
È trascorsa una settimana dalla morte di Davide Astori. Dopo il ritratto di Tommaso Giagni, abbiamo voluto dedicare all'ex capitano della Fiorentina anche tre ricordi personali che sono tre piccolissimi omaggi alla sua memoria.
Grazie ad Astori ho capito di non essere un impostore
di Giovanni Fontana
Il modo in cui ho scoperto della morte di Davide Astori è stato un messaggio di un’amica che diceva solo tre parole: “Bruttissimo, mi dispiace”. Non aggiungeva altro, né spiegazioni o contesto. Perciò ho inizialmente pensato che quell’amica avesse sbagliato destinatario, poi che mi fossi perso io qualcosa. Infine ho aperto una pagina di non so quale giornale e ho letto che era morto il capitano della squadra per cui faccio il tifo. Che sì, mi ero perso qualcosa, avevo perso qualcuno.
L’impiego di quella prima persona dell’indicativo imperfetto, “avevo”, significa molto. Significa che, in qualche strano modo, penso di avere una sorta di titolo per rivendicare un dispiacere personale – cosa che, evidentemente, dava per scontato anche il messaggio che avevo ricevuto – per il fatto che fosse morto un giocatore della Fiorentina.
E questo mi ha fatto pensare. Chi era Davide Astori per me?
È una domanda che mi è rimbalzata in testa per diverse ore: quando ho aperto quel giornale e ho letto quel che era successo sono rimasto colpito, molto colpito. E ho immediatamente trovato naturale la premura della mia amica, alla quale sono seguite quelle – molto simili – di tanti altri amici. Ma perché?
Perché ne soffrivo di più, o in maniera più personale, di quanto non faccia quotidianamente per le tante morti ingiuste e premature? E cosa fa di me un legittimo destinatario di quelle che non sono altro che condoglianze, per una persona che non ho mai incontrato in vita mia?
In quella strana domenica, tutte queste considerazioni hanno mescolato, a un dolore che non sapevo analizzare fino in fondo, un senso di disagio nei confronti dei miei stessi sentimenti.
Mi sono sentito un impostore.
Così ho cominciato a scavare, e ho trovato delle risposte, che pur non essendo definitive, hanno sublimato quel senso di impostura. La morte di Astori mi ha fatto capire cos’è che amo dell’essere un tifoso di calcio. Non del bel calcio: lo spettacolo di una bella partita, o la meraviglia di un perfetto gesto tecnico. Ma neppure del calcio in sé: la migliore delle storie di rimonta o la più istruttiva delle analisi tattiche. No, proprio dell’essere tifoso: quello che è felice perché la sua squadra vince o è triste perché la sua squadra perde.
Tifare una squadra vuol dire acquisire un’altra personalità, un’altra dimensione nella quale – per le persone che hai intorno, e quindi inevitabilmente anche per te stesso – sei quella squadra. Se la Fiorentina perde male una partita, è naturale sentirsi domandare "che cazzo avete fatto domenica?", come se quella sconfitta fosse colpa mia. Se la Fiorentina vince una partita difficile non è strano che quegli amici mi inviino dei complimenti. Allo stesso modo, se l’Inter vince un trofeo io non penso a quella squadra, al suo presidente o alla sua società: penso immediatamente alla felicità dei miei amici interisti, che per me sono l’Inter.
Ovviamente nessuno di noi è davvero convinto di essere la Fiorentina o la Juventus, ma è in questo autoironico senso di grandiosità, dell’accettare di prendersi in giro fingendosi importanti, che si realizza la magia del trovare significato e gioia in uno sport come il calcio. Il mio essere un tifoso non si declinerà mai nel picchiare qualcuno o nel perdere il senno in nome della squadra; ma di certo, quotidianamente, opero la spericolata decisione di affidare un po' della mia felicità a questo gioco, per mezzo delle persone alle quali voglio bene.
