Carlos Alcaraz lascia uno dei campi d’allenamento di Indian Wells ad Andrej Rublev. I due si incrociano brevemente e si scambiano qualche battuta, giusto delle chiacchiere di cortesia. Alcaraz ha vent’anni ma l’aria molto sicura di sé. Indossa una maglia da basket con scritto “23 Alcaraz”, si siede in panchina, sistema l’attrezzatura, sorridente e rilassato scherza con Rublev: «Sto cercando di essere come te. Sparare forte col dritto, non sbagliare niente».
(Vale la pena disegnare il contesto che magari già conoscete: Alcaraz è il nuovo reuccio del tennis mondiale. Un talento generazionale, un predestinato. Ha già vinto uno Slam, oltre ad altri grossi tornei, e quasi tutte le partite giocate nel 2023. È numero due del mondo, è già stato numero uno. Rublev, con quel nome da personaggio Tolstojano, cerca di tenere in piedi la sua carriera da splendido perdente. Giocatore fenomenale, entusiasmante, ma incapace di vincere. È impelagato in questa classifica ottima ma non eccellente. Ha qualche titolo, ma non i più prestigiosi. Non si capisce se è troppo pazzo o troppo limitato per essere davvero un campione. Ora torniamo alla scenetta di prima).
Rublev risponde divertito e senza guardare in faccia Alcaraz. Gli dice: «Se stavi veramente provando a essere come me ora saresti cosa, ottavo, nono del mondo?». Con una battuta pizzica la gentile ipocrisia di Alcaraz, che però scherzando ci aveva offerto una parziale verità. Rublev ha 6 anni più di Alcaraz, 6 più di Rune e 4 più di Sinner e, pur non avendo vinto molto, il suo gioco è stato piuttosto influente per questa nuova generazione. Non solo la biomeccanica originale ed estrema dei suoi colpi, in particolare del dritto, ma soprattutto quel modo furioso di colpire la palla. Come per mandarla a fuoco, come per farla esplodere. Un’esasperazione brutale e disperata del power tennis avviato negli anni ’90, quando le superfici hanno rallentato e le racchette si sono trasformate in “padelle supersoniche”. Un tennis aggressivo e monolitico, intransigente nell’accelerare da tutti i lati su tutte le palle, e che mira a vincere per asfissia dell’avversario.
Questa nuova generazione di tennisti deve qualcosa a Rublev. Holger Rune ha detto di avergli esplicitamente copiato il dritto; Alcazar dice di voler giocare come lui; Sinner, pur senza pagargli tributi, sembra la sua versione ideale, Rublev con l’aggiornamento di software. Tutti loro sembrano aver rubato il fuoco a Rublev, la parte migliore, essenziale del suo gioco. Tutti, però, da lì sembrano essere saliti a un livello superiore. Sinner ha preso quell’aggressività da fondo campo, e l’ha accelerata ulteriormente. Rune e Alcaraz hanno aggiunto stratificazioni, rendendo il loro stile più vario e complesso. Rublev è rimasto imprigionato nel suo gioco minimale e senza variazioni: troppo forte per fallire veramente, troppo debole per ottenere successi di grande rilievo. Nel frattempo Alcaraz e Rune hanno già vinto un Master 1000, persino uno Slam, mentre per Sinner sembra solo questione di tempo. Tutti molto giovani, e tutti già più vincenti di lui. Con Sinner a Miami ha perso 2-6 e 3-6, e in più c'è la beffa che lo scambiano per lui. È una cosa che odia, e Medvedev lo prende in giro: «Sono entrato nello spogliatoio e ho detto 'Ciao Jannik, come stai?' Si è arrabbiato, è andato via per 10 minuti, è tornato 10 minuti dopo e ha detto: 'Allora sei Davydenko!’.».
Ieri, alla sua terza finale di un torneo 1000, dopo due sconfitte, ha affrontato Holger Rune e le cose sembravano andare come al solito. Al termine di un primo set equilibrato e combattuto, gli erano bastati un paio d’errori di troppo per perdere il servizio sul 5-6, per farsi scivolare il set come sabbia tra le mani. Si era fatto annullare 7 palle break mentre al suo avversario gliene erano bastate 4 per sfruttarne due. Poco prima un classico momento Rublev.
