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In acqua Simone Barlaam è agile e leggero
05 set 2024
05 set 2024
Storia del nuovo volto dello sport paralimpico italiano.
(copertina)
Foto di IMAGO / Bildbyran
(copertina) Foto di IMAGO / Bildbyran
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Facendo zapping tra una partita dello US Open e una della Serie A, oppure rientrando dalle vacanze, potreste esservi imbattuti nella seguente notizia: la Nazionale italiana di nuoto paralimpico è fortissima. Lo si dice a volte a sproposito, ma ogni superlativo è meritato in questo caso: da tre edizioni dei Mondiali l’Italia vince il medagliere e alle Paralimpiadi di Tokyo arrivarono ben 39 medaglie. In tutte le categorie, distanze e stili, individuale o staffetta, l’Italia arriva a medaglia con grande facilità: le storie sono così tante e così belle che è facile perdersi. Sono diventati normali, a fine giornata, titoli come “L’Italia ha vinto altre sei medaglie nel nuoto alle Paralimpiadi”, oppure “Ancora due ori italiani dal nuoto”.

Vedere giornalmente Carlotta Gilli, Giulia Ghiretti, Stefano Raimondi e tanti altri racimolare medaglie a tale ritmo è sorprendente. Nel nuoto olimpico “basta molto meno” per entrare nella leggenda: Ghiretti ha cinque volte le medaglie olimpiche di Federica Pellegrini, Raimondi tre ori in più di Gregorio Paltrinieri, per dire. Come il movimento del nuoto olimpico è diventato un fiore all’occhiello, anche quello paralimpico sta vivendo un periodo d’oro. A Tokyo 2020, ben 20 nuotatori paralimpici su 29 convocati arrivarono a medaglia.

Secondo gli addetti ai lavori, alcuni momenti-chiave per questa svolta dorata sono stati: la nomina di Riccardo Vernole, 41 anni all’epoca, come commissario tecnico della Nazionale paralimpica (oggi, 15 anni dopo, è ancora CT); la fondazione, nel 2010, di una Federazione e l’immediata intuizione del presidente Roberto Valori di dover «fare qualcosa fuori dalla vasca per coinvolgere gli atleti potenziali», ricorda Vernole; il raggiungimento e il reclutamento, in pochi anni, di tanti futuri campioni grazie a oltre 170 società sportive affiliate alla FINP (solo Valle d’Aosta e Umbria sono “scoperte”); la possibilità per gli atleti paralimpici di entrare nei corpi militari, divenuta realtà solo nel 2021, esattamente come accaduto al poliziotto Marcell Jacobs o alla carabiniera Lisa Vittozzi.

Se il futuro sembra roseo (buona parte di chi sta vincendo adesso ha meno di 25 anni), fino a pochi anni fa «eravamo ancora deboli sugli atleti delle classi alte, tipo S10 (i nuotatori con disabilità moderate a solo un arto, per esempio, ndr) o i visivi. Li abbiamo cercati. È il caso di Carlotta Gilli o Stefano Raimondi» continua il commissario tecnico Vernole. È anche il caso del più forte e del più mediatico di tutti, l’unico atleta in grado di vincere sei ori ai Mondiali di Manchester 2023, uno per ogni gara a cui ha partecipato: Simone Barlaam. Tra 50, 100 e 400 metri stile libero, 100 dorso, 100 farfalla e staffetta 4x100 mista, da solo vinse gli stessi ori di Germania o Stati Uniti.

Non saranno i 23 ori olimpici di Michael Phelps, ma mica male.

Presentando otto atleti “da seguire” per forza tra i circa 4.500 delle Paralimpiadi, BBC non ha dubbi a inserire Barlaam al primo posto. Questo ragazzone di 193 centimetri che assomiglia un po’ ad Adam Driver, un po’ a Simone Fontecchio, è uscito dalla cantera più famosa d’Italia in fatto di nuoto paralimpico: la PolHa di Varese. Fondata dal fisioterapista Giacinto Zoccali nel 1982, la PolHa si è strutturata, ha trovato una sede spaziosa, ottenuta in comodato dal Comune di Varese. Per la presidentessa Daniela Colonna Preti, riuscire a connettere lo sport ai ragazzi disabili rimane «il grande cruccio» di tutti i giorni.

