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Crappy football, bloody hell
07 lug 2024
07 lug 2024
Inghilterra-Svizzera raccontata da un pub londinese.
(copertina)
IMAGO / PanoramiC
(copertina) IMAGO / PanoramiC
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«Southgate is a wanker», è la prima cosa che mi dice Paul, fino a qualche minuto prima un illustre sconosciuto, quando gli chiedo cosa pensa della Nazionale inglese. Non mi parla di Kane, non mi nomina Bellingham, non pensa a Saka o ad Alexander-Arnold. Va dritto come un fuso, con un inglese che nelle primissime battute fatico a comprendere. La spiegazione arriva presto. Paul non è di Londra, ma dei dintorni di Sunderland. Almeno al mio orecchio poco allenato, più si sale sulla cartina geografica, più la lingua si sporca, si fa meno comprensibile: una volta superato il Vallo di Adriano, poi, la cadenza scozzese quasi mi taglia fuori dai giochi.

Paul ha appena letto la formazione con cui l’Inghilterra sta per affrontare la Svizzera: mi sono fatto strada a fatica in un pub nel quadrante di Hammersmith, in un tripudio di locali che si dichiaravano già zeppi e altri che sconsigliavano alle famiglie di avventurarsi. Una delle più classiche esperienze inglesi.

Paul tifa per il Sunderland, ha 32 anni, vive a Londra da 18 mesi: quando gli chiedo che lavoro fa, mi dà una risposta spiazzante: fa il croupier. Ha lavorato per qualche anno sulle navi da crociera, poi ha scelto di rimettere piede a terra. Ma torniamo a parlare di Southgate, del perché, nel caso di specie, sia un wanker: mi dice che è un fan di Gallagher e che non avrebbe fatto giocare Konsa, ma Dunk, vista l’assenza di Guehi. Gli dico che mi sembrano motivazioni un po’ fiacche mentre gli arriva la prima birra: ne conviene e rilancia. Sono anni, dice, che è costretto a vedere «crappy football», calcio di merda.

Di Inghilterra-Svizzera abbiamo parlato anche in Che Partita Hai Visto, il podcast dedicato ai nostri abbonati in cui commentiamo a caldo le partite più importanti della settimana. Se non sei ancora abbonato, puoi farlo cliccando qui.

La disperazione

Paul sarà il punto di riferimento costante di questo viaggio all’inferno e ritorno. In mezzo, avventori più o meno occasionali. Mai, almeno fino al gol di Saka, sentirò nell’aria le vibrazioni del «Football’s coming home», di quell’entusiasmo sgangherato e spesso immotivato che ha gonfiato i petti inglesi per anni. La cosa più vicina a un complimento che passa per le mie orecchie me la dice un tizio che potrebbe avere indistintamente tra i quaranta e i sessant’anni, calvo, con una maglietta di John Terry che sembra poter esplodere da un momento all’altro: «he’s a lucky bastard», è la definizione di Southgate che mi concede durante l’intervallo, ripensando al passaggio ai quarti arrivato per il rotto della cuffia.

Si respira un pessimismo cosmico, che comprendo ma allo stesso tempo mi spiazza. Paul perde la testa quando realizza che Trippier giocherà a sinistra – non so cosa si aspettasse, francamente – ma sembra quantomeno rinfrancato durante un primo tempo in cui l’Inghilterra non fa grandissime cose, ma nemmeno presta il fianco alla Svizzera. Dopo aver subito l’inevitabile confusione Italia-Spagna da parte di un amico di Paul, il buon Jacob, che come prima cosa mi fa i complimenti per la vittoria con la Germania, spiego che la Svizzera ci ha fatto sembrare totalmente inadatti al gioco del calcio a questi livelli. Guardando questa partita mi viene in mente che forse è vero che Southgate sta cercando di ridurre al minimo gli eventi delle partite. Il primo tempo va in quella direzione, il clima nel locale è freddo, al tavolo arrivano dei pezzi di pollo fritto che rappresentano l'unico sussulto in 45 minuti strazianti, illuminati a giorno solo dai tentativi di Saka sulla fascia destra.

Proprio Saka è uno dei temi di dibattito principali: più o meno tutti concordano sul fatto che Southgate lo utilizzi male, allo stesso tempo c’è però chi ritiene che questo sia l’unico modo per vederlo in campo insieme a Bellingham, Foden e Kane. E poi c’è un partito, le cui percentuali all’interno del locale a fatica raggiungerebbero la soglia di sbarramento alle Europee, che vorrebbe vedere in quel ruolo Alexander-Arnold, a costo di rinunciare a Saka. Capisco, ma decido che la lista, che mi sento di definire Inghilterra Viva, non avrà il mio voto.

Finisce il primo tempo e i nomi che vengono ripetuti più spesso per cambiare la partita sono quelli di Toney e Palmer. Per qualche minuto perdo di vista Paul e Jacob e allora mi sposto verso un ragazzo che mi sembra tremendamente giovane per indossare la maglia che porta: una riproduzione della mitica maglia del 1996 di Gascoigne, quella dell’Europeo casalingo e del rigore sbagliato proprio da Southgate. Gli chiedo del perché di quella maglia, immaginando che possa essere nato più o meno in quegli anni: non sono andato lontanissimo, Anthony è del 1994. Ma mi spiega che suo padre, nel 1990, era al seguito della Nazionale come tifoso in Italia ed era uno dei tanti finiti in lacrime come Gazza nella maledetta notte di Torino. La partita non riprende e allora finiamo a parlare di Gascoigne e dell’Italia, delle teorie del padre di Anthony, secondo cui Gazza non avrebbe mai dovuto accettare di venire a giocare in Serie A, che rimanendo in Premier sarebbe diventato più grande di ciò che è stato. Provo a obiettare, gli dico che la svolta in negativo era già arrivata con il drammatico infortunio in finale di FA Cup prima di arrivare a Roma, ma chi sono io per convincere Anthony che la versione del padre sia sbagliata? Comunque, mi dice, vuole vedere Palmer in campo: è l’unico con la faccia tosta giusta, secondo lui.

