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Innamorati di Lautaro Martínez
10 apr 2018
Questa volta è stato l'attaccante del Racing Club de Avellaneda a rubarci il cuore.
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11 min
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Lautaro Martínez ha esordito con la maglia della Selección quasi esattamente un mese fa, non ancora ventenne. La mossa di inserirlo a mezz’ora dalla fine della mattanza - seppur amichevole - del Wanda Metropolitano (con il risultato già sul 4-1 per la Spagna, che ne avrebbe segnati altri due) al posto di Gonzalo Higuaín è stata eloquente. Innanzitutto perché la convocazione ha risposto alle pressioni della vox populi argentina che voleva prepotentemente, a partire dal Cilindro (come i tifosi del Racing chiamano lo stadio Presidente Juan Domingo Perón), il giovane “Toro” in campo adesso, per poi trovarselo nella lista dei 23 per la Russia. E Sampaoli non ha mai fatto mistero di tenere in fortissima considerazione l’opinione pubblica.

Secondo poi, perché tra i potenziali centravanti convocati per le amichevoli contro Italia e Spagna, Lautaro ha in qualche modo spodestato Mauro Icardi che ha fatto il suo esordio con l’Albiceleste esattamente alla stessa età, ormai cinque anni fa. Icardi è stato il perno attorno al quale Sampaoli, dal suo insediamento, ha provato a far ruotare la sua proposta offensiva, in un tentativo di essere meno dipendenti da Messi. Dopo quattro non entusiasmanti partite, peraltro senza reti, il progetto per ora sembra naufragato, o almeno in stand-by. Intorno a Lautaro c’è moltissima aspettativa anche perché di Icardi sembra essere l’erede designato. Se tutto va come si dice in questo periodo, con la maglia dell’Inter già dal prossimo giugno, e con quella dell’Argentina.

Jorge Sampaoli, qua immortalato durante una delle frequenti visite al Cilindro, è il capomacchinista del treno dell’hype chiamato Lautaro.

«Paura non ne ho», dice lui, che effettivamente sembra avere le spalle molto più larghe di molti altri giovani argentini che hanno attraversato l’Oceano. In questa stagione ha già segnato 10 gol in 15 partite, all’esordio in Libertadores ha segnato una tripletta. Pochi giorni prima che Sampaoli lo convocasse aveva passeggiato sulle macerie dell’Huracán, demolito con un altro hat-trick e una partita, più in generale, giocata quasi camminando sulle acque. L’ultimo prodotto dell’Academia che aveva segnato una tripletta in Primera era Luciano Vietto. Non so quanto possa essere di buon auspicio per Lautaro.

Milito, ex Racing ed Inter, ne tesse continuamente le lodi. Lo fa però rimarcando gli aspetti più concreti e secolari del suo gioco, aiutandoci a dare una forma definita a quella nuvola di evanescenza eterea che lasciano i bit quando i video delle sue giocate più assurde evaporano dai social network. Lautaro è un calciatore con un’identità già definita, anche se per forza di cose non ancora completa.

Cogliere le opportunità

Anche se con la maglia del Racing non ha giocato ancora neppure 50 partite, spesso Lautaro è già sceso in campo con la fascia di capitano, a testimonianza della personalità, ma anche della fiducia di cui gode nell’ambiente.

Come altri calciatori passati per questa rubrica, la sua traiettoria è in qualche modo quella del predestinato. Gli scout dell’Academia hanno subito notato le sue qualità principali: «Giocava molto bene nelle due fasi, e aveva un gioco aereo incredibile». Giocava nel Liniers di Bahía Blanca, la squadra in cui aveva chiuso la sua carriera il padre, un modesto laterale basso sinistro con una carriera da gregario in Nacional B, la seconda serie argentina.

Nelle giovanili ha bruciato ogni tappa, dimostrando di avere una confidenza con il gol più radicata di quella che potesse avere con il resto della squadra. «Ha il pallino del gol e non è qualcosa che hanno tutti, è un talento che ti porti dalla culla. È una bestia, ha un fisico e una forza impressionante», dice Facundo Sava, l’allenatore del Racing ai tempi in cui Lautaro giocava in Reserva (la nostra Primavera: 20 gol in 31 presenze), che ha spinto fortemente affinché Lautaro non si trasferisse al Castilla, la cantera del Real Madrid. «Giocando con continuità ero certo che in tre o quattro anni sarebbe stato al livello di Dybala».

Se Lautaro è rimasto, resistendo alla tentazione di compiere il salto giovanissimo, è stato anche perché è molto legato alla sua famiglia, in un certo senso ha la consapevolezza che recidere così in anticipo il cordone ombelicale avrebbe intaccato la sua concentrazione. Le circostanze lo hanno premiato: l’infortunio contemporaneo di Bou e Lisandro López gli hanno spalancato le porte della titolarità nella stagione scorsa. Nel precampionato aveva segnato un gol pieno di significati emotivi, contro l’Independiente, nel derby di Avellaneda, portandosi avanti il pallone con un colpo imperioso di petto, forse il tic del suo gioco che gli ha fatto guadagnare il soprannome di “el Toro”.