Oggi, quando chiedono a Barlaam quando ha capito di poter diventare un campione, risponde: «Quando ho visto persone sconosciute che credevano in me. Arrivato alla PolHa, ho conosciuto atleti che stavano preparando le Paralimpiadi del 2016, facevano cose surreali. Ho incontrato allenatori che non avrebbero avuto interesse ad investire su di me se non ci avessero visto del vero potenziale. Hanno riacceso una lampadina che si era spenta da un po’».

Il percorso di Barlaam verso la PolHa e le Paralimpiadi è lungo e complicato, come potete immaginare: inizia con un umanista del Trecento e un cardinale del Cinquecento. È Simone stesso a rivelare a Muschio Selvaggio che «la prima celebrità della mia famiglia, se così si può dire» fu Barlaam di Seminara, il maestro di greco e latino di Boccaccio e Petrarca. Molti Barlaam emigrarono dalla Calabria alla Grecia, e poi di nuovo nel centro Italia verso il XVI secolo, rivela Simone, tanto che in Abruzzo è un cognome non così inusuale.

Il ramo paterno della famiglia Barlaam («per assurdo pronunciano meglio il mio cognome all’estero» scherza Simone, perché in Italia si tende a prolungare la doppia “a” e a mettere l’accento lì, invece lui chiama sé stesso “Bàrlam”) arriva da Penne, in provincia di Pescara. Simone «è passato dalle pappe al timballo della mamma e dagli arrosticini dei nonni pennesi», racconta il padre Riccardo, giornalista del Sole 24 Ore. Simone è nato però a Milano (la madre Claudia è lombarda), nel 2000, ed è cresciuto a Cassinetta di Lugagnano, borgo di nemmeno duemila abitanti sul Naviglio grande.

Arrivando a Cassinetta in bicicletta, tramite il notevole reticolo di piste ciclabili del sud-ovest milanese, è impossibile non notarne il fascino. Dal ponte di granito sul Naviglio si vedono una statua di san Carlo Borromeo, una passerella cinta da vasi bianchi con tulipani rossi e svariate ville di famiglie dell’antica nobiltà milanese. Il famoso cardinale del Cinquecento, dice la leggenda, sostò a Cassinetta per riprendersi da una febbre alta. Via fiume tentò di raggiungere Milano per accedere alle migliori cure, ma non vi arrivò.

Se abbiamo indugiato su questi particolari più o meno idilliaci, è perché grazie a un indimenticabile viaggio in bicicletta «qualcosa è cambiato». Ricorda Simone Barlaam: «Era il 2014, da Parigi a Londra sul percorso ciclabile costruito per le Olimpiadi del 2012. Io e mio padre. Anzi: io, mio padre e una gamba. La sintesi perfetta di quei cinque giorni, diventata poi un libro che ha scritto lui, un po’ in onore a Aldo, Giovanni e Giacomo, che sono i miei comici preferiti. Soprattutto perché mio padre si portava una gamba, che poi non è altro che la mia protesi, sul portapacchi posteriore della bici». Simone inizia a fare triathlon perché suo padre ne è grande appassionato, ma nella corsa con stampelle è abbastanza scarso. In bici non va male, invece nel nuoto è proprio forte. «A quel punto fu mia madre a suggerirmi di cercare online notizie sulla Federazione di nuoto. Così mi sono messo in contatto col delegato regionale della Lombardia, che ancora oggi è il mio allenatore: Massimiliano Tosin».

Barlaam e Tosin nel 2019.

Prima di quel momento, Barlaam non aveva mai pensato al nuoto come liberazione agonistica. Fin da bambino Simone entrava in vasca per fare riabilitazione: «Ho imparato a stare a galla prima che a camminare», ha raccontato. Fin dalla nascita ha dovuto fare i conti con una ipoplasia del femore destro, ossia con una gamba meno sviluppata dell’altra, e con la coxa vara, una deformità dell’anca. Quando la madre era incinta, i medici fecero un tentativo di rivolgimento per evitare il parto cesareo: finì che, per correggere la posizione podalica del feto, gli fratturarono il femore. Simone andò sotto i ferri la prima volta a dieci giorni di vita e fino alla preadolescenza lo operarono un’altra dozzina di volte: allungamenti dell’arto, interventi correttivi all’anca, trapianti ossei per consolidare il collo del femore che non teneva.

