L’uomo che parla ai giornalisti a fine partita ha un atteggiamento sereno, che pure stride con gli occhi spiritati di chi è in trance agonistica. «Mi aspetta una grande riflessione», dice. «Il club mi ha già dimostrato le sue intenzioni, ma non posso più giocare, riposare, giocare. È disumano. Se vogliamo crescere, dobbiamo abbandonare questi ritmi. I tempi di Dio sono perfetti. Sceglierò ciò che è meglio per il Palmeiras».
Non dice che sceglierà ciò che è meglio per lui. Ma per il suo club. E non sembra un’astuta mossa retorica. Nella sua prima conferenza stampa, quella di presentazione, appena un anno e qualche settimana prima di rilasciare l’intervista di cui sopra, Abel Ferreira, l’allenatore del Palmeiras, aveva detto: «Nel calcio è tutta questione di uccidere o venire uccisi. Siamo in una giungla. Le regole del gioco sono chiare: vinci, oppure vinci». Il suo pensiero, in fin dei conti, non sembra essere cambiato troppo: in limine all’ottantottesima partita giocata nell’anno solare, la più importante, Abel Ferreira è cosciente dell’impegno che è stato necessario per trionfare. Ma è anche stanco. Vicino al burnout.
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Il sottaciuto, ciò che è contenuto tra due conferenze stampa con questi toni, è la vittoria non di una, ma di ben due Copa Libertadores. Entrambe conquistate nello stesso anno solare (la finale della Copa 2020, necessariamente, per via del COVID, era slittata a Febbraio). Oltre che di una Copa do Brasil. Mentre pronuncia la parola disumano, con un afflato polemico, Abel Ferreira dovrebbe piuttosto sprizzare gioia: è già uno degli allenatori più vincenti - e iconici - non solo del Palmeiras, ma di tutto il Sudamerica.
Nel XXI secolo solo tre allenatori sono riusciti a guidare la loro squadra a una doppia vittoria in Libertadores: oltre al portoghese, Marcelo Gallardo e Carlos Bianchi, peraltro l’ultimo a farlo difendendo il titolo, nel 2000, e poi nel 2001. Negli ultimi trent’anni sono stati soltanto tre quelli capaci di vincerla, come si dice, back-to-back: il Boca Juniors leggendario del Virrey, con Riquelme, Palermo e i mellizos Schelotto; e poi il São Paulo di Tele Santana, guidato da Rai.
A rendere ancora più significativo il doppio successo del Palmeiras, andrebbe aggiunto, c’è il fatto che Abel Ferreira ha trionfato alla guida di uno strano manipolo di wannabe che non sono riusciti a sfondare in Europa, tipo Deyverson o Gustavo Gomez; veterani rientrati in patria ma ancora affamati di successi, come Luiz Adriano e Felipe Melo; e, infine, giovani molto promettenti, come Danilo o Gabriel Veron. Una società in crescita, quella paulista, nata Palestra Italia (italiano era anche l’ultimo allenatore del Verdão nato in Europa, Caetano de Domenico) e oggi uno dei club più ricchi del Brasileirao, insieme al Flamengo sconfitto in finale, dopo aver trascorso un ventennio in cui ha sperimentato due retrocessioni e una bancarotta.
Abel Ferreira è arrivato in Brasile nell’ottobre del 2020, in piena pandemia, per sostituire Vanderlei Luxemburgo: una mossa a sorpresa, inattesa. Paulo Autuori, allenatore brasiliano a sua volta capace di alzare la Libertadores per due volte, ed ex tecnico di Abel Ferreira quando era un disciplinato e poco appariscente laterale basso di difesa, ha definito il suo pupillo «una persona, prima di tutto, con un eccellente livello intellettuale, oltre che molto educato e umile». Uno che già all’epoca mostrava «molto interesse per l’aspetto tattico, una lettura ben precisa».
Luiz Felipe Scolari, l’ultimo allenatore del Palmeiras che avrebbe potuto vincere la Liberadores difendendola, nel 2000 (e invece perse con il Boca, dopo averla alzata nel 1999) di Abel Ferreira dice, invece, che come tecnico è molto più virile di quanto lo fosse da giocatore. Scolari, Ferreira, lo ha convocato nel Portogallo, nel 2008.
