Sono le 10.15 di domenica 22 giugno, l'anno è il 1986, l’autobus della Nazionale argentina si avvicina allo stadio Azteca entrando dalla Calzada de Talplan mentre all’interno risuona ‘The Eye of the Tiger’, una delle tre canzoni che durante tutto il mondiale hanno accompagnato l’arrivo della Albiceleste allo stadio. Le tribune sono ancora praticamente vuote, ma Carlos Bilardo, l'allenatore argentino ossessionato dalla fobia di fare tardi, ha deciso di anticipare di molto l’arrivo, anche per controllare lo stato di un campo solitamente stopposo, reso ancora meno praticabile dall’acquazzone della notte precedente. L’autobus trasporta i soliti uomini, i soliti borsoni, ma non le stesse maglie azzurre utilizzate dai giocatori sei giorni prima, durante la sfida per gli ottavi di finale contro l’Uruguay.
I giocatori argentini quel giorno avrebbero indossato una maglia non ufficiale, che pure aveva ricevuto la benedizione del capitano: «Mi piace, con questa vinciamo contro l’Inghilterra». Quegli indumenti, che in teoria quella stessa domenica avrebbero dovuto prendere polvere in un negozio di Città del Messico, sarebbero presto entrati nella storia, e oggi riposano nei musei: dopo quella partita sono investiti di un valore incalcolabile, generato dal sudore dei protagonisti di una delle partite più leggendarie della storia del calcio.
Una maglia improvvisata
La storia è la seguente. Conoscendo le difficoltà climatiche proposte dalle alture messicane, il tecnico Carlos Salvador Bilardo aveva chiesto espressamente alla Le Coq Sportif, lo sponsor tecnico della Selección, di fornire alla squadra una divisa leggera, che permettesse al sudore di evaporare invece di accumularsi e appesantire respirazione e movimenti dei calciatori.
Contro l’Inghilterra, però, bisognava usare la seconda maglia, quella blu, alla quale la Le Coq non aveva riservato lo stesso trattamento della prima. Alla fine della gara degli ottavi contro l’Uruguay, tra il caldo e un acquazzone estemporaneo, la maglia era risultata pesare ben cinque kg in più. Bilardo, in preda a una delle sue manie convulsive – i suoi rituali scaramantici prevedevano, per esempio, che Ricardo Giusti si infilasse una caramella per la gola nella linea di campo prima che iniziassero le partite – decise che non si sarebbe mai giocato con la maglia di riserva, ma che bisognava trovarne un’altra in fretta. Moschella e Benros, i due aiutanti di Bilardo, furono inviati a cercare una divisa simile con il logo Le Coq Sportif per tutta Città del Messico. A risolvere la situazione, il venerdì 20 giugno, fu Héctor Miguel Zelada, che a quel Mondiale non doveva neanche partecipare.
Hèctor Miguel Zelada in tutto il suo splendore.
Zelada giocava nell’America, il club messicano che in quel periodo aveva prestato le sue strutture di allenamento alla Nazionale argentina. Dopo il taglio di Ubaldo Fillol, uomo troppo vicino a César Luis Menotti per i gusti di Bilardo, venne chiamato Zelada a fare da terzo portiere. Grazie alle sue conoscenze riuscì a trovare un negozio con maglie Le Coq simili a quelle necessarie per giocare contro l’Inghilterra, e più leggere di quelle che la delegazione argentina aveva in stock. Il resto lo avrebbero fatto le donne di servizio del centro sportivo dell’America, che nel pomeriggio di sabato 21 giugno cucirono il logo della AFA sulle maglie non ufficiali, rendendole così presentabili. L’ultimo tocco fu quello dei numeri: in nessun negozio Moschella e Benros trovarono quelli bianchi che il tono blu scuro imponeva. L’alternativa furono dei numeri argentati, usati solitamente per le maglie di football americano.