Per un anno gli hanno rallentato lo sviluppo della gamba sana per evitare che la dismetria tra le due gambe diventasse troppo significativa, mettendogli alcuni ferri dentro le cartilagini. «Per previsione medica sarei dovuto essere alto due metri e uno, in realtà sono “solo” 193 cm». Ogni volta che poggiava il peso su quella che oggi chiama scherzosamente “gambetta”, l’osso del femore si rompeva, ancora e ancora. A seguito di una grave infezione ossea rischiò addirittura di perdere del tutto la “gambetta”. Grazie a due mesi di ricovero in una clinica in Francia e a dodici pastiglie di antibiotici al giorno, la testa del femore si è finalmente stabilizzata.

L’unico dettaglio che ricorda con fastidio è l’insofferenza per la mascherina dell’anestesia, quell’odore intenso di plastica e silicone. «Una delle ultime volte in cui mi sono ritrovato tra le mani dei chirurghi ho chiesto di essere addormentato per via endovenosa. Non lo hanno fatto, ho tentato di dimenarmi, di ribellarmi, ma stavo già perdendo i sensi. Durante quel sonno credo sia scattata la mia voglia di agonismo». Da qui arrivano le interminabili giornate con due allenamenti in vasca oltre ai pesi in palestra, l’arrivo alla Polha e le prime gare.

Un ultimo fattore chiave nella sua crescita è la decisione di affrontare il quarto anno di liceo scientifico in Australia. In più intervista ha raccontato che, appena arrivato down under, non faceva che piangere e chiedersi chi glielo avesse fatto fare. Giorno dopo giorno le cose sono migliorate, anche perché Massimiliano Tosin aveva contatti laggiù e lo ha spedito alla Castle Hill High School, a mezz’ora da Sydney, una scuola con piscina nella quale si sarebbe potuto allenare benissimo.

Barlaam partecipa ai suoi primi Mondiali che non è ancora maggiorenne, volando direttamente da Sydney a Città del Messico. Furono Mondiali particolari, rinviati di due mesi a causa di un terremoto di magnitudo 7.1, ma già alla prima rassegna iridata inizia a portarsi a casa due dei 19 ori che già vanta. «Finalmente ho più medaglie degli interventi che ho fatto» scherzò. Il primo oro in assoluto lo dedicò al nonno, venuto a mancare pochi giorni prima.

Tornato in Italia, alla PolHa è stato preso sotto l’ala protettrice da Federico Morlacchi, un otto volte medaglia paralimpica di Luino. I due rientrano nella stessa categoria di disabilità, la S9. «È il mio mentore, il fratello maggiore che mi ha fatto crescere e aiutato a diventare quello che sono» assicura Barlaam. E quando gli chiedono il consiglio migliore che Morlacchi gli abbia dato, lui risponde con un sorriso: «Mi ha insegnato a tappare le narici con le labbra mentre vado a dorso». Proprio con Morlacchi condivide un bellissimo oro ex-aequo ai Mondiali di Londra 2019: il momento in cui si accorgono di aver vinto i 100 farfalla è uno dei momenti più alti dello sport paralimpico italiano.

Qui la gara completa.

Fisicamente Morlacchi non potrebbe essere più diverso da Barlaam. Se il primo è 172 cm per 60 chili, Barlaam è molto più alto e circa 15 chili in più. Soprattutto, Barlaam ha un’apertura alare di due metri e otto centimetri, ben sette in più di Michael Phelps e Ryan Lochte. La caratteristica forse più importante tra quelle che lo hanno portato ad essere uno dei migliori nuotatori al mondo, tuttavia, è una solidità mentale notevole, arrivata dopo momenti bui tra pandemia e Tokyo.

«L’anno del Covid mi sono ritrovato faccia a faccia con i miei fantasmi. Mi ero lasciato in maniera brusca con la mia fidanzata dell’epoca, ero diventato un po’ ipocondriaco perché avevo paura di risultare positivo ai test e quindi non poter partecipare alle gare, inoltre avevo sviluppato alcune ossessioni riguardo al cibo. Pesavo 72 chili e pure considerato la mia gambetta smilza, più corta e senza muscoli, era troppo poco. Non ero mai tranquillo, vivevo nervoso. Per paura di essere contagiato, mi sono isolato, vedendo poco la mia famiglia e i miei amici. Lì ho capito quanto sia importante la socialità». Barlaam ha sofferto l’atmosfera che si respirava alle Paralimpiadi di Tokyo: «Durante il riscaldamento, ad esempio, avevo quasi il disgusto ad entrare in acqua, non ne potevo più. Avevo pensato addirittura di smettere». Altre volte ha definito l’esperienza giapponese «un’ansia totale, che ti mangia dentro». Una fase complessa della carriera superata anche grazie ad una lettera della sorella Alice («Ricordati la strada che hai fatto») e al supporto di una psicologa.

