I legami di sangue, nel calcio come nella letteratura, sono una stampella narrativa che ci aiuta a chiudere cerchi e intessere trame edificanti. Ogni giorno, in realtà, in qualche modo compiamo un parricidio, anche figurativamente, nel tentativo di discostarci dall’eredità dei nostri padri o superare, almeno eguagliare, quello che hanno fatto. Ma il calcio non è uno studio notarile, o una bottega alimentare: quella del calciatore è una professione che si trasmette per linea di discendenza meno di altre, e in cui anzi il rapporto padre-figlio è sempre conflittuale.
L’incipit della storia di Timothy Weah, come in fondo quello di ogni calciatorefiglio di, comincia affrontando l’elefante che soggiorna in salotto: il suo si chiama George Weah, che è stato - ed è - molte cose, ma prima di tutto unico Pallone d'Oro africano. Anzi, il sentimento di infatuazione che possiamo provare per Tim, soprattutto ora che il suo talento è sul punto di sbocciare (ha giocato poco più di una partita e mezza in competizioni ufficiali) e non abbiamo un corpus di giocate e risultati esaustivo al punto da permetterci un livello d’analisi superiore, non può evitare il gioco delle somiglianze (col padre, ovviamente).
Nessun figlio di parte davvero da zero. Può essere un fatto negativo come no, ma nondimeno è un fatto.
Questo qui sopra è il primo gol in Ligue 1 segnato da Timothy Weah, contro il Caen, qualche settimana fa. Non è un bel gol, ma ha dei tratti affascinanti. Innanzitutto, la fame con la quale Tim crede nella possibilità che il portiere avversario, Samba, possa incartarsi. Non è un bel sentimento, forse, ma è necessario in ogni calciatore, ancor di più se diciottenne, ancor di più se con dieci minuti a disposizione per impressionare il suo allenatore. Tim, in questo gol, si dimostra senza scrupoli. In questa sfida c’è come un superamento della visione stereotipata del calcio africano: si passa dal cliché dell'ingenuità del portiere congolese Samba, allo scafato Weah.
Per caparbietà questo gol ricorda quello di suo padre, sempre con la maglia del PSG, segnato 26 anni prima: stessa testardaggine. Ma anche una grande tecnica, e capacità di accelerazione, che devono far parte del corredo genetico trasmesso di padre in figlio.
Tim ha detto una cosa interessante, sul peso dell’eredità che deve trascinarsi dietro: «La uso a mio vantaggio in campo. Molti giocatori sono spaventati perché credono sia forte come lui, per il nome che ho sulle spalle. Ma il nome sulle spalle lo vedono i tifosi e gli avversari, non io. Perciò non sento la pressione».
In effetti una delle caratteristiche di Tim Weah che appaiono più evidenti a vederlo in campo (e anche ascoltarlo fuori, ma non necessariamente i due aspetti sono correlati), è la lucidità e la freddezza mentale. Dave Sarachan, CT ad interim degli USA, è convinto che sia sorprendentemente maturo, dato il contesto in cui è cresciuto. Ma forse dipende da un inevitabile processo di osmosi che si scatena. «Assorbi così tanto, anche inconsciamente», ha aggiunto «che non può non manifestarsi, prima o poi».
Una parabola per niente scontata
Timothy Weah, più che figlio di George, è figlio dei suoi tempi. La sua parabola non può somigliare a quella del padre, per ovvi motivi: George era un diamante grezzo che proveniva da un continente sconosciuto, Tim il prodotto superpop di una potenza calcistica in divenire, che avrà 26 anni quando gli States ospiteranno il Mondiale.
È nato a New York nel periodo in cui il padre giocava gli ultimi scampoli di carriera, tra Chelsea e Manchester City: ogni fine settimana saliva su un Concorde per raggiungere la famiglia. Quando George si è ritirato, nel 2002, Tim aveva due anni: non l’ha mai visto, quindi, giocare dal vivo.
«Ogni tanto mi guardo i suoi video su YouTube, cerco di rubargli qualcosa nel mio modo di giocare ma quello che vedete, ragazzi, è tutta farina del mio sacco, ci lavoro da anni».
La sua prima squadra, da ragazzino, è stata il Rosedale Soccer Club, nel Queens, NYC, una scuola calcio di proprietà dello zio. L’allenatore era sua madre: «Conosceva un sacco del gioco, l’aveva appreso guardando il marito, mio padre».
Non è scontato che tutti i figli decidano di seguire i passi dei padri, né che sia una scelta di successo. Mentre George Weah jr, in Europa, lottava contro i fantasmi di un’eredità pesante (senza riuscire a sconfiggerli, peraltro), Tim si sposta in Florida, a Pinewood, mezz’ora di macchina dalla sede della DeVry University in cui George si laurea in Business Management nel 2011. Cresce immerso nel contesto americano: nei suoi valori, nel suo lifestyle, nei suoi meccanismi. Anche calcistici. «Sono cresciuto dentro al sistema. Gioco con la Nazionale da quando avevo dodici anni».