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«Tenevo un diario. Ogni giorno, dopo l’allenamento, tornavo a casa e scrivevo ciò che avevo visto. Cose sulla leadership, sulle strategie...». Tre anni dopo la prima convocazione in Nazionale, Abel Ferreira si infortuna gravemente. Lascia il campo, e accetta di guidare le giovanili dello Sporting Club de Portugal. Arriva fino alla Primavera, contribuendo a lanciare João Mario e Eric Dier. Poi accetta la panchina dello Sporting Braga, nella stagione post Paulo Fonseca: dapprima con dei brevi periodi a interim, poi, a partire dal 2017, a tutti gli effetti. A Braga è dove comincia ad affinare la sua idea di gioco, fatta di solidità difensiva e reattività nelle ripartenze, un gioco massimamente orientato all’efficacia, più che alla spettacolarità offensiva. «Come faceva uno piccolo come Napoleone a battere la gente? Con la strategia. Con i trucchetti», è il suo motto.
Abel Ferreira non è un agent provocateur. È uno che non disdegna le svolte inattese, ma sempre improntate alla resilienza. Delle sue idee, soprattutto. Quando vede esaurirsi il ciclo vitale della sua esperienza al Braga, si trasferisce in Grecia, dove alla guida del Paok si prende il lusso di eliminare dalla Champions League il Benfica di Jorge Jesus. Il santone era tornato in Europa dopo aver vinto la Libertadores con il Mengão. Un mese più tardi, quando Abel Ferreira lascerà i greci per trasferirsi al Palmeiras, non sa ancora che sarà il suo successore nel palmares della competizione, il prosecutore di un’egemonia lusitana.
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Da quando è sbarcato in Sudamerica, Abel Ferreira si è ritagliato uno spazio mediatico ben preciso grazie ai suoi atteggiamenti poco ortodossi, ai punti di vista espressi in conferenza stampa, ai metodi di allenamento capillari, scrupolosi, ossessivi. Una mescolanza di comportamenti molto più intriganti del gioco espresso dal Verdão: il suo modulo preferito è il 5-3-2, in cui i centrocampisti sono spesso molto votati ai compiti difensivi, come Danilo e - soprattutto - il belligerante e redivivo Felipe Melo. Nella recente finale con il Flamengo, per esempio - ma è un trend che si è verificato in tutto il percorso in Libertadores - il Palmeiras ha collezionato un misero 36% di possesso, risucchiando gli avversari nelle ragnatele difensive e attaccando in contropiede. Forse, anche per questo, Abel Ferreira è stato spesso definito un mini-Mourinho: un paragone banale, pigro, ma puntuale nella misura in cui il pragmatismo di Abel Ferreira, in fondo, ricorda la stessa brutale efficacia di quello di Mou.
Abel Ferreira ha raccontato di aver fatto vedere ai suoi giocatori, prima della finale, l’ultimo atto della Champions 2004, quella che ha consacrato il Porto di Mourinho. Ha detto alla sua squadra: «Calma e esperienza. Questo dobbiamo metterci: duro lavoro e disciplina, qualcosa che manca qua in Brasile. È questo il prezzo da pagare per raggiungere la vittoria. Volete pagarlo, questo prezzo?». «Disciplina, duro lavoro, talento: sono le tre parole magiche che mi ripeteva sempre mia madre», aveva ripetuto come un mantra negli spogliatoi, subito dopo la vittoria della Copa do Brasil.
Che gli manchi il carisma, insomma, non si può dire. Ma è un carisma pacato, gentile, tutt’altro che riottoso. Abel Ferreira quando parla gesticola, ha gli occhi spiritati, ma sembra più un guru sotto mescalina che un sobillatore. Parla di valori della società, di tempi oscuri. «Nessuno dice più grazie, o scusa. Tutti che dicono non è stata colpa mia».
Eppure, nonostante le vittorie, i record frantumati, l’iconicità raggiunta in un tempo ridicolo, nel 2021 - cioè nel lasso di tempo che è intercorso tra una Copa e l’altra, pazzesco solo a dirlo - Abel Ferreira è stato spesso al centro delle critiche. Gli hanno rinfacciato di non sfruttare appieno tutto il talento di cui la sua squadra dispone. Quando a maggio ha fatto giocare le riserve, in vista di un match importante di Libertadores, nel derby con il São Paulo - con la possibilità di invischiare i rivali nella zona retrocessione - i tifosi lo hanno definito un disgraziato. E Juca Kfouri, uno dei più importanti giornalisti sportivi brasiliani, lo ha rimproverato di «rivelare il suo lato più spiacevole, quello del colonizzatore» quando ha messo chiaramente in mostra la volontà di imporre le sue idee sull’instabile e caotico mondo del calcio sudamericano.