Sul 30 pari gioca un ottimo rovescio lungolinea che coglie Rune controtempo. Quello allunga il piatto corde e mette una palla che sembra uscire. Invece tocca un pezzo di riga. Rublev si aspettava che uscisse, così poi affossa un dritto a rete. Il tennista russo ride, guarda la rete, guarda il suo angolo, e si sente la persona più sfortunata del mondo. Quando le cose gli girano male una parte di Rublev sembra contenta. Come se avesse avuto la conferma dell’ingiustizia con cui è costretto a convivere. Poco dopo quel punto, sul set point contro, sbaglia un dritto di cinque o sei metri. Sarcastico si avvicina al cambio campo e chiede di andare in bagno. Esce dal campo come se non dovesse più tornare. Due punti: sono bastati due punti, e la finale sembra compromessa.
La partita era stata equilibrata, ma era difficile non avere la percezione di superiorità di Rune. Rublev sembra sempre costretto a stiracchiare i limiti del proprio tennis per rimanere in partita: trovare una miracolosa solidità dentro le accelerazioni continue a cui è forzato dal livello di Rune. Il danese, dall’altra parte, sembra avere più soluzioni. Un anno fa, quando si è affacciato al circuito, si preoccupava solo di tirare forte. Un anno dopo, con a fianco il lavoro di Muratoglou, ha imparato diverse cose: sa tirare le palle corte, e ogni tanto persino qualche solitario back. Varia le altezze di risposta. Niente di clamoroso, ma in questo contesto di tiratori seriali è qualcosa. È diventato più scaltro, strategico. Ha una cassetta degli attrezzi più ricca e più capacità di usarla. In risposta sta oltre i 5 metri dietro la riga (Rublev uno e mezzo) e comincia un uso sadico della palla corta. Il primo break della partita lo ottiene con due drop shot vincenti per uscire dalla diagonale di rovescio. In quello stesso game Rublev sbaglia una palla corta e rende chiara la differenza tra sé e il suo avversario.
Certo, Rune non ha nemmeno vent’anni e questo tennis non gli viene naturale; gli richiede grande applicazione. Sabato, contro Jannik Sinner, è riuscito a mantenere alta la concentrazione per i due set estenuanti che gli hanno permesso di rimontare. Aveva perso il primo cercando di pareggiare il ritmo da fondo di Sinner e, uscitone con le ossa rotte e un 6-1, si era rifugiato diversi metri dietro la linea di fondo, cercando di far sbollire il suo avversario e di mescolare le carte. Con freddezza tattica e determinazione nei momenti decisivi, era riuscito a spuntarla.
Nella finale questi sforzi si sono fatti sentire all’inizio del secondo set, quando esce dalla partita come premendo un interruttore. Non mette più due colpi di fila, e va di fretta. Azzera le attese tra un punto e l’altro e va così veloce che sembra passivo-aggressivo. Rublev deve dirgli di calmarsi, si lamenta con l’arbitro. In quel momento il russo mostra un pregio che forse non pensava nemmeno di avere: resta concentrato, non si scompone, lascia che sia il suo avversario ad andare in pezzi. Vince il secondo set 6-2.
Solo che Rune, per quanto antipatico, ha lo spessore di un giocatore che vincerà diversi Slam. All’inizio del terzo set tira un paio di risposte vincenti, di dritto e rovescio, e poi comincia a sovrastare Rublev nello scambio da fondo. Rune comincia ad agitare il pugno, con quell’atteggiamento ai limiti dell’arroganza che un giorno prima aveva mandato fuori giri Sinner. Va avanti 3-0. Rublev si tira le racchettate addosso, sui piedi, sulle gambe. Manca le sue occasioni. Il suo tennis rende esplicita la lotta interiore a cui lo sport costringe certi esseri umani. Rublev è teatrale, sembra sbattere sui propri limiti come le onde sugli scogli. Non è certo il primo tennista tormentato. Pochi però arrivano alla severità di Rublev, al suo masochismo. Per lui certe partite sembrano dei pretesti per punirsi, altre delle sedute di psicoterapia. Il tennis come un modo per indagare i recessi umani. Grida verso il suo angolo, si mangia la maglia, colpisce a pugni l’oggetto dei suoi tormenti - la racchetta - fino a farsi sanguinare le mani; ride da pazzo dopo errori grossolani; spacca le racchette sopra le panchine. È pazzo, ma in qualche modo anche tenero.