Non è il legame che l’adolescente ha con la celebrità dei suoi sogni: Astori non era il mio idolo, e fra i giocatori che sono stati capitani della Fiorentina non è certamente il più emblematico. Eppure il personaggio che gli appassionati di calcio, e i tifosi della Fiorentina in particolare, vedevano in Astori ispirava un’indecifrabile fiducia, un’inspiegabile autenticità.
Se si vanno a leggere le cose che sono state scritte o dette di lui in questi giorni non ce n’è una peculiare, solamente il più completo campionario delle più consumate banalità. Un esempio per tutti. Sguardo pulito. Un uomo vero. Più la persona dell’atleta. Sempre sorridente. Un calciatore umile. Mai sopra le righe. Cuore buono. Ragazzo acqua e sapone. Persona perbene, anzi PERSONA PERBENE, come ha scritto Buffon.
Eppure mentre rileggo ciascuna di queste frasi vuote, che in centinaia di circostanze abbiamo sentito associare a chiunque, sento la necessità di protestare nei confronti di un interlocutore immaginario: «no, ma questa volta è vero!».
Astori era, in questo modo strano, una persona presente nella mia vita, che aveva il potere di influenzare la mia felicità, di cui pensavo di conoscere la personalità e con la quale avevo costruito – da tifoso – un unilaterale rapporto personale.
È per questo che di fronte alla sua morte non ho trovato niente di illegittimo nel fatto che otto persone diverse mi abbiano scritto lo stesso messaggio: "mi dispiace". Nessuna di queste ha dovuto specificare il perché, di cosa si stessero dispiacendo. Era ovvio, a me e a loro.
"Mi dispiace", era più che sufficiente.
Perché per tutti era come se Davide Astori fosse un mio amico, una persona a me cara, un ragazzo al quale ero affezionato. E, in fondo, non avevano tutti i torti.
Così vicino e familiare
di Emanuele Atturo
Quando è stata l’ultima volta, prima di domenica, in cui si era parlato di Davide Astori? La sua ultima partita in Nazionale risale al settembre del 2016 (contro Israele), ma già da qualche anno non era più tra i titolari della difesa, e nel placido rifugio di provincia di una squadra come la Fiorentina in molti si erano dimenticati di lui. Era uno di quei nomi che ti abitui ad ascoltare in sottofondo la domenica pomeriggio. Uno di quei personaggi secondari della Serie A che non rilasciano interviste ai quotidiani, ancor meno alle riviste patinate, di cui si parla solo quando commettono qualche errore o, molto più raro per giocatori di questo tipo, qualche prodezza.
Nessuno di noi aveva un’idea personale o particolarmente significativa su Davide Astori, eppure alla notizia scioccante della sua morte si è accompagnata una strana sensazione di intimità, come se fosse molto più vicino a noi di quanto pensavamo, come se, in un certo senso, lo conoscessimo. All’improvviso abbiamo preso consapevolezza di quanto ci fosse familiare il suo volto, il suo modo di giocare, il suo modo diessere. E, con questa consapevolezza, ci siamo resi conto di quanto profondamente ci addolorasse la sua perdita: anche attraverso la bolla di solito ambigua dei social network, la copertura mediatica rispettosa e goffa, si riusciva a capire quanto il sentimento della sua scomparsa fosse profondo, autentico e senza ipocrisie.
Non era scontato. In fondo, proprio il fatto che non avevamo sviluppato con Astori quel rapporto di prossimità che si ha con i personaggi pubblici più esposti, non solo del mondo del calcio, rispetto a cui elaboriamo affetti e antipatie spropositate. La sua era una presenza che davamo quasi per scontata.
In questi anni Astori era però riuscito a trasmetterci, attraverso piccoli dettagli, un calore che lo distingueva dagli altri: il sorriso leggero, la compostezza in campo, le interviste in cui si descriveva come “un ragazzo riflessivo”. Nel momento in cui è stato nominato capitano della Fiorentina, nel ritiro di Moena, accolto dagli applausi, è sbucato da dietro i compagni con le braccia conserte e l’aria imbarazzata, letteralmente in punta di piedi. Ha dichiarato subito che nel gruppo sarebbero stati in tanti a spartirsi le responsabilità, rifiutando l’idea eroica di “capitano” che inconsciamente riteniamo l’unica possibile nel calcio.
