«È importante che lavoriamo in modo serio, aperto e trasparente. Questa è l'immagine che dobbiamo dare della FIFA».
Giovanni Vincenzo Infantino si presentava come una boccata d'aria fresca in una palude. L'onestà che arrivava a sistemare le cose in un ambiente marcio. Un giovanile poliglotta (conosce sei lingue, tra cui l'arabo), un riformista in materia di politica del calcio.
Il sistema calcio che immaginava nella campagna elettorale per la presidenza era «una democrazia partecipativa». La sua candidatura ricevette il sostegno di nomi prestigiosi: da Sir Alex Ferguson a Luis Figo, da Gigi Buffon a José Mourinho.
Avvocato specializzato in diritto sportivo, ex docente di Diritto all'Università di Neuchâtel, noto come cerimoniere dei sorteggi europei, dal 2009 è stato segretario generale della UEFA. Un profilo capace di entrare nelle grazie tanto del dominus della UEFA Lennart Johansson (presidente della confederazione europea dal 1990 al 2007) quanto del suo sfidante e successore Michel Platini (che invece è rimasto in carica dal 2007 al 2015).
Da quasi tre anni è il numero uno della FIFA, per la classifica 2018 di Forbes è il settantacinquesimo uomo più potente al mondo.
26 febbraio 2016, la reazione all'elezione (foto di Fabrice Coffrini / Getty Images)
Durante la campagna, Infantino si proponeva di trasformare la FIFA in una «struttura moderna, credibile e trasparente». E spiegava che se provava a risollevare un'organizzazione screditata dal malaffare era per un gesto di generosità: «Il calcio conta troppo per troppe persone al mondo. È per loro che dobbiamo rialzarci».
A ridosso della finale della Coppa del Mondo in Russia, ha indossato in conferenza stampa una felpa rossa su cui era scritto «Volunteer». È capace di calarsi nei panni dei volontari dell'organizzazione, non si mette solo completi e cravatte come Sepp Blatter. No, il capo del calcio mondiale è uno di noi.
L'ultima, recente fuga di notizie di “Football Leaks” ha però sollevato polvere e dubbi sulla sua figura di implacabile censore. Perché i movimenti intorno all'assegnazione del Mondiale 2026 e la protezione di Manchester City e PSG dai controlli sul fair-play finanziario, questi i nodi principali, rovesciano il segno di discontinuità che Infantino prometteva di rappresentare.
Inoltre i rapporti col presidente dell'UEFA, Aleksander Čeferin, sono pessimi e non solo dietro le quinte, se a maggio scorso Čeferin lo accusava di fare un «mercantilismo cinico e senza scrupoli».
Volunteer (foto di Dan Mullan / Getty Images).
È nato il 23 marzo 1970 a Brig, nel canton Vallese della Svizzera meridionale, da una famiglia di migranti italiani. A casa aveva il nomignolo di Piccolo. Sente di coniugare «la precisione svizzera con la creatività italiana».
Padre calabrese di Reggio, madre della Val Camonica: il Paese coperto per intero. «Italiano al 100%. Più di così...». Una famiglia povera che prima di arrivare in Svizzera aveva passato nel dopoguerra un periodo in Val d'Ossola, dormendo per sei mesi sul pavimento. Lui durante il percorso universitario a Friburgo, per pagarsi gli studi, ha lavorato sui treni come il padre, facendo le pulizie nei vagoni. La posizione di Brig, punto di snodo tranviario, secondo lui ha avuto un certo ruolo nel fornirlo di «una visione internazionale».
Gianni Infantino oggi concede porzioni di simpatia calcistica all'US Darfo Boario per le origini materne e alla Juventus Domo di Domodossola per i rapporti familiari con l'ossolano. Una squadra da tifare in serie D, una in Promozione. E poi la più importante, in Serie A: l'Inter.
Al The Best FIFA Football Awards, a Londra, lo scorso settembre (foto di Julian Finney / Getty Images).
Ha giocato a pallone, a livelli modesti. «Non avevo talento» dice oggi. Ma se ne accorse già da bambino: in un tema scrisse che non era abbastanza bravo per diventare un calciatore professionista, il suo sogno, e allora sarebbe diventato un avvocato nel mondo del calcio.