Nel quinto game Rublev ha due palle del contro-break. Rune serve due ace e una prima a 190. Rublev torna alla sua sedia gridando verso il suo angolo, verso l’arbitro, verso il pubblico, verso il cielo. Verso questo sport infame che è una macchina di infelicità e frustrazione. Rune si dà dei pugni sulle cosce, cercando di far muovere il sangue al loro interno. Un medico gli dà un integratore. Le gambe sono di marmo. È stremato dalla partita di ieri. Riesce comunque a procurarsi una palla del 5-1, e la partita sembra obiettivamente finita.
Rublev però si sente meglio mentalmente rispetto alle altre finali giocate. A Montecarlo, due anni fa, aveva fatto 6 game contro Stefanos Tsitsipas, lo scorso anno 5 a Cincinnati contro Zverev. In quelle partite dice di essere partito mentalmente sconfitto, stavolta non vuole mollare.
«Ok, se devi perdere questa partita va bene, ma almeno prova a lottare fino alla fine, perché forse avrai una possibilità di tornare in partita». Annulla la palla break con una prima di servizio volitiva, si rimette in carreggiata, riesce a ottenere un break e poi grida come un lupo mannaro.
Probabilmente in quel momento ripensa anche alla rimonta incredibile fatta proprio su Rune agli ultimi Australian Open. Una partita in cui ha rimesso in piedi almeno 4 situazioni all'apparenza compromesse. In ognuno di quei momenti ha raccontato di aver pensato che fosse finita, e poi in qualche modo ha rimesso insieme i pezzi. Dopo diverse rimonte, era andato sotto 5-2 nel tiebreak e aveva pensato solo di non voler perdere 10-2 al tiebreak decisivo come gli era successo al Roland Garros contro Cilic: «fai almeno due punti in più». Era riuscito a rimontare e poi a vincere con una risposta incredibile: «Non mi era mai successo, mai, di tirare una risposta del genere, di vincere una partita così. È stato un regalo di qualcuno dal cielo forse, non lo so». Tutto detto seguendo un flusso di coscienza, con l’onestà brutale che lo contraddistingue (l'onestà per Rublev sembra quasi un'ossessione). Negli studi di Eurosport la descrivono come la migliore analisi post-partita mai sentita. Dopo ha perso in tre set contro Djokovic, aggiornando il suo deprimente record di eterno piazzato: settimo quarto di finale negli Slam, senza mai essere arrivato in semifinale.
Chissà però se da quel momento qualcosa è cambiato nella mentalità di Rublev, se qualcosa si è aggiustato in questo personaggio shakesperiano. A Dubai, dove ha perso in finale da Medvedev, si era già visto qualcosa: «Prima di oggi non avevo mai raggiunto una finale nello stesso torneo che avevo vinto l’anno prima, credo sia un aspetto positivo. Spesso succedeva che, quando vincevo un torneo, l’anno dopo perdevo al primo turno. Inoltre, qui ho battuto giocatori contro cui non avevo mai vinto, come Van De Zandschulp e Zverev, vendicando anche alcune sconfitte come contro Krajinovic. Non credo di aver nemmeno mai recuperato 5 match point di fila in tutta la mia vita, quindi direi che è stata un’ottima settimana nel complesso».
Nella parte finale della partita Rune è sempre più stanco e nervoso. Il suo gioco si riduce a un insieme sconclusionato di colpi, e lì assistiamo a uno spettacolo strano: Rublev sembra il giocatore saggio in campo. Il giocatore che sta cercando di mantenere un minimo di continuità, un minimo di costanza, dentro questa partita che è un delirio nevrotico. Cerca di fare le cose semplici, di non sbagliare troppo. Per una volta cerca solo di stare lì, le occasioni gli verranno incontro. Sul 5-5, servizio Rune e 0-15, il danese si spezza. Tira uno smash a rete, poi tira un paio di palline fuori dallo stadio, direttamente nel Mediterraneo. Arriva una bolgia di fischi. Rune si ferma e chiama altri fischi. Ne vuole ancora, vuole essere frastornato dai fischi. Mentre sono al massimo si mette a servire, poi si ferma e fa cenno che non può giocare con tutti quei fischi (quelli che lui stesso aveva chiamato). Dopo mette una prima all’incrocio delle righe a 190 km/h, ma è l’ultimo lampo prima di lasciarsi andare.
