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Innamorati di Christian Pulisic
26 gen 2017
Abbiamo aggiunto ai nostri giocatori Preferiti il giovane centrocampista del Borussia Dortmund.
(articolo)
8 min
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Christian Pulisic ha firmato un contratto che lo legherà al Borussia Dortmund fino al 2020: il rinnovo è arrivato a neppure un anno dal suo esordio tra i professionisti, che a sua volta è giunto a neppure un anno dal suo trasferimento dalla Pennsylvania in Germania. Per renderci conto della portata della sua parabola evolutiva: neppure due anni fa Pulisic passeggiava coi suoi compagni d’infanzia per Chocolate Avenue a Hershey, capitale della produzione industriale di cioccolato degli States.

Si tratta di un arco di tempo brevissimo anche per gli standard classici delle esplosioni, che ha raggiunto il suo picco massimo nella scorsa primavera, cioè quando Christian non aveva ancora neppure l’età per guidare da casa sua al centro di allenamenti di Brackel: la sua carriera a tratti ha dato l’impressione di essere la proiezione nella vita reale di una sessione di FIFA in Career Mode particolarmente ben riuscita.

Frantumando una serie di record di relativa (ma non trascurabile) importanza, Pulisic ha consolidato lo status di next big thing del calcio americano in una maniera meno evanescente di quanto sia già successo in passato.

È stato promosso in prima squadra appena diciassettenne, nell’ottobre del 2015, dopo aver segnato 10 gol e fornito 8 assist in 15 partite con il Borussia II. Tre mesi più tardi ha segnato all’Union Berlin il suo primo gol da professionista. Ad aprile ha segnato altre due volte nell’arco di una settimana (più giovane non tedesco a farlo), e a settembre era in campo, da titolare, contro il Real Madrid.

Ah: ovviamente, a maggio, è stato il più giovane marcatore nella storia della USMNT.

L’innamoramento segue dinamiche sentimentali già più complesse dell’infatuazione. Innamorarsi significa in sostanza provare a capire se un rapporto, in prospettiva, possa funzionare.

Il rapporto in questione, qua, non è solo tra un (giovane) calciatore americano e gli scenari più importanti a livello planetario, si tratta di capire se Christian Pulisic è il ragazzo sul quale il calcio possa investire il futuro, e viceversa.

Il carisma non lo distribuiscono all’anagrafe

Christian Pulisic dimostra tutti i diciotto anni che ha, a partire dal fisico acerbo, in fieri, apparentemente inadatto a certe situazioni in cui si trova coinvolto in campo.

Però ha un’estrema consapevolezza della conformazione del proprio corpo, e del rapporto dello stesso con lo spazio: non è solo agile, ma sa anche come sfruttare la sua agilità.

Ambidestro, il contesto tattico in cui si trova più a suo agio è sulla linea dei trequartisti in un 4-2-3-1, dove può ricoprire tutti i ruoli: trequartista puro, alle spalle di un attaccante di riferimento; ma può anche farsi lui stesso punto di riferimento, o disimpegnarsi sugli esterni.

La principale caratteristica che ne fa risaltare l’esuberanza giovanile è quell’insieme di abilità tecniche che gli permettono di controllare e portare il pallone a velocità altissime, facendolo somigliare a un cameriere che riesce a sostenere in equilibrio un vassoio pieno di calici di champagne sul tetto di un TGV in corsa.

Tuchel si serve spesso di questa sua caratteristica inserendolo a partita in corso: Pulisic è il fungo di SuperMario da addentare quando il gioco offensivo del BVB sembra assopirsi. Dal punto di vista mentale non sembra avere l’età che ha: non appare mai nervoso, non ha l’ansia da prestazione, non sente il peso di dover bruciare le tappe. «Ciò che mi impressiona di Christian», dice di lui il padre, «più come calciatore che come figlio, è che non accampa mai scuse». «Ho allenato un sacco di giocatori», continua. «E quando il livello si alza, molti di loro si spaventano. Cercano di scappare, una via di fuga. Cercano giustificazioni. Christian no». Un aspetto chiaro anche a Tim Howard, il portiere della Nazionale statunitense: «Non ha mai paura».

Tuchel conosce perfettamente i limiti di Pulisic. Sa che l’hype generato dalla vox populi e la corretta gestione di un patrimonio umano, spesso, appartengono a sfere antitetiche della razionalità.

Però con Pulisic ha impostato un mercato intimo in cui la valuta sono l’impegno in allenamento, la perseveranza nell’apprendimento, la costanza. È fondamentalmente per questo che, anche se è poco più di un diciottenne di grande talento, Pulisic è oggi, per minutaggio, il dodicesimo giocatore più usato da Tuchel in Bundesliga, e il quarto in Champions League.

Esistere per dribblare. Dribblare per assistere

C’è differenza tra essere pronti ed essere preparati. Pronti non lo si è mai davvero del tutto; mentre prepararsi è il bias al quale tende ogni percorso di apprendimento. Sono certo che quando Pulisic dice «sono stanco di sentire le persone dire “Ha solo 17 anni”. Non mi interessa niente, sento solo di poter lasciare il segno. Tutto qua. Se sono pronto, sono pronto» intenda dire che si sente preparato.