A soli undici anni con un paio di amici prese in mano e riorganizzò la Folgore, la squadra degli italiani dell'alto Vallese. La iscrissero al campionato svizzero, in quinta lega, chiedendo alla madre di Gianni di lavare le maglie e radunando giocatori ogni domenica per arrivare a undici. La promozione nella categoria superiore a lui sembrò come vincere la Coppa del Mondo.
Se da Brig si costeggia il Rodano verso ovest, si raggiunge la cittadina di Visp. È il luogo dov'è nato Joseph Blatter e dista appena dieci chilometri.
Lo stesso Paese, lo stesso Cantone, ma in un modo completamente diverso. Perché i due sono separati da una generazione (Blatter è del 1936) e da «un'altra mentalità» secondo Infantino, nonostante i complimenti del predecessore lasciassero intendere una continuità («Ha tutte le qualità per proseguire il mio lavoro»).
Con la Coppa del Mondo (foto di Alexander Nemenov / Getty Images)
È ironico che l'organo politico più importante del calcio sia guidato da vent'anni (tolto il breve interim di Issa Hayatou) da cittadini del Paese simbolo della neutralità, della mancanza di prese di posizione.
In realtà Infantino è un uomo del fare, la sua presidenza non è improntata al conservatorismo. Per qualità e quantità, tra l'allargamento a 48 nazionali nei campionati mondiali e la spinta all'introduzione del VAR (una conversione, questa, dopo i suoi pregiudizi iniziali), la direzione politica che ha intrapreso è quella del rinnovamento. Una linea dichiarata fin dal primo discorso dopo l'elezione, quando parlò di “costruire una nuova era”.
Al fianco del presidente Platini, ha guidato la UEFA da Segretario generale per anni. E oggi coinvolgere più Paesi nella Coppa del Mondo e insistere sul fair-play finanziario per democratizzare il sistema calcio, pongono Infantino sulla sua stessa linea riformista, lontana dallo sceicco Al-Khalifa e dal principe Alì in lizza per la presidenza FIFA ma anche dagli avanzati progetti redistributivi dell'altro candidato Jérôme Champagne.
Paul Bemer di So Footha parlato di «uccisione del padre» per descrivere il voltafaccia con cui Infantino nel 2007 sostenne la candidatura di Platini contro quella di Johansson. E considera un tradimento, ancora, l'ascesa di Infantino al trono della FIFA mentre Platini era squalificato, vittima a suo dire di un complotto.
Cape Town, dicembre 2009. Fresco Segretario generale dell'UEFA, alla destra di un padre (foto di Francois Xavier Marit / Getty Images).
Gianni Infantino si racconta come un pendolo che oscilla tra la purezza dell'outsider e il vittimismo dell'uomo senza santi in paradiso.
La dimensione politica è una goccia nell'oceano dei buoni sentimenti, se al vertice della FIFA lui ci è arrivato con «il lavoro, la tenacia e il cuore, soprattutto le emozioni». Il suo tifo per l'Inter lo definisce un «virus che ti prendi da bambino». E si lancia volentieri in frasi d'orgoglio stoico, come: «La sofferenza è una scuola di vita».
Poi c'è il rapporto con l'Africa, dove ha chiuso la campagna elettorale per la presidenza, e dove ha detto: «Avendo visitato molti Paesi africani, mi sento il candidato dell'Africa». L'endorsement di un esponente illustre del continente, Samuel Eto'o, dava credito a questa teoria: «L'elezione di Gianni può fare davvero la differenza per il calcio africano».
Agosto 2018, Washington D.C., Studio Ovale della Casa Bianca (foto di Chip Somodevilla / Getty Images).
In un lungo approfondimento pubblicato da 24 heures pochi giorni fa, Paul Kerey di Teneo ha ritratto Infantino come un Giano bifronte, devoto alla regola del «doppio discorso: uno per il pubblico e i media, l'altro interno» al sistema calcio.
Se così fosse, l'investitura di Blatter prenderebbe una luce diversa e così pure la distanza tra Brig e Visp, tra le due generazioni, tra le idee di politica del calcio.
Di certo, sotto l'attacco di “Football Leaks”, la strategia di Infantino è stata di trincerarsi dietro il solito movimento del pendolo: «È dura accettare che un figlio di immigrati italiani sia al mio posto...».
Tra pochi mesi, a giugno, la presidenza FIFA sarà messa di nuovo ai voti. Gianni Infantino ha già avanzato la sua candidatura.