Dopo rimane solo da gustarsi il collasso di felicità di Rublev, che si sdraia a terra, si rialza, si butta sulla sedia stremato, mezzo morto. Gli danno un pennarello in mano per scrivere sulla telecamera e ha la forza solo per buttare lì un “thank you”. È uno dei migliori dieci esseri umani a giocare a tennis, ma non si sente comunque adeguato. Pensa ai cinque o sei migliori di lui, non alle centinaia di professionisti peggiori. Ha un talento speciale nel guardare il lato negativo delle cose. Nella premiazione non riesce a fare a meno di sminuirsi, dice che Rune è maledettamente giovane e ha già vinto un Master 1000, gliene lasciasse vincere uno. Poi confonde la principessa di Monaco Charlene con la presidente del Country Club. A quel punto va in tilt. Si butta indietro il ciuffo, ride singhiozzando, dice di essere stupido, di aver preso troppo sole. Dice che «avere tutto questo supporto per me che vengo dalla Russia significa tanto». Quando Tiziana Scalabrin lo aveva intervistato aveva confidato di vivere la sua professione con un terrore da sindrome dell'impostore: «Ancora sento di non essere un top player. Non so perché. Ma ancora sento quella paura e temo che un giorno o l’altro magari la classifica crollerà».
Da dove gli viene questa irrazionale paura di perdere tutto? Da giovane ammirava Rafa Nadal fino al puro tentativo di emulazione. Era un bambino e indossava il suo completino: la bandana sgargiante, i pinocchietto. Usava la Babolat e aveva capito che a tennis si vince comandando il gioco col dritto. Non ha mai avuto la forza mentale del suo idolo.
È impossibile non empatizzare con Rublev, e non solo perché mostra un’umanità inconsueta nello sport contemporaneo, che ti addestra alla durezza, alla repressione delle fragilità. Non è solo questo. L’umanità di Rublev sta nel suo non arrendersi alla sua apparente incompatibilità con le richieste di questo sport.
È spesso troppo insicuro, ma sembra lottare ferocemente contro questa insicurezza. Ha la tentazione di lasciarsi andare, di darsi per vinto, ma non si dà mai davvero per vinto. Ha un tennis limitato, ma lavora ogni giorno per renderlo sempre meno limitato. E questa lotta che mette in scena con sé stesso, attraverso il tennis, la offre a noi: lo spettacolo dell’essere umano che lotta per esprimere sé stesso, mettendo a nudo tutta la sua fragilità. Rublev è un atleta spogliato dal tennis, anzi, scarnificato. È difficile non entrarci in contatto, non percepire la sua purezza. Chi ha giocato a tennis sa cosa si prova quando non si riesce a scendere a patti con questo sport dalla tecnica estrema, che in certi giorni vuole esserti estraneo come per ferirti. A dicembre, in un’intervista, Rublev non si era dato obiettivi precisi, solo di «scoprire davvero quali sono i miei limiti». Chiudere una carriera senza troppi rimpianti.
Questo Master 1000 è un premio al suo lavoro, ai suoi sacrifici, a tutta la palese sofferenza che sta vivendo nel suo percorso. Un ragazzo di venticinque anni che dice di non essere mai andato in vacanza. Il suo talento è eccezionale ma, come lui stesso sa, non appartiene all’Everest del circuito tennistico. Il suo livello non era paragonabile a quello dei big-3 e non sarà all’altezza di questa nuova generazione di fenomeni. Giocatori che sembrano avergli rubato alcuni trucchi, per poi giocare un tennis che forse lui non riuscirà mai a giocare. Una loro ispirazione, ma pur sempre perdente. Chissà se riuscirà a vivere con più serenità il suo lavoro, e se questa vittoria magari gli permetterà di raggiungere qualche altro bel risultato. In questa fase storico più incerta, di interregno tra generazioni, Rublev dovrebbe concedersi di sognare qualcosa di più.
Durante un evento un giornalista gli aveva chiesto, mentre aveva un bicchiere di tequila in mano, a cosa brindare. Lui aveva risposto con candore: «Essere gentili e godersi il tennis».