La gara in cui è di un’altra categoria rispetto a tutti gli altri sono i 50 metri stile libero. Ha abbassato quattro volte il record del mondo e da Città del Messico 2017 ha vinto tutte e nove le gare che ha disputato su questa distanza, tra Europei, Mondiali e Olimpiadi. È un nuotatore che non fa tanti calcoli, Barlaam, com’è richiesto spesso a chi gareggia su distanze corte come lui: quando ne ha non si fa problemi a fare tutta la gara in testa. Nel più combattuto dei sei ori che ha vinto a Manchester, quello dei 400 stile, nei primi 300 metri resiste al francese Ugo Didier e all’australiano Brenden Hall, specialisti di questa distanza, poi mette il turbo nelle ultime due vasche. I sei ori di Manchester gli sono valsi il premio di atleta dell’anno del Comitato Paralimpico Internazionale.

Si arriva così a Parigi 2024. Niente più ospedale pediatrico di Saint-Vincent-de-Paul, ma La Défense Arena, sede delle gare di nuoto. Barlaam non ha portato con sé alcun oggetto scaramantico, ma nella sua borsa non mancano mai fumetti da leggere («quando ho incontrato Zerocalcare mi sono tremate le gambe») e la Nintendo Switch, alla quale gioca con Morlacchi e Alberto Amodeo, altro nuotatore paralimpico della PolHa. I tre hanno pure aperto un account Instagram in cui condividono foto buffe e auto-ironiche, chiamandolo “le 3 gambette”, che centra perfettamente il modo in cui lo sport paralimpico sta provando a raccontarsi negli ultimi tempi: senza enfasi eccessiva, senza pietismi, ma col desiderio di normalizzare la disabilità.

Barlaam inizia fortissimo a Parigi. Ottiene un argento insperato nei 400 stile libero categoria S9, la distanza più lunga del nuoto paralimpico, e festeggia in grande stile, sollevandosi sulla corsia, come fa spesso. Entra in finale dei 50 stile libero col miglior tempo, domina la finale non perdendo mai la prima posizione dopo i 20 metri, abbassa ulteriormente il suo stesso primato del mondo. Se gli avversari faticano a scendere sotto i 25 secondi, Barlaam ha già nuotato più volte sotto i 24. Federica Fornasiero, istruttrice di nuoto e voce tecnica per Rai Sport, è ammaliata dalla tecnica di Barlaam: «Ha fatto un tocco senza la necessità di scivolare, è arrivato quasi abbracciando la piastra, e questo gli ha permesso di togliere quei sei decimi dal precedente record del mondo».

A differenza del Mondiale, la categoria S9 alle Olimpiadi non prevede i 100 metri stile libero, distanza nella quale ha dovuto gareggiare contro atleti di categoria S10. Ha raggiunto comunque un notevole quinto posto, firmando il record paralimpico per la categoria S9, poi però qualcosa è andato storto nei 100 dorso. Si qualifica in finale col settimo tempo e chiude la finale al sesto posto, calando vistosamente nella vasca di ritorno.

Quando gli comunicano il tempo, un po’ amareggiato Barlaam confessa: «È un tempo lento. Ci ho provato, ma ho accusato molto, specialmente alla fine. Le energie erano quelle che erano, purtroppo oggi è andata così. Peccato per la performance, speravo un po’ meglio». Sta accusando le fatiche dei giorni scorsi più del previsto, «e qua si è visto con la morte nel finale, diciamo». Sorride. Uscito dalla piscina è andato a complimentarsi col vincitore, Yahor Shchalkanau, autore anche del record olimpico: «È un mio competitor di vecchia data, se l’è meritata. Gli mancava l’oro, ci sperava tanto e sono contento per lui».