Qua c’è un gol segnato quando di anni ne aveva 14, in un’amichevole in Croazia, in cui nella maniera in cui tocca il pallone e dribbla il ragazzino croato ci sono sentori di predestinazione.
Quando giocava a FIFA, racconta lui, sceglieva sempre gli States. È stata una scelta naturale, non esente da critiche. Che Tim ha ribaltato a suo favore, traendone motivazione, spingendolo a provare a «essere la stella che la mia Nazione sta cercando».
Foto di Dan Mullan / Getty Images
Sarebbe miope non ammettere che uno dei motivi per cui viene facile innamorarsi di Tim Weah è per lo swag con cui sta al mondo, il fisico longilineo e flessibile come un giunco, che non lo fa sembrare neppure un calciatore.
Gli piace la musica, soprattutto la trap-soul, che produce nella sua cameretta e condivide su SoundCloud. Come nome d’arte ha scelto X-Rated, con dei richiami neppure troppo velati alla sensualità esplicita e in qualche modo violenta, chissà se anche del suo modo di giocare al calcio.
Dice che i suoi role modelz sono Tupac e Notorious BIG, quando è a New York gioca nei playground di Chelsea o nei campi di calciotto del Pier 5 di Brooklyn (quest’estate, in incognito, si è aggregato alla squadra di un collaboratore di Sports Illustrated, spacciato per «uno che gioca con noi solo d’estate»). «NYC costruisce le persone. Artisti, cestisti, calciatori, li trasforma: credo che sia stata New York a farmi più forte. Ti dà fiducia in te, e una volta raggiunta quella sei inarrestabile».
Eppure, come è già successo ad altre starlette americane, per esplodere davvero era necessaria una fuga, l’immersione in un contesto diverso. Tim ha abbracciato Parigi come Hemingway e altri artisti expat negli anni ‘20, anche se in maniera più casuale. «Avevo un provino con il Toulouse. Stavo quasi per firmare, mi portano a un torneo e finiamo per giocare contro il PSG. Pochi giorni più tardi arriva un sms a mia madre, tipo “possiamo averlo con noi in prova per qualche giorno?”. È andata proprio così».
Nell’ottobre dell’anno scorso, quando Tim è già nel PSG B, a un gradino dalla prima squadra, in India si svolgono i Mondiali U17. È un punto fermo di quella Nazionale, alla quale ha affidato - più che al suo club - le speranze di mettersi in mostra, senza mancare mai di onorare una convocazione. È un momento particolare, perché durante il torneo in Liberia si svolgeranno le elezioni presidenziali, alle quali suo padre è tornato a candidarsi, stavolta con concrete possibilità di vittoria.
Se è possibile identificare un’epifania, il momento in cui la nebbia che circonda un talento troppo giovane diventa una visione più concreta, quella di Tim Weah accade durante USA - Paraguay, agli ottavi. Quasi una settimana dopo il primo turno delle presidenziali che decreteranno George Weah Presidente della Liberia.
In quella partita Tim segna una tripletta - nessuno l’aveva mai fatto in quella competizione, a quel livello - in cui almeno uno dei gol è materiale sufficientemente adatto per diventare virale.
Che tipo di giocatore sia Weah si può intuire dall’analisi ponderata dei movimenti che compie, delle giocate che fa, in ognuno dei tre gol: qua per esempio attacca la profondità in una transizione offensiva accentrandosi dalla posizione che, normalmente, occupa in campo, cioè largo sull’out sinistro, dove si disimpegna da laterale d’attacco a piede invertito (più a suo agio nel 4-3-3 che nel 4-2-3-1). Quando Sargent, il vero centravanti, si abbassa da nove-ombra, Tim si incunea nella difesa con tempismo e ottima scelta di tempo. E qua non abbandona mai l’idea che il pallone, alla fine, possa arrivare (come infatti avviene) a lui per la finalizzazione.
Anche nelle azioni in cui a segnare sono i compagni, in ogni caso lascia una traccia: qua si porta via i centrali, lasciando lo spazio a Carleton per l’inserimento. Nel nostro immaginario, prono alla sensazione, però, Tim Weah si cristallizza in questa giocata:
Controllo d’esterno destro, pausa, movimento a rientrare, tiro. «Ho fatto questa piccola cosa coi piedi che vedo sempre fare a Neymar in allenamento, è stata una situazione in cui ho dovuto pensare così rapidamente», ha raccontato, in un riassunto della forma mentis che ha un calciatore giovane ai tempi dei social network. «Ho tirato, l’ho vista entrare e ho pensato: “Oh mio Dio, questa sarà roba molto hot su Twitter”».
Tutto l’hype per Timothy Weah è partito da quel gol. Un lampo il cui rumore sarebbe arrivato nei mesi successivi, con un rimbombo che sarebbe risultato insopportabile per molti timpani. Cinque mesi più tardi, nel giro di poche settimane, avrebbe esordito con il PSG, con la Nazionale (primo millennial a farlo, settimo giocatore più giovane), ancora con il PSG, ma da titolare.
