche se nel frattempo il costo dei voli era triplicato».
Per onor di cronaca, nel 2024 il Messico ha vinto sia l’edizione maschile sia quella femminile, confermando il dominio di una Nazionale che si era già imposta dodici volte in totale (quattro gli uomini, otto le donne). Ovviamente conta quello che conta davanti a una competizione come questa, che ci ricorda come lo sport abbia il potere naturale di tendere una mano a chi vive ai margini della società. Come ha detto Antti, giocatrice della Nazionale finlandese: «Se fai qualcosa insieme ad altre persone, diventa più facile imparare a connettersi».