È per questo atteggiamento positivo, per il sorriso contagioso, per un indole sì sciolta e rilassata ma anche molto seria e tenace, che è diventato la faccia del movimento. Ospite di Fedez e Luis Sal in uno degli show più visti d’Italia, è a suo agio sia nel parlare di quando nuotò contro un ex terrorista spagnolo condannato all’ergastolo sia nel descrivere con precisione tecnica (studia ingegneria meccanica al Politecnico di Milano) cosa vorrebbe modificare nella sua protesi. Se la toglie per mostrarla a Fedez e Sal e quando se la rimette scherza dicendo «mi rimonto». È un timidone fedele ai canoni del bravo ragazzo, ma con un senso dell’umorismo da Andy Murray o Geraint Thomas. Racconta spesso, per esempio, di un allenamento estenuante a delfino. L’allenatore disse a lui e ai suoi compagni di continuare a nuotare con quello stile finché ne avevano: «Dopo 400 metri mi sono fermato perché non era più un delfino quello, ma una balena spiaggiata».

Ha due passioni spontanee, che si legano tra loro e sono perfette per il personaggio: il disegno e gli squali. Sta con la matita in mano da quando, durante uno dei tanti ricoveri da bambino, allarmò tutto il reparto una volta che i videogiochi lo mandarono in tachicardia. Disegna soprattutto creature marine, con ottimi risultati. «Sono un autodidatta. Mi piace disegnare. Forse tutto è nato quando mamma, nel periodo in cui ero in ospedale, rappresentava su un foglio di carta squali e balene». Non si può non volere bene a uno che potrebbe andare in vacanza ovunque e a fare qualsiasi cosa e invece vuole andare in Madagascar per cercare «lo squalo balena, il pesce vertebrato più grande del mondo. Si nutre filtrando l’acqua, è pacifico».

A volte, inoltre, il rapporto di certi nuotatori col loro sport, con la materia stessa in cui si svolge la gara, cioè l’acqua, è ambivalente, se non proprio d’odio. Nel capitolo di La caduta dei campioni dedicato a Rūta Meilutytė, Giuseppe Pastore parla di un’atleta giovanissima sprofondata nel grigiore delle palestre in cui non faceva altro che allenarsi, e allenarsi, e allenarsi, fino a far diventare il nuoto uno sport violento. E poi questo stralcio, della nuotatrice australiana Cate Campbell, una delle cose più desolanti dette uno sportivo che mi sia capitato di leggere: «Mi sono congedata. Ma il termine militare è sbagliato, nessuno mi ha imposto il nuoto, l'ho scelto io. In Malawi, dove sono cresciuta, mi sono trovata a dividere il fiume con un ippopotamo. Era divertente. A Rio qualcosa in me è bruciato, come una forte depressione, non riuscivo a riprendermi. Sembravo in uno stato post mortem».

Ecco, Barlaam mi sembra ribalti totalmente questa prospettiva. A Simone è sempre piaciuto stare a mollo per lunghe ore, siccome tutto sommato nuotare era lo sforzo più facile che potesse fare. «Le mie gambe di cristallo mi hanno lasciato l’acqua come unica possibilità di sport e a me piace, è un elemento che mi fa sentire leggero e agile. Sulla terra ferma sono goffo, maldestro». Pur essendo tutt’altro che invincibile e ammettendo alcune difficoltà («tuffarmi la mattina presto nella piscina ghiacciata, d’inverno, mi pesa molto»), Barlaam ama ciò che fa a un livello talmente intimo ed esistenziale che è impossibile da comprendere appieno per chi non ha la routine di un nuotatore.

Lo si può ancora vedere in gara a Parigi 2024, Simone Barlaam: il 6 settembre nei 100 metri farfalla e il giorno dopo, nella 4x100 mista. Oppure lo potreste trovare ovunque ci sia una quantità d’acqua sufficiente per tuffarsi e nuotare: gli piacerebbe nuotare tra gli squali dell’Oceano indiano anche senza gabbia di protezione, «se devo morire voglio morire così». Ha già nuotato anche da Cassinetta di Lugagnano fino ai Navigli di Milano centro, dove si va a fare aperitivo. Potrebbe nuotare in uno stagno o nella vasca da bagno: come nessun’altra cosa, il nuoto lo fa sentire leggero.


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