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L’incontro di wrestling più strano della storia
03 set 2020
Il racconto di quando a Tokyo si sfidarono Inoki e The Great Antonio.
(articolo)
15 min
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L’uomo sul ring ha un volto austero e una mascella che rimanda a un predatore abissale: si allunga in diagonale rispetto al viso, gli dona una sorta di istintiva saggezza. Indossa una veste sulla quale è raffigurato il Monte Fuji illuminato da una luna rosso sangue. Sotto l’accappatoio si decifra il fisico prestante e asciutto del lottatore, un corpo elegante anche quando, svogliato, si appoggia alle bande nere del ring.

Dall’altra parte del quadrato c’è l’esatto opposto di quella nobile eleganza: l’avversario deve aver passato gli ultimi dieci anni della sua vita a vivere nella giungla. La prima cosa che spunta agli occhi è la forma fisica del lottatore, vistosamente sovrappeso, il seno prolassato si appoggia su una pancia gonfia. Quando sale sul ring ha addosso una catena di metallo che si allunga sul collo, come se fosse un prigioniero. Il gigante è accompagnato da una figura che indossa abiti tradizionali arabi e pare stia interpretando il padrone di un circo bizzarro. Dietro quel corpo cadente si occulta un passato di prepotenza fisica. L’uomo veste dei pantaloni color kaki e degli stivali di pacchiana fattura, un costume di carnevale di un soldato della prima guerra mondiale indossato a metà. La folta peluria facciale fa sì che barba e capelli si confondano, dandogli i toni di un cane di razza Bobtail.

Siamo a Tokyo, in una notte del 1977, precisamente al Ryogoku Sumo Hotel, tempio dello sport dell’estremo oriente fin dai tempi dell’era Meiji. Ci sono circa 10mila fan che riempiono il palazzetto, pronti ad assistere a un incontro della New Japan Pro Wrestling, la federazione di puroresu più seguita. Sul ring ci sono due atleti distanti anni luce nel corpo, nello sguardo, nella biografia. Ironicamente si assomigliano solo nel nome d’arte: da una parte c’è Antonio Inoki, eroe nazionale, dall’altro un gaijin che si fa chiamare The Great Antonio.

Tra i termini della lingua giapponese che si utilizzano per indicare “straniero” il più noto è sicuramente gaijin che, significa letteralmente, “persona dall’esterno”. Seppur sarebbe da escludere come offensiva, come scrisse anni fa uno studioso della lingua nipponica, “se non ha propriamente un significato denigratorio, gaijin enfatizza l’attitudine isolazionista del popolo giapponese”. Fin dagli anni ‘50 il mondo del wrestling giapponese, che da quelle parti si pronuncia puroresu, ha introiettato dentro di sé la figura del gaijin: è il lottatore che viene dalle terre oltre il mare d’Oriente, un corpo estraneo, sconosciuto. Il gaijin può diventare eroe, come lo fu Hulk Hogan prima ancora di rendersi famoso nella WWF (World Wrestling Federation) e che in Giappone si faceva chiamare Ichiban (“Number One”) ma il gaijin funziona meglio se è qualcosa di vagamente inumano, mostruoso: il leggendario Andrè The Giant, oppure Big Van Vader, che quando doveva salire sul ring giapponese si presentava con una maschera di drago che sputava fumo dai lati.

Great Antonio tiene le mani sui fianchi, Inoki lo studia e si tiene appoggiato alle corde del ring. Poi il wrestler giapponese scatta, fa una capriola verso l’avversario per ingaggiarlo. La performance è evidentemente tutta giocata sulla discordanza tra un agile combattente da una parte e una montagna lenta ma incrollabile dall’altra. Verso il terzo minuto succedono due cose: Antonio si libera con estrema facilità da una presa di Inoki, il quale reagisce con un dropkick diretto allo stomaco dell’avversario; ma The Great Antonio non si sposta di un millimetro - non reagisce. Il dropkick si dimostra una danza innocua. Great Antonio si colpisce la pancia, gesto di un rituale beffardo ed esotico per incitare il giapponese, il quale reagisce sferrando un paio di pugni, poi prova una coppia di prese. The Great Antonio è inespugnabile. C’è un momento in cui Inoki utilizza le corde come molla, si carica per schiantarsi contro il corpo dell’altro, ma la reazione è comica: l’europeo non si muove di un millimetro, Inoki cade a terra e il pubblico ride.

Inoki si innervosisce mentre l’altro scherza e il gioco della finzione sembrare reggere. Il punto di rottura avviene con Great Antonio che mette in pratica un “forearm club”, afferrando l’avversario per la testa per poi colpirlo. Inoki subisce un gesto ardito con totale assenza di maestria, sommata una buona dose di goffagine e viene colpito cimentosamente sul collo. È il momento in cui il gioco della stipulazione e della performance si rompe e si capisce di star assistendo a uno shoot: Great Antonio non solo non prende i colpi di Inoki, ma attacca per far male. Come la keyfabe, lo shoot è uno di quegli eventi che rendono il wrestling qualcosa di ambiguo, capace di esistere sul filo sottile tra realtà e finzione. Inoki reagisce con una serie di movimenti che gli permetterà di vincere l’incontro nel giro di un minuto.

Ma prima di chiudere l’incontro bisogna riconoscere che la storia di un match durato nemmeno sei minuti, seppur grottesca, visti i due così diversi protagonisti e impressionante per come si svolge dal momento in cui scatta l’evidenza dello shoot, non ha lo stesso fascino se non si raccontano le vite dei due lottatori prima di quella notte.