Di cosa parliamo quando parliamo di un attaccante moderno?
La narrazione biografica di Tim Weah rischia di fagocitare, nel bene e nel male, quella sportiva. «Papà mi ha dato molti pochi consigli», dice Tim parlando della sua infanzia. «Ma alcuni sono concetti chiave, che uso sempre. Per esempio che una maniera facile di segnare è tirare nello specchio della porta».
Il segreto di Tim è in una serie di spostamenti in campo caratteristici degli attaccanti moderni, specie quelli che giocano a piedi invertiti, che prediligono partire da una posizione molto allargata, sulla fascia, per tagliare verso il centro. Ma anche questo, volendo, può essere letto come un insegnamento paterno. «Semplici manovre a tagliare, cambiamenti di direzione - cose che faceva anche lui, quando giocava». In particolare c'è un movimento a mezzaluna che i tifosi parigini hanno ribattezzato “Le Cudra” e che sembra la sua fatality: il tipo di giocata che pochi minuti prima del primo gol in Ligue 1 l’ha messo nelle condizioni di calciare sul palo.
Paradossalmente, l’utilizzo che Tuchel ne ha fatto nei pochi minuti concessi finora è stato da riferimento centrale dell’attacco, in sostituzione di Cavani, ancora in fase di recupero dopo il Mondiale. «Mi piace analizzare Cavani, come si posiziona quando non ha il pallone, i movimenti che fa: farlo dalla panchina è avere un punto di vista preferenziale, ma lo facevo anche dalla TV».
Del numero nove conserva la capacità di trascinarsi dietro i difensori avversari quando stringe verso il centrocampo, e l'abilità con cui trova lo spazio in profondità tra i due centrali avversari, o negli spazi tra centrale e terzino. Durante una partita non gli riesce sempre, ma quando gli riesce assomiglia più che altro, più che al padre, ad Aubameyang (come contro il Monaco in Supercoppa), come ha fatto notare l'analista statunitense Joseph Lowery. Quando non gli riesce, però, Weah finisce nel produrre prestazioni depresse, inconcludenti (come contro il Caen in campionato). Nel suo gioco da centravanti Weah approfitta dell'incredibile velocità a disposizione per venire incontro al centrocampo e attirare i difensori, che poi faticano a inseguirlo quando punta il primo o il secondo palo. Così facendo, ovviamente, attira come un magnete i centrali avversari e crea spazio per i compagni spingendo molto in basso le difese.
Del numero 9 gli manca ancora la concretezza in zona gol, ma non l’intelligenza, la calma, la freddezza. E la rapidità di pensiero, che si spoglia dell’esuberanza, dell’impazienza, come nel gol del 3-0 in Supercoppa, quando non attacca sul palo, si blocca in una porzione di campo libera, quasi saltella, aspettando un pallone che non è così scontato mettere dentro.
Forse l'aspetto più maturo di Timothy Weah sta nel modo in cui prova a partecipare sempre alla manovra di squadra: chiama molto il pallone, suggerisce passaggi con il braccio teso verso il punto in cui prefigura i suoi movimenti, in qualche modo è bravissimo, come si dice, a inclinare il campo.
Ma è anche bravo con il pallone tra i piedi, anche se forse è più abile senza il pallone. Le sue accelerazioni brucianti sono sempre improvvisate ma mai confuse o goffe. Ha un’ottima percentuale di riuscita nei dribbling (ne prova 4 per partita, portandone a casa il 75%) e una buona sensibilità nel primo controllo, che sicuramente affinerà nel corso della sua parabola, non foss’altro forte della possibilità di poter apprendere da Neymar e Mbappé, forse due dei migliori modelli possibili per chi gioca nel ruolo che Tim ha scelto.
Anche per questo non è detto che rimanere al PSG (negli ultimi giorni di mercato i parigini hanno rifiutato una richiesta di prestito da parte dello Strasburgo) sia rivelerà una scelta castrante: le competizioni da giocare sono molte, la Ligue 1 potrebbe avere presto poco da raccontare e per Tim potrebbero spalancarsi spazi importanti. Tuchel non ha mai nascosto di puntare su un manipolo di giovani da valorizzare, e non ha mai avuto paura di farlo: negli States, anche in virtù del passato al Dortmund in cui ha lanciato Pulisic, nutrono una fiducia persino esagerata.
«È rapido», ha detto Tuchel «e ha una buona capacità di resistenza. Una combinazione notevole. È intelligente, ha voglia di apprendere. Dipende da lui». Le motivazioni non gli sono mai mancate, e quel pizzico di arroganza che ha chi vuole diventare il più forte, almeno del suo villaggio, neppure.
Glielo suggeriva anche il padre, durante le telefonate notturne che si facevano tra India e Liberia: «Sentiti libero, non hai niente da dimostrare, se non di essere il migliore. E di avere un futuro brillante».