Dice di ispirarsi a Figo - una sottigliezza, non citare Landon Donovan che pure giocava più o meno nel suo stesso ruolo, che la dice lunga sull’apertura mentale di Pulisic, che trascende l’autoreferenzialità del sistema soccer - ma anche di voler somigliare a Rooney «per la passione per il gioco che ci mette».

Nonostante sia un giocatore offensivo, Pulisic sa di essere preparato anche a difendere.

Quando si trova a giocare da laterale in un 3-5-2 fluido, nonostante non sia un recuperatore di palloni, è in grado di disturbare la creazione avversaria, a riprova di quanto sappia leggere le situazioni, o se preferite sia preparato al gioco (con la consapevolezza che il primo step di costruzione è la distruzione della manovra avversaria).

La fisicità apparentemente eterea è un suo punto di forza. Nonostante la mole ridotta, sembra quasi impossibile per gli avversari fermarlo con un fallo (ne subisce uno a partita).

Qua, per esempio, contro l’Ecuador, in Copa América, aggredisce Mina, che è tipo il doppio di lui, riesce ad arpionargli la palla e a difenderla nell’attesa che i compagni si posizionino per impostare la transizione offensiva.

Pulisic non possiede un grande estro, e deve migliorare nelle decisioni di gioco. A volte tiene palla troppo a lungo, altre si fa prendere dalla foga e piazza linee di passaggio utopistiche. Uno dei momenti di gioco in cui più spesso incorre in errore è quando abusa del dribbling. In media ne prova 3 a partita, con una ratio di conversione positiva abbastanza alta, 2 su 3.

Quando perde palla (è discretamente in alto nella classifica dei giocatori con più possesso perso per partita in Bundesliga, 1.8) non è tanto per errori tecnici, quanto per essersi incaponito.

Nel cul-de-sac del dribbling reiterato, Pulisic finisce per trovarcisi soprattutto quando, in un’interpretazione un po’ troppo didascalica del ruolo di esterno, si confina sulla linea laterale nella costante ricerca del cross dal fondo. Anche se spesso Pulisic sembra più di un dribblomane, e il dribbling sembra un diversivo con il quale accentrare l’attenzione su di sé e liberare i compagni.

Pulisic è soprattutto un grande rifinitore. L’affinità elettiva con il gesto dell’assist non dipende solo dalla sensibilità dei piedi (qua, contro il Darmstadt, serve il compagno d’esterno destro) ma anche dalla visione di gioco con cui è capace di disegnare traiettorie escludenti, killer-balls che creano superiorità anche senza troppo clamore.

Maturità?

La storia sportiva di Christian Pulisic ci restituisce l’immagine di un’educazione sentimentale sana, priva di qualsiasi stortura.

Entrambi i genitori giocavano a calcio a livello professionistico, un dettaglio che è molto più eloquente di quanto possiamo immaginare nella sua crescita. Gli ha permesso di evitare, in un momento sensibile come quello della prima adolescenza, lo scenario dopolavoristico che fa da sfondo al percorso di crescita di più del settanta percento degli aspiranti calciatori negli States.

La sua squadra da ragazzino, per esempio, era quella dei PA Classics, una delle centinaia di Development Academies della USFF sparse per gli States. Christian ha frequentato anche gli stages per U17 della Academy di Brantford, da cui sono usciti i migliori prospetti del calcio yankee degli ultimi venti anni.

Pulisic è il talento che il calcio americano ha atteso per anni: la testimonianza che una “industria” ricca di capitali e materiale umano è finalmente pronta (o preparata?) a concretizzare un “prodotto” fatto e finito.

Ma Pulisic mette pure in difficoltà il sistema-calcio americano, e l’impianto narrativo che gli gira intorno, perché offre al soccer qualcosa di nuovo anche in termini di stile di gioco. Mentre tradizionalmente la USMNT ha preferito costruire le azioni dai fianchi all’interno, con attaccanti forti fisicamente serviti da laterali bassi aggressivi, Pulisic rappresenta una maniera differente di attaccare difese arroccate. Crea superiorità, permette al gioco di spalancarsi. Sa correre senza palla, in maniera intelligente, portando via l’avversario al suo compagno d’attacco. Sa attirare l’attenzione su di sé per aprire soluzioni ai compagni che arrivano da dietro.

Sunil Gulati, il presidente della federcalcio americana, parlando di Pulisic ha tracciato un parallelo interessante. Ha detto «In Brasile ogni anno spuntano venti nuovi Pelè. Da noi uno ogni dieci anni. Di quei venti che spuntano in Brasile, si dimostra più o meno all’altezza uno ogni dieci anni. Perché non dovremmo andarci cauti noi?».

Pulisic, dalla sua, ha dimostrato di essere maturo abbastanza anche per tirare da sé il freno che rallenta la corsa del treno dell’hype. Sa che la differenza, alla fine, è sempre quella tra meteora e meteorite: a marcare il segno è il diametro del cratere che genererai.

E mentre tutti se ne stanno con gli occhi in su a osservare la sua parabola luminosa, Pulisic si prepara. Studia le coordinate, in vista dell’impatto.

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