È anche in risposta a queste critiche che Abel Ferreira è esploso quando il Palmeiras ha conquistato la finale, pareggiando sul campo dell’Atlético Mineiro nella semifinale di ritorno.
Non ce l’aveva con gli avversari, né con i suoi, né con l’arbitro. Poco dopo, in conferenza stampa, avrebbe detto «ho un vicino di casa che è un vero dito in c**o. Ce l’avevo con il mio vicino di casa: deve starsene zitto. A casa mia urlo quanto mi pare». Poi, dopo essersi leccato le labbra, ha aggiunto «sul campo ci stiamo io e i miei giocatori. E li difendo. Sono i migliori perché sono i miei. Nella vittoria e nella sconfitta. Per il mio vicino, che bussa sempre alla mia porta: shhhh». Il vicino, nel discorso metaforico di Abel Ferreira, sarebbero stati tutti i suoi haters. Tutti i giornalisti, i commentatori, addirittura i tifosi che erano pronti a dare il Palmeiras per spacciato.
La spinta motivazionale, insomma, è il propellente principale di Abel Ferreira, e a cascata della sua squadra.
Ed è sull’aria di questa mistica, in fin dei conti, che ha finito per architettare lo spartito di una stagione, anzi della sua intera esperienza brasiliana. Che il Palmeiras potesse bissare la vittoria, francamente, era impronosticabile. Eppure, con il trascorrere dei mesi, il Verdão ha costruito mattone dopo mattone una solidità fatta anche e soprattutto di convinzione nei propri mezzi.
Quando Felipe Melo, prima dell’inizio della finale, ha preso la parola nello spogliatoio, davanti ai compagni, non ha fatto che assecondare questo flusso spirituale: «Dio mi ha detto qualcosa che dovrei essere riluttante a dirvi, ma vi dirò. Sta nella Bibbia, nel libro di Giosuè. Giosuè era un leader, Dio lo aveva scelto per conquistare Gerico, che aveva delle mura molto alte, impossibile da conquistare». «E sapete che ha detto, Dio a Giosué? Arriva lì, fai sei giri, al settimo ruggisci, fai suonare le trombe della vittoria. Abbiamo giocato sei partite, dagli ottavi di finale a qui sono sei partite. E oggi conquisteremo la nostra Gerico. Per noi, per la nostra famiglia, per i nostri figli, i nostri cari. Conquisteremo la nostra Gerico».
Sarà quindi chiaro che la vittoria della seconda Libertadores consecutiva, per il Palmeiras, non è stato per niente il coup de theatre di una totale outsider, ma il risultato concreto di una perseveranza tenace, un obiettivo perseguito (e raggiunto) contro tutto e tutti in nome della coerenza delle proprie idee.
Un trionfo talmente innalzato sull’altare della benevolenza ecumenica da far passare per unsung hero uno come Deyverson, l’autore del gol decisivo, lanciato nella mischia dopo aver racimolato una mezz’ora di gioco scarsa dagli ottavi in poi. Uno come Deyverson che sembra uscito da un quadro di Evandro Schiavone, plateale, circense, pazzo fino allo sconcerto, provocatorio, il villain per eccellenza (se dovessero mai fare un tutorial su come si interpreta il villain, ecco, Deyverson sarebbe un buon caso di studio) che spogliato delle sue sovrastrutture finisce per apparire - ecce homo - come Felipe Melo, come Dudu, come Wéverton, come Abel Ferreira, semplicemente un uomo.
Che si impegna. Che crede in quel che fa. Che condivide un progetto, un cammino. Che a volte vince, a volte perde, a volte semplicemente arriva allo sfinimento. «Se dovete perdonare qualcuno, fatelo oggi» ha detto Deyverson davanti ai giornalisti, prendendo la parola poco dopo il suo allenatore. «Se dovete abbracciare qualcuno, abbracciatelo oggi, baciatelo oggi, ditegli che gli volete bene oggi. Domani non va bene, domani è troppo tardi. Palmeiras campione. Baci». Sul campo, negli spogliatoi, per le vie che andavano popolandosi di tifosi diretti all’aeroporto, nel frattempo impazzava la festa. Ma l’impressione generale è che a Palestra Italia, dove si allena l’idea e il sogno del trionfo, un motivo per essere contenti, soddisfatti, in pace con se stessi, dopotutto, c’è sempre.