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Mimmo Berardi l'anti-campione
28 set 2023
Il fuoriclasse del Sassuolo ci ha ricordato un'altra volta quanto è unica la sua storia.
(articolo)
7 min
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IMAGO / IPA Sport
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È un dettaglio insignificante, almeno rispetto al fatto che in cinque giorni ha segnato due gol e realizzato un assist, con potenzialmente almeno altre tre palle gol cristalline, splendide, sublimi, create per i propri compagni.

All’84esimo minuto di gioco, al termine di un’azione lunga in cui il Sassuolo ha resistito alla pressione dell’Inter con carattere e qualità, Mimmo Berardi prova a mandare in porta Defrel chiudendo un triangolo al limite dell’area con una specie di cucchiaio pigro. La palla di Berardi è fantastica e coglie di sorpresa la difesa interista, de Vrij aveva seguito con aggressività Defrel e per poco non si fa scavalcare, arriva per un pelo a intercettare al volo il lancio di Berardi: mezzo metro più in là, o mezzo secondo di ritardo, e Defrel si sarebbe ritrovato da solo davanti a Sommer.

L’azione sfuma e la regia televisiva stringe su Berardi che si guarda intorno con un sorriso appena accennato. Forse cerca lo sguardo di Defrel per dirgli con gli occhi, comunicargli telepaticamente, hai visto cosa mi stava per riuscire?

Il dettaglio insignificante, rispetto alle due vittorie in cinque giorni contro Juventus e Inter (a San Siro), e ai quattro gol segnati in altrettante partite di campionato giocate finora, è il sorriso di Berardi. Quello è il maledetto sorriso di chi sta vivendo una serata in cui gli riesce tutto, o quasi tutto. Noi da parte nostra stiamo assistendo, di nuovo, a uno di quei momenti in cui Berardi sembra - è - il talento tecnico offensivo più straordinario, il piede sinistro più raffinato, tagliente e avvelenato che l’Italia abbia avuto negli ultimi… quanti sono? Più di dieci anni, ormai.

Dopo il gol del 1-2, un tiro preciso come un coltello che sbuccia una mela senza interruzioni, facendo con la buccia una spirale perfetta, Marco Parolo che degli ex-calciatori neo-commentatori di Dazn è quello che fa più fatica a tenersi, tendente sempre allo scherzo, all’esagerazione per il solo divertimento di provocare e intrattenere, dice: «Il Robben italiano!», come se fosse la prima volta, come se fosse venuto in mente solo a lui in quell’istante. In realtà è da quando Berardi rientra e tira sul sinistro che lo paragoniamo a Robben, aspettandoci forse inconsciamente quella stessa meccanicità, quella capacità di ripetersi che poneva Robben al di sopra - o se preferite di lato - rispetto ai migliori difensori al mondo.

Ecco, quella così lì Berardi non ce l’ha. A Berardi, credo, manca la voglia di arrivare a quel tipo di eccellenza. Si annoierebbe, forse, e di sicuro ci annoieremmo noi (mi viene in mente che da questo punto di vista semmai il vero Robben italiano, anche se allo specchio, è stato Lorenzo Insigne: lui sì che si è sacrificato sulla collina del rientro + tiro a giro sul secondo palo).

Anzi, proprio fintando il tiro di sinistro, giocando sull’attesa del suo tiro sul secondo palo, Berardi ha creato lo spazio, la pausa, per il filtrantino con cui manda al tiro Bajrami in occasione del gol dell’1-1. Dimarco - altro piede sinistro in grado di tagliare la frutta per la macedonia - ci casca: si gira leggermente di trequarti e si fa sfilare Bajrami alle spalle. Anche Mkhitaryan non segue il movimento di Bajrami. Solo Berardi ha visto quel corridoio, lo spazio necessario e sufficiente per tirare in porta.

Ok ma lasciamo perdere i gol e gli assist. La volgarità di un’azione riuscita, finita. Non è lì che si trova il talento di Berardi. Guardiamo piuttosto a quella palla all’inizio del secondo tempo, telecomandata dalla fascia destra sulla testa di Erlic a pochi passi dalla riga di porta. Oppure quell’altra palla che dà a Laurienté contro la Juventus, un filtrante di collo, collo-esterno, che fa passare con la precisione di un lanciatore di coltelli a pochi millimetri dal piede di Danilo, e che fa rimbalzare sull’erba come un sasso piatto sulla superficie di un lago. Laurienté spara alto e Berardi cade in ginocchio, con le mani nei capelli, e poi steso a terra come un animale esotico trasformato in tappeto.

Quanti giocatori italiani sono in grado di dare una palla del genere?

Abbiamo criticato Berardi perché non ha lasciato Sassuolo, dicendo che era poco ambizioso, che si accontentava, che forse era spaventato dalla pressione dei grandi palcoscenici. Ma non è ambizione, quella di andare a giocare a San Siro, giocare a viso aperto contro l’Inter a punteggio pieno e vincere con il Sassuolo?