Un movimento collaudato
È proprio quel riflesso argentato del 10 su sfondo blu che luccica sulle spalle di Maradona, quando al 59’ riceve a centrocampo in posizione di interno destro, circondato da due inglesi. Maradona che sterza di 180º e parte per la sua cavalcata memorabile. La genesi di quel movimento risale agli allenamenti effettuati mesi prima a Napoli, quando Bilardo andò a trovare il perno della sua squadra: «Andai a Napoli a marzo e ci restai per un periodo nel quale prendevo Maradona in disparte dopo gli allenamenti con la squadra azzurra. La società ci aveva prestato un campo a Soccavo e gli mostravo i movimenti da fare, su tutti il controllo della palla stando spalle alla porta, perché sapevo che lo avrebbero marcato molto da vicino in ogni zona del campo. Ecco, quella giravolta tra Beardsley e Reid fu una giocata che provammo spesso in quel periodo».
La giravolta che Bilardo dice avevano provato e riprovato. Genio ma non improvvisazione?
Evidentemente, il ricordo della serrata e tignosa marcatura di Claudio Gentile al mondiale precedente era rimasto impresso in Bilardo. Per non cadere nella stessa trappola aveva studiato tutto per vincere, facendo leva innanzitutto su Maradona: «In quelle prove di mondiale ricordo che spesso venivano anche dei giocatori del Napoli ad aiutare Diego. E pensai che se fosse stato capace di svincolarsi meglio dalle marcature dei difensori italiani, al Mondiale sarebbe arrivato ben allenato. E così fu, anche se di mio nel gol c’è poco, si trattò di una genialità pura di Diego, un tango che solo lui poteva ballare».
La lepre sfugge ai cacciatori
Col primo passo di quel tango, dopo il giro a 180 gradi, elude l’intervento di un brizzolato numero 16, Peter Reid, mediano di rottura dell’Everton. «Ho pensato che mi toccava seguirlo, Hoddle era a terra per un fallo non fischiato e spettava a me fermare Maradona, anche perché il mio compagno più vicino era Beardsley, un attaccante» La ‘jugada de todos los tiempos’ secondo il celebre racconto dal vivo di Victor Hugo Morales, è anche facilitata dalla scelta dell’allenatore inglese Bobby Robson di non marcare a uomo Maradona. Reid prova a tenere il passo ma non ci riesce, seguendolo fino quasi al limite dell’area, quando Butcher prova a fermarlo per la prima volta.
Il resto è storia nota, con Reid che assiste impotente, come un cacciatore dietro la lepre in fuga, per poi pentirsi: «Il mio unico errore è stato non acciuffarlo subito». Una dichiarazione che per certi versi conferma la tesi di Maradona, secondo cui un gol del genere è stato reso possibile anche dalla grande nobiltà sportiva degli inglesi, che non lo falciarono.
Con un po' di cinismo in più, Reid avrebbe potuto fare fallo anche quando gli ripassa davanti.
Alcuni compagni corrono ad abbracciare Maradona, mentre Bilardo, freddissimo, dalla panchina li richiama all’ordine: «Avevo vietato a chi non fosse vicino al marcatore di non festeggiare con lui, perché per via dell’altura potevano perdere ossigeno e mancava ancora mezz’ora, ma Enrique non mi diede ascolto». Héctor Enrique, il numero 12 che aveva avviato l’azione, si avvicinò a Maradona per abbracciarlo e dirgli «Come potevi sbagliare dopo il passaggio che ti ho fatto?».
Dopo quella giocata Reid lascia il posto a un debuttante, John Barnes, ala del Watford di origini giamaicane.
Cambio di ritmo
Barnes aveva assistito dalla panchina a tutti i quattro precedenti incontri dell’Inghilterra, di conseguenza aveva visto i due gol precedenti di Maradona: «Al primo gol saltai ed ero convinto che fosse mano, fu una giocata rapidissima ma dalla panchina fu chiaro che Diego aveva barato». Durante il secondo gol, Barnes stava iniziando a spogliarsi per iniziare il riscaldamento, quando vide il pallone entrare in rete: «In quel momento avrei voluto applaudire, ma l’ho fatto solo dentro di me, ma mi resi conto di essere di fronte a un calciatore unico, il migliore di sempre, tutt’oggi». Per Barnes quella non fu una partita normale: «mi sono sentito privilegiato per aver potuto vedere quello spettacolo, nonostante stessimo dicendo addio al mondiale. Quando mi toccò entrare in campo provai un doppio brivido, quello di debuttare in un mondiale e quello di affrontare Maradona».