Il suo stile in campo rispecchiava questa dolcezza così inusuale. Chi voleva fargli un complimento si riferiva a lui come a “un difensore intelligente”, per sottolineare che era più a suo agio col pallone che senza, e che preferiva l’anticipo alla marcatura, dove non riusciva sempre a far “sentire il fisico”. Commetteva degli errori e questo, in uno sport dai punteggi bassi come il calcio, lo esponeva a piccoli drammi tipici della quotidianità dei difensori. La sua compostezza è stata spesso fraintesa come mancanza di carisma, altro problema tipico di quei calciatori che sembrano quasi antropologicamente estranei al mondo del calcio.
Dopo la notizia della sua morte, domenica, non sono riuscito a fare niente. Ho passato la giornata a leggere i tweet di cordoglio di club, compagni di squadra, tifosi, in una strana elaborazione del lutto collettiva. Tutti i messaggi di chi lo conosceva direttamente contenevano una solennità speciale, da cui traspariva lo sforzo di restituire la bontà di Astori come fosse un miracolo inesprimibile a parole. Buffon che scrive due volte, in maiuscolo, la definizione di “persona per bene”; Bonucci che dice “con quel sorriso che non finiva mai e che faceva capire quanto di buono c’era dentro di te”. Saponara che ricorda “il bene e la positività che doni quotidianamente a tutti noi”, parlando ancora al presente.
Nel nostro dolore collettivo non c’entra solo l’assurdità della morte improvvisa di Davide Astori, di un ragazzo di trent’anni apparentemente in perfetta salute, il senso di caducità ineluttabile di un corpo che cede al colmo delle proprie forze.
C’entra il fatto che Astori era riuscito a trasmettere la propria purezza senza che ce ne rendessimo conto. È impossibile da spiegare, ci sto provando e non ho timore ammettere il mio stesso fallimento, ma questa consapevolezza di chi fosse Davide Astori, che lo distingueva da tutti gli altri calciatori, più o meno conosciuti di lui, era in qualche modo evidente.
Ho passato la giornata a cercarne le tracce su Internet, provando a renderlo palpabile. Ho riguardato il video di quando Astori è stato presentato come nuovo giocatore nella “mia” squadra, diventando un “mio” giocatore. “Ha giocato 179 partite e 3 gol, ha scelto la Roma, il numero 23, Davide Astori”. Lui che corricchia applaudendo la curva, che lo saluta con calore, una musica fin troppo solenne in sottofondo. L’intervista doppia prima di Inter - Roma in cui dice a Ranocchia: “Voglio vederti sorridente per domenica”. Ho riletto una vecchia intervista in cui parla dei suoi inizi al Ponte San Pietro, e fra le cose che gli mancano cita: “Il tè del magazziniere Manzoni: il più buono degli ultimi 20 anni”. Ricordo anche quando qualche anno fa la mia squadra aveva giocato contro il suo Cagliari. A un certo punto della partita Mattia Destro aveva colpito Astori con un pugno in un duello in corsa, buttandosi poi a terra, Destro, come se fosse stato colpito. Astori aveva avuto una reazione stizzita, niente di trascendentale ma si era beccato anche il cartellino giallo. A fine partita era uscita la foto di Astori e Destro abbracciati e sorridenti.
Ad ottobre avevo scritto un breve pezzo sul periodo complicato che stava vivendo Astori. Si diceva che la fascia da capitano non gli aveva fatto bene, visto che aveva iniziato la stagione con qualche errore. In una partita difficile contro il Crotone, dove due gol avversari erano nati da due errori viola, Astori era stato protagonista negativo in entrambi i gol avversari ma, a pochi minuti dalla fine, era anche riuscito a recuperare Trotta lanciato a rete con una scivolata disperata, dove ha arpionato il pallone col tacco. Un piccolo intervento dimenticabile, ma che oggi ricordo con malinconia non solo per ragioni strettamente personali, ma perché ho l’impressione che dica bene della capacità di reazione alle avversità che raramente gli era stata riconosciuta.