L’Inghilterra torna in campo come anestetizzata e il volume degli insulti aumenta col passare dei minuti, con la pressione della Svizzera che costringe gli inglesi a essere sempre più bassi in campo, le linee più vicine, il 3-4-2-1 che diventa in fretta un 5-4-1. Ed è così, a linee compatte e a difesa schierata, che prende il gol che sembra l’inizio della fine. Mentre intorno a me monta una disperazione che sa di fine del mondo, l’unico che rimane sereno è il già citato John Terry - rimarrà così, senza nome ma legato al cognome portato sulla maglia, come quando finisci a giocare in un calciotto con qualcuno che non hai mai visto prima e lo chiami solo col cognome (una volta mi hanno chiamato Simone per tutta una partita solo perché avevo la maglia del Monaco di Marco Simone). Terry, dicevo, alla sua quarta birra, vedendo Embolo segnare e la Svizzera illudersi, lascia la sua profezia: è convinto che un modo per andare ai supplementari spunterà fuori. Ma nel momento in cui il tabellone dei cambi dice che insieme a Palmer sta per entrare Luke Shaw, persino Terry sembra scordarsi del lucky e dalla sua bocca esce solo il bastard nei confronti di Southgate, preceduto da un fucking che, se dipendesse solo da lui, sarebbe il preludio all’esonero.

Il tripudio

Quando Saka fa partire il sinistro che restituisce un attimo di respiro a Southgate e provoca lo spostamento di qualche centimetro del locale per la quantità di ruggiti emessi dai presenti, le percentuali di Inghilterra Viva sprofondano. È un gol che sembra uscito da una partita del Real Madrid, che arriva quando nessuno se l’aspetta, senza coglierne il presagio. L’occhio azzurro di Paul riprende vita, nel frattempo è pure uscito il sole. Finalmente scorgo un po’ di esaltazione, anche se la giocata di Embolo che finisce per anticipare Ndoye lascia un segno profondo negli spettatori, peraltro aumentati a dismisura con il passare dei minuti. Durante i supplementari, Jacob, uomo che parla poco ma quando lo fa lascia il segno, si dice convinto che l’unico modo per sfangarla sia con qualche tiro da fuori, e quello di Rice per poco non gli dà ragione. Per i soli parziali: maglie di Rice presenti nel locale 3 (nessuna della Nazionale: due Arsenal, un nostalgico West Ham), maglie di Saka presenti nel locale 0.

La partita non si stappa, inizia il secondo supplementare, anche al bancone improvvisamente tutto è fermo. Quando Shaqiri per poco non fa gol dalla bandierina, quasi percepisco il sudore freddo di tutti i presenti. E poi il boato sui pugni di Pickford e sull’errore sotto porta di Widmer. Tutto, davvero tutto, sembra apparecchiato per la vittoria inglese ai rigori. Ma qui la storia si fa losca, drammatica, struggente per tutte le eliminazioni dagli undici metri messe in fila negli ultimi 35 anni. Mentirei se dicessi che non c’è stata esultanza per la parata di Pickford sul rigore di Akanji, che si era presentato sul dischetto con la faccia del condannato a morte, ma è stata una gioia interrotta, irrefrenabile, inevitabile eppure allo stesso tempo dolorosa. «Non possiamo perdere pure stavolta», dice Paul a mezza bocca.

Vedo che c’è qualcuno che riprende col telefono il rigore di Amdouni e penso che sia una follia, un clamoroso errore in termini scaramantici. Io sto usando le note del telefono per prendere appunti, non mi fermo per registrare quello che succede al momento del gol di Alexander-Arnold e un po’, a posteriori, me ne pento. C’è gente in felpa che abbraccia gente che sta sudando in mezze maniche da ore, anche se fuori il clima darebbe più ragione a quelli in felpa. Solo a questo punto c’è qualcuno che lo abbozza, quel «Football’s coming home», ma dura pochissimo, il tempo di qualche istante. Sotto i due schermi si creano dei capannelli di corpi indistinguibili, alcune coppie – almeno credo che fossero già coppie formate, certo sarebbe bellissimo se invece fossero soltanto il frutto di un pomeriggio delirante – si baciano senza contegno, almeno quattro bicchieri finiscono in frantumi e un paio di sgabelli vanno per terra, ma chi se ne frega.

Paul mi dice: «Ci voleva un italiano per farci vincere una partita ai rigori». Qualcuno va a festeggiare in strada, quasi tutti riaccendono l’attività del bancone che era rimasta neutralizzata per buoni venti minuti. Perdo di vista il mio John Terry, ringrazio Jacob e Paul, gli chiedo se ha cambiato idea su Southgate. Dal gesto che mi fa con la mano destra, e che potete immaginare facilmente se conoscete il significato di wanker, direi di no.

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