Barnes troverà lo spunto per servire Lineker, che segna il gol del 2 a 1 che paralizza l’Argentina. Poi, pochi minuti dopo, un’azione simile si ripete dalla sinistra: «Avevo guadagnato di nuovo il fondo e avevo pensato che Lineker potesse fare il bis. Ma stavolta, anche se Ruggeri lo aveva di nuovo dimenticato, non era solo…».
Tutta la classe caraibica di John Barnes.
Olarticoechea, l’eroe imprevedibile
L’uomo al quale fa riferimento Barnes è Julio Olarticoechea, esterno sinistro allora in forza al Boca Juniors. Quel giorno Olarticechea debutta da titolare a causa della squalifica di Oscar Garré, ammonito per errore dall’arbitro italiano Luigi Agnolin negli ottavi di finale. L’esterno del Boca diventerà un elemento cardine del 3-5-2 impostato da Bilardo per la prima volta in quel mondiale.
Olarticoechea, detto il “Vaco”, era salito per ultimo sull’aereo per il Messico un mese e mezzo prima, poco convinto di partecipare al mondiale. Non doveva essere convocato, poi, una domenica di marzo, Bilardo si fece trovare appostato all’uscita del primo casello autostradale dopo Buenos Aires. Il calciatore andava fuori città con sua moglie e sua figlia di tre anni per staccare la spina e trovare pace nella sua Saladillo, località a 200 km dalla capitale.
Bilardo lo convinse a scendere dalla macchina, poi prese una pietra trovata lì e iniziò a disegnare il suo rivoluzionario 3-5-2: «Voglio che tu venga al mondiale perché mi serve che tu giochi qui» disse Bilardo, indicando il ruolo da esterno sinistro offensivo che Olarticoechea avrebbe ricoperto quel 22 giugno. Di fronte allo scetticismo del calciatore il tecnico gli disse di pensarci.
Quando Olarticoechea, qualche giorno dopo, accettò, prese davvero forma la candidatura dell’Argentina a campione del mondo. «È vero all’inizio non volevo andare, e poi ho finito per incidere molto, proprio nel modo in cui Bilardo mi aveva indicato, giocando in quella posizione, che tra l’altro è quella dalla quale passo il pallone a Diego nell’azione del primo gol, quello con la mano. Eppure non è quella l’azione più importante alla quale io abbia partecipato in quell’incontro».
Il riferimento è proprio al secondo cross di Barnes, con Ruggeri che dimentica nuovamente Lineker e lascia l’Argentina intera col fiato in gola. «Avevo visto il cross dalla sinistra e avevo seguito solo il pallone, quando all’improvviso me lo ritrovai in testa, col grosso rischio di fare un autogol. Lineker mi cadde addosso e in qualche modo la toccai con la nuca, per poi franare a terra. Non sapevo se il boato venisse dal settore argentino o da quello inglese. Poi vidi che la palla non era entrata e che Lineker giaceva a terra impotente, lui che aveva fatto sei gol in cinque partite. Si trattò di un autentico sollievo e da quel giorno dico sempre che alla Mano de Dios di Diego fece eco la mia Nuca de Dios».
L'anticipo fenomenale sulla linea di Olarticoechea.
Dopo quell’episodio l’Inghilterra smette di provarci. «Alla fine di quella partita, ero sicuro che avremmo vinto il mondiale”, chiosa Bilardo, che ancora non si era lasciato andare. Il tempo oramai si era fermato e la storia si era riscritta all’Azteca. Da quel momento, come disse lo scrittore argentino Eduardo Sacheri, “nulla sarà più come prima”.