E poi, avrebbe avuto tutti i torti se fosse stato veramente spaventato dalle pressioni che l’opinione pubblica è in grado di mettere sui giocatori di Juve, Inter, Milan? Mettiamo che abbia davvero scelto di restare in Emilia per quello, per proteggere la qualità del suo talento fragile come la ceramica per cui era conosciuta Sassuolo (prima che Squinzi trasformasse il Sassuolo in ciò che conosciamo oggi), per paura di noi, che settimanalmente facciamo a pezzi i talenti che più adoriamo, davvero vogliamo dargli torto?

Ma soprattutto: toglie qualcosa alla straordinarietà del suo piede sinistro e delle idee che quel piede sinistro gli permette di avere, gli ispira, quando la palla è a sua disposizione?

Semmai quella di Berardi è stata - è - una forma di resistenza per certi versi persino ammirevole. Un rifiuto, anche se non ai livelli del Trinche Carlovich (del mito secondo cui avrebbe rifiutato, evitato, la convocazione nella nazionale argentina di Menotti perché il fiume che avrebbe dovuto attraversare era in piena, o perché ha preferito fermarsi a pescare) o del Bartleby di Melville (l’impiegato che di punto in bianco rifiuta qualsiasi compito gli venga dato con un semplice «preferisco di no»), di quell’idea secondo cui i calciatori migliori sono vampiri assetati di gol, trofei, soldi.

No.

A Berardi evidentemente basta quello che ha trovato a Sassuolo quando non aveva neanche diciotto anni. E sia chiara una cosa: ci ha rimesso anzitutto lui, perché chissà quanti gol avrebbe fatto con compagni più forti, chissà quanti ne avrebbe fatti fare a giocatori più precisi di Laurienté o Erlic. Ma anche: chissene frega? Di certo non ci pensa Berardi a quello che sarebbe potuto essere e non è stato, ce lo dice quel suo sorriso da ragazzino che ha copiato il compito, che l’ha fatta franca, uno studente che arriva all’esame con l’aria di essere impreparato e gli viene fatta la domanda sull’unica cosa che ha studiato e capito veramente (Teoria e Pratica dell’Uso del Piede Sinistro).

Non c’è niente di arrogante nel sorriso di Berardi, semmai il contrario. C’è l’idea sotterranea che questo tipo di momenti sia speciale, che non sia neanche giusto cercare di replicarli ogni settimana. Sempre gobbo quando corre e carica il tiro, Berardi fa sembrare narcisista qualsiasi altro calciatore. Quegli occhi a mezz’asta da innocuo bullo dodicenne che non è mai uscito dal bar della piazzetta, da leggenda delle gare clandestine in motorino che qualcuno dice sarebbe potuto essere meglio di Valentino Rossi, quell’atteggiamento sciatto da ragazzino a cui la madre deve ricordare di alzare i piedi quando cammina altrimenti consuma le suole delle scarpe, sono tutte cose che mettono in ridicolo il loro contrario: i calciatori che sfilano in campo come modelli, con barbe e capelli disegnati da artisti rinascimentali, tirati come pugili e seri come se in gioco ci fossero vite umane, angosciati dall’idea di perdere, di fallire, che posano sui social come personaggi di Wolf of Wall Street, come se avessero un lavoro "vero".

Qualche mese fa ho intervistato Francesco Magnanelli, allora assistente di Alessio Dionisi. Quando gli ho chiesto chi fosse stato il calciatore più forte con cui avesse giocato, da avversario o come compagno, lui ha risposto Berardi. “Sembra un alieno che gioca in mezzo agli esseri umani”, ha detto. Mimmo Berardi - che solo due volte, nei dodici anni da professionista, ha segnato meno di 10 gol in una stagione - va preso per quello che è. Per quello che ha deciso di essere.

Alla fine della partita con l’Inter, Berardi si è avvicinato a Lautaro Martinez. Che lentamente con il passare del tempo sta assumendo sempre più la forma del campione decisivo, ambizioso, quello in grado di mettersi la propria squadra sulle spalle come fosse una bambina di quattro anni e portarla in cima a una montagna. Al 95esimo, Lautaro aveva avuto l’occasione per pareggiare la partita, con una sterzata brutale in area di rigore e un tiro di sinistro di poco al lato. Berardi, l’anti-campione, lo ha abbracciato e gli ha detto qualcosa all’orecchio.

C’era qualcosa di stonato in quel gesto, quali parole potrà mai trovare Berardi per motivare, consolare, un giocatore come Lautaro che non ha bisogno di essere né motivato né consolato. L’immagine dovrebbe essere ribaltata, dovrebbe essere Lautaro a parlare e Berardi ad ascoltare, no? Cosa gli avrà detto?

Vi dico cosa penso che possa verosimilmente avergli detto, l’unica cosa sincera che Mimmo Berardi secondo me può dire a qualsiasi altro calciatore professionista, tanto più dopo una prestazione mostruosa, aliena; l’unica cosa giusta, vera, utile che uno come Berardi può dire a uno come Lautaro in un momento del genere: Lauti,ma che cazzo te ne frega.

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