Astori era il contrario dell’idea machista di calciatore, mai ossessionato dal successo e dalla gloria personale. Quando era andato via dalla Roma aveva definito Firenze la sua dimensione “ideale”. Una persona che non si faceva problemi a dare un’immagine semplice, quasi banale di sé, riuscendo comunque a schivare la retorica appiccicosa dell’umiltà.
Per celebrare i personaggi come Astori si usa spesso la categoria della “normalità”, ma rischia di essere una definizione logora, che può finire per appiattire il nostro ricordo. Nel modo schietto e genuino in cui Astori era riuscito a farsi conoscere, mostrando solo il lato bello dello sport e dell’essere umano, resistendo e reagendo quando le cose andavano male, accettando la propria dimensione senza sentirsi frustrato, abbiamo invece riconosciuto in lui qualcosa di davvero speciale.
Quel senso di doloroso spaesamento che abbiamo provato alla notizia della sua scomparsa, sentendolo così vicino e familiare, racchiude meglio di qualsiasi altra cosa, quello che di Davide Astori ci mancherà.
Le qualità di Davide Astori
di Daniele Manusia
Il meteo del giorno prima diceva che sarebbe dovuto essere brutto tempo, ma ricordo che domenica 4 marzo c’era un sole pallido. Abbiamo votato presto e siamo andati al parco con il cane, una meticcia di cinque mesi, che fino a poche settimane fa del mondo aveva visto solo il canile di fronte al quale era stata abbandonata appena nata. Mi sono accorto di aver dimenticato il telefono in macchina, una volta al parco, e di aver pensato che per una volta potevo anche non vedere oltre il mio naso.
Ricordo che a un certo punto il cane ha girato dietro un cespuglio senza fermarsi al richiamo, e per un attimo abbiamo temuto di non ritrovarlo in mezzo alla folla, o che continuasse fino alla strada non lontana dove passavano le macchine. L’abbiamo ritrovato a pochi metri di distanza, fermo come una statua di fronte a dei pony a riposo vicino a una fontana. Poco dopo si è messa ad abbaiare a un albero, guardando in alto tra le foglie, e non siamo riusciti a capire cosa avesse visto. Uno scoiattolo?
Non volevamo fare programmi e magari, se il cielo non si fosse coperto, saremmo rimasti al parco anche dopo pranzo. Quando sono tornato in macchina e ho guardato le notifiche sul mio cellulare, la domenica è finita.
“Davanti a un disastro improvviso tutti noi finiamo per notare com’erano irrilevanti le circostanze in cui è successo l’impensabile”.
Lo ha scritto Joan Didion nel libro L’anno del pensiero magico. Un memoir di poco successivo alla scomparsa improvvisa, e fino a un attimo prima impensabile, del proprio marito.
Chissà come avremmo ricordato quella domenica se il cuore di Astori non si fosse fermato. Come la domenica delle elezioni, certo. Come il fine settimana in cui la Juventus aveva virtualmente superato il Napoli in cima alla classifica. Per i tifosi di Milan e Inter sarebbe potuta diventare la domenica del derby. Tutte cose normali, per quanto eccezionali. E invece ricorderemo quella domenica per il modo in cui qualcosa di impensabile è entrato nella nostra quotidianità.
Non tutti ne sono stati colpiti allo stesso modo, ovviamente. Anche al funerale di mio padre i presenti non erano toccati allo stesso modo dal lutto. Ma non sono stato l’unico che, pur non avendolo mai conosciuto di persona, ha preso la notizia della morte di Davide Astori come qualcosa di personale.
E penso che la ragione sia strettamente legata a quello che vedevamo in Davide Astori che lo distingueva da quasi tutti gli altri calciatori.