In questo estratto compaiono due gol segnati in Reserva, tra cui quello contro il San Lorenzo che è anche il suo preferito. «Ho fatto un sombrerito al centrale, me la sono aggiustata di petto e ho tirato sul primo palo». Anche in questo frangente usa il petto come farebbe con la testa o il suo piede forte.

Professionalità, prima di tutto

A differenza di altri talenti sudamericani, Lautaro è un professionista puntiglioso. Tempo fa Markus Kaufmann, mentre preparavo un pezzo sull’adattamento degli argentini al calcio europeo, mi ha raccontato che a venti anni, quando è arrivato a Palermo, Dybala manifestava insofferenza nei confronti della dieta e dei regimi di allenamento europei. Lautaro, già dall’anno scorso, ha chiesto a Rolando Zárate, che lo rappresenta, di metterlo in contatto con un nutrizionista (una disciplina che lo affascina e che avrebbe voluto studiare dopo le superiori) che potesse seguirlo costantemente. Ha eliminato dalla sua dieta dolci, bevande gassate, grassi che non siano necessari.

Agli analisti del club chiede resoconti video per studiare i movimenti da migliorare, e non per coltivare un intimo culto della personalità. Anche se raramente si sofferma a guardare, poi, partite in TV. «Preferisco guardarmi una partita di basket». Che è poi il motivo per il quale confessa di non conoscere cosa lo aspetterà in Europa, perché «non conosco nessuno, solo Messi e Ronaldo, davvero».

Di contro a questo candido disinteresse, a Lautaro non si può dire che non sia concentrato in tutto quello che fa. Cecilia Contarino, la psicologa del Racing che segue le giovanili, da otto anni organizza dei test di concentrazione. Mette, all’interno di una griglia di 10 cifre per 10 cifre, tutti i numeri da 1 a 100 disordinati. In un tempo massimo di dieci minuti, con una penna, ai giovani viene chiesto di ricostruire la progressione numerica sotto l’influenza di numerosi stimoli di distrazione. Lautaro è sempre risultato uno dei migliori: non perde la concentrazione, è disciplinato, sa prendere le decisioni giuste per tutti i 90 minuti della partita.

Una tauromachia in cui vince il toro

Tra gli esponenti di punta più recenti del soprannome “el Toro” nel calcio rioplatense ci sono Fernando Cavenaghi e Maxi Gómez. Due calciatori ai quali Lautaro somiglia per aspetti diversi: abilissimo nel gioco aereo come il primo, possente e dotato di una mobilità quasi inarrestabile, respingente per gli avversari, come l’uruguayano del Celta, del quale è una specie di alter-ego più compatto nel fisico (Lautaro dopotutto è alto solo 1,72m per 80kg). Di entrambi Lautaro perpetua l’abilità nel tiro, la precisione clinica e la potenza strabordante.

È il tiratore più costante della Superliga argentina, con 4.3 tiri per partita: anche nell’ultima partita, la sconfitta in casa contro il River Plate, ha tirato contro la porta di Armani 5 volte. La maniera con cui arriva al tiro, però, è la nota più interessante, perché al contrario di Cavenaghi e Maxi Gómez ha un dribbling da fantasista, e un’intelligenza superiore nel cercare gli spazi in cui ritagliare l’angolo giusto per la sua balistica.

In un’occasione, contro il Boca alla Bombonera, per esempio, è andato incontro al pallone, lo ha stoppato con il petto e ha innescato l’azione del laterale con un tocco morbido; nel frattempo ha tagliato verso il centro del campo, puntando l’area, dal limite ha trovato poi un tiro secco e preciso sul palo più vicino.

Di Lautaro non si può dire che sia un giocatore associativo. Durante la partita compie una media di 16 passaggi, davvero pochi, col 67% di successo, che testimonia anche l’attitudine a prendersi moltissime responsabilità creative. Non è però il tipo di attaccante che aspetta il pallone tra i piedi e se lo va spesso a prendere a centrocampo, per poi puntare l’avversario, anche incaponendosi.

È chiaro che giocate del genere (questa è presa da una sfida del Sudamericano U20 del 2017, contro il Perù) non riescano tutti i giorni, in tutte le partite e contro tutti gli avversari, e forse è questo uno dei punti deboli più sensibili di Lautaro, che è ancora fondamentalmente un solista. Certe sue giocate possono funzionare in Superliga, meno nel contesto smaliziato e di alto livello dei campionati europei.