Che poi, in realtà, una volta ho parlato con lui, gli ho fatto una domanda alla fine di non ricordo quale partita, nella stagione in cui era un giocatore della Roma. Ero ospite a Roma Tv e a fine partita potevo chiedere quello che volevo all’allenatore e al giocatore che si sarebbe presentato davanti ai microfoni. Quando è apparso lui nell’inquadratura (non ci dicevano prima con chi avremmo parlato) ho pensato: “Devo fargli una bella domanda”. Ci siamo parlati solo quella volta, attraverso uno schermo e siccome non guardavamo in camera, non posso neanche immaginare di averlo guardato negli occhi. Non ricordo che domanda gli ho fatto alla fine, ricordo solo che volevo fargli una bella domanda.
In occasioni differenti ho intervistato degli atleti faccia a faccia. Verratti, Immobile, Pjanic, per fare degli esempi. Avvicinare un atleta professionista è sempre un’esperienza particolare: di alcuni è il corpo la cosa più sconvolgente, tutte le potenzialità che emana, la consistenza della loro carne che puoi sentire tu stesso se dopo gli chiedi di farsi una foto insieme e gli metti un braccio intorno alle spalle; di altri è il talento, e il mistero che ogni talento porta con se, anche se tutte le biografie di artisti, attori e sportivi contraddicono in maniera inequivocabile che ci sia effettivamente un mistero da scoprire.
Di Astori, attraverso quello schermo, mi aveva stupito la tranquillità. Forse perché contrastava con il mio stato emotivo in quel momento, con lo sforzo che costava a me apparire in televisione, ma avevo l’impressione che lui non stesse apparendo. Quello che vedevamo in Astori era la trasparenza, così rara anche tra le persone che non sono esposte mediaticamente come lo era lui. Astori non era un idolo da venerare, né un “personaggio” da invidiare, aveva un corpo e un talento ma era soprattutto se stesso. Era un calciatore, ma più chiaramente degli altri calciatori era anche una persona vera in carne e ossa.
Le qualità che oggi celebriamo di Davide Astori - qualcuno parla di normalità, qualcun altro di bontà, ma è impossible in ogni caso ridurre una persona in un elenco completo - hanno un valore. A quanto pare era quello che ci vedevano quasi tutti quelli che si sono sentiti tirati in ballo dalla sua scomparsa, a cominciare da quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e che adesso ci fanno dono della loro commozione.
Qualcuno si è stupito. Perché tante persone si sentono coinvolte dalla morte di un calciatore, neanche tra i più famosi?
Quando è morto mio padre mi hanno fatto le condoglianze molte persone che non avevo mai visto in vita mia e che mio padre non vedeva da anni. Non saprei neanche come sono venuti a sapere del funerale, forse ha fatto bene mia sorella a voler fare il necrologio. Al momento del bacio sulla guancia, molti aggiungevano una parolina gentile, magari un ricordo. Uno mi ha detto: “Era il tipo che se lo avessi conosciuto solo per cinque minuti, te lo saresti ricordato”.
Non so se mio padre era davvero quel tipo di persona, ma forse è proprio questo che accomuna Davide Astori a moltissime persone che incontriamo nelle nostre vite di cui, per qualche ragione, non ci dimentichiamo. Forse è questo che ha reso la sua scomparsa prematura così scioccante per noi, perché anche solo in cinque minuti, attraverso uno schermo, rispondendo a una domanda inutile, magari anche solo giocando a calcio, Astori ci ha comunicato le sue qualità, lasciando in noi un ricordo indelebile.
Le sue qualità hanno un valore, anche se non sono le qualità che chiediamo di solito ai calciatori. Ogni giorno celebriamo la forza, la competitività, il successo, perché pensiamo che la vittoria renda immortali, che la gloria sia davvero eterna. Guardate però le foto di piazza Santa Croce colma di persone venute per salutare Astori. Leggete i messaggi di addio di chi lo ha conosciuto. Leggete i messaggi degli sconosciuti. E ditemi se c’è qualcosa di più vicino all’immortalità di un ricordo impresso così profondamente nelle persone con cui siete entrati in contatto.