Lautaro insiste spesso nell’uso del corpo per sbilanciare gli avversari, cercando di far valere la propria maggiore resistenza al terreno di gioco. Usa molto il tacco e gli uno contro uno in cui è protagonista hanno il fascino tutto argentino delle puñaladas che compaiono nei tango e nell’epica lunfarda, umiliazioni la cui onta resta indelebile.

Nella partita contro l’Huracán c’è la summa delle caratteristiche di Lautaro, nel bene e nel male. A 0.38 dribbla e tira teso sul palo opposto. A 1.25 non scarica facile per alimentare l’azione, ma si lancia in un solipsismo (gli dice bene che provochi un rigore). A 1.53 si materializza dove devono materializzarsi i centravanti di razza. A 2.16, dopo aver perso un dribbling di troppo, El Globo si lancia in un contropiede per fortuna del Racing innocuo. Poi metterà la ciliegina sulla torta del suo show con la tripletta personale, dopo essersi intelligentemente smarcato defilato sulla destra.

La sua evoluzione come calciatore

Da piccolissimo giocava difensore: poi, per sfruttare la sua rapidità, è stato spostato sulla fascia, prima da carrillelo, cioè da laterale a tutta profondità, e infine da ala. È un’evoluzione che non ricorda nessuna di quelle dei giocatori che ha sempre assunto a proprio modello: Luis Suárez, Darío Cvitanich ma soprattutto Radamel Falcao. E che tuttavia rimane impressa nei movimenti che compie in campo: dalla posizione laterale, che cerca comunque con insistenza, come fosse la propria casa, il luogo più familiare, taglia centralmente per attaccare la profondità, con movimenti a virgola.

Lautaro sembra essere nato per fare il centravanti e la sua particolare conformazione fisica non ne limita il potenziale, semmai lo amplifica: con il pallone tra i piedi quando carica il tiro e in aria, prima di impattare in anticipo sul difensore, Sampaoli lo avvicina a Batistuta. Del bomber vecchia scuola ha la connotazione dello stile di gioco: metà delle sue azioni lo vedono coinvolto in tiri in porta, e metà dei tiri in porta avvengono con colpi di testa. Più della capacità di stacco colpisce la scelta del tempo, lo smarcamento.

Nell’azione sotto, al Sudamericano Under 20 che ne ha certificato l’esplosione, contro Venezuela, si incunea tra difensore e portiere scavalcandoli entrambi con una scelta brillante, e perfettamente a tempo. Semplice ma efficace è la maniera in cui riesce a uscire dal radar dei difensori, spesso puntando verso il centro del campo, per poi rientrare nell’orbita del pallone e per fare gol.

Contro il Lanús in una delle prime presenze nella stagione scorsa: il movimento con cui si smarca, dall’esterno all’interno e poi incontro alla linea di passaggio, è uno dei suoi più caratteristici.

C’è chi ha raccontato che quando frequentava la Casa Tita, la residenza dei giovani dell’Academia, non era raro trovare Lautaro intento a passare la scopa, o a tirare a canestro (dopotutto è originario di Bahía Blanca, la capitale del basket argentino, che ha dato i natali a Manu Ginobili e al “Puma” Montecchia), e che lo ha forse aiutato a sviluppare una capacità di salto fondamentale per il suo colpo di testa.

Il suo allenatore attuale, al Racing, è il “Chacho” Coudet, che nel Rosario Central di qualche anno fa lanciò Franco Cervi, Gio Lo Celso, Walter Montoya. «Non è una questione di anagrafe», dice il "Chacho", «chi gioca bene va in campo». Sembra una frase fatta, e forse lo sarebbe se non fosse accompagnata da un certo senso di responsabilità didattica. «Oggi il tecnico deve essere per prima cosa un insegnante: correggere, correggere e correggere». Anche se poi ci sono discenti meno uguali agli altri. «Allenarlo (Lautaro, NdA) è una sfida, con tutto quello che si dice su di lui e gli succede intorno».

Per crescere ancora a Lautaro servirà pazienza, fiducia nel suo metodo di lavoro meticoloso, che gli permetta di evitare distrazioni. Carlos Tévez ultimamente lo ha pungolato: «Viviamo in un’epoca così veloce che se uno gioca bene una partita è già al Mondiale, se ne sbaglia un’altra Sampaoli è un pazzo a volerti convocare. [...] A volte non capisco: uno dovrebbe mantenere un livello costante per creare dubbi al CT della Selección. La verità è che bisognerebbe convocare uomini. Per me un Mondiale lo vinci con gli uomini, con gente pronta a tutto». Non è ben chiaro se volesse essere un gesto protettivo nei confronti di Lautaro o una provocazione. Resta il fatto che a Lautaro servirà necessariamente farsi le spalle più larghe di quanto già non siano. Essere pronto a caricarsi di responsabilità anche quando tutto sembrerà girargli a sfavore. In questo, indipendentemente dalla squadra di cui vestirà i colori prossimamente, dovrà veramente somigliare il più possibile a Mauro Icardi.

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