Storia di un gaijin

Dobbiamo tornare indietro di circa cinquant’anni, allontanarci da Tokyo e attraversare un paio di continenti. Siamo in Europa, nel territorio della vecchia Jugoslavia. Nei dintorni di Zagabria vive un bambino, quinto di cinque figli di una famiglia di origini serbe, che a solamente dodici anni anni è in grado di fare cose incredibili: gli abitanti del paese lo hanno visto sradicare un albero intero usando la sola forza bruta delle proprie braccia e un cavo legato al collo per tirare il tronco. Sono gli anni prima del più grande cataclisma del Novecento, la Seconda Guerra Mondiale. Sappiamo che il bambino, a causa della guerra e dei conflitti etnici che si abbatteranno sulla regione per anni, finì in un campo di concentramento: a Bagnoli, vicino Napoli. Non ci importa sapere come ci fosse finito, ma l’esperienza italiana segnò profondamente l’immaginario del bambino, che si chiamava Anton Barichievich e che in quei giorni pensò che la versione italiana del suo nome, tanto comune lì in Campania, fosse quella giusta per lui: Antonio. Dopo essere giunto in Canada a 20 anni, Anton ottiene il suo primo riconoscimento e momento di visibilità finendo nel Guinness World Record dopo essere riuscito a spostare 400 tonnellate di treno per circa 20 metri. Ripeté gesti simili con automobili e autobus dell’area metropolitana di Montreal, divenendo nel corso degli anni una sorta di mito canadese, con tanto di apparizioni nelle tv nazionali.

Paul Vachon, ex wrestler, in un suo libro scriverà che «Nessuno alla fine conosceva le origini (di Great Antonio, ndr), ma parlava un misto di inglese, italiano, francese, russo e penso addirittura un pizzico di ungherese». Seppur molte fonti indicano gli anni ‘70 come il decennio in cui Anton si diede al wrestling, la realtà è che già in quello precedente ci fu un evento cruciale nella vita dello jugoslavo. Siamo nel 1961 e Great Antonio, quasi quarantenne, è stato invitato in Giappone per lottare contro Rikidozan. Mitsuhiro Momota, noto come Rikidozan, è una figura fondamentale nella storia del wrestling giapponese: è stato il fondatore dello stile del puroresu, basato sul contatto fisico netto, comportamento severo e leale. Rikidozan, che nasceva nordcoreano con padre e madre cinesi e fu adottato da una famiglia di Nagasaki, perseguì un duro percorso di rivincita personale nei confronti della propria infanzia e adolescenza, storia che lo rese parte integrante della voglia di rinascita morale e dello sport del Giappone post devastazione atomica.

Del viaggio di Great Antonio nel Giappone del 1961 si trova un video: una folla fuori l’aeroporto di Haneda assiste allo strongman tirare con un cavo metallico il corpo di un autobus, passeggeri inclusi. Già contro Rikidozan la gimmick di Antonio lo fa apparire come un King Kong umano tenuto in catene; la rappresentazione perfetta di un selvaggio che proveniva dalle terre oltre il mare, dove il sole tramonta. In Giappone partecipa a un tour fatto di match basati su handicap di inferiorità numerica e dedicati alla dimostrazione delle sue abilità sovrumane. Incasella una sconfitta imbarazzante dietro l’altra, ma poco importa: Great Antonio non fa altro che ingurgitare sake e birra nipponica, mangiare nel rispetto delle inumane capacità e richiedere sempre più bonus economici. Minuto più minuto meno, il match contro Rikidozan sarà breve quasi quanto quello con Inoki dieci e passa anni dopo. Il grande Antonio attacca Rikidozan, attuando uno shoot totalmente inaspettato nei confronti dell’eroe locale: il gaijin si butta verso l’avversario per abbatterlo con la propria massa. Più che che tirare pugni cerca semplicemente di colpire in faccia roteando le braccia. La reazione di Rikidozan è immediata. Colpisce con degli schiaffi il viso dell’avversario, spingendolo verso il ring. Lo deride e in un attimo lo sfianca buttandolo giù dal quadrato. Dopo un paio di calci diretti verso le ginocchia l’arbitro chiama la fine del match.

Difficile spiegarsi la folle e bizzarra scelta di Antonio, probabilmente figlia di un miscuglio di noncuranza e totale fiducia nelle proprie capacità. Ma scherzare contro Rikidozan in quegli anni, a Tokyo poi, era la goliardata più stupida si potesse fare. Sappiamo che dopo l’incontro, sulla strada verso l’hotel, il lottatore europeo viene attaccato e picchiato da un gruppo di malviventi legati alla Yakuza, la nota organizzazione mafiosa giapponese. Il crimine organizzato in quegli anni dominava il mondo delle scommesse e delle stipulazioni sportive, ma c’era dell’altro. La Yakuza era prima di tutto l’anima di uno spirito nazionalista, non è difficile immaginarsi scelte d’onore, oltre che economiche, nell’attacco notturno compiuto sul poco svelto Antonio. La vita di Rikidozan e quella della Yakuza si incrociano più volte e assumono i connotati di un B-Movie di Seijun Suzuki quando in un giorno del 1963, tra le notturne strade di Tokyo, il padre del puroresu viene accoltellato in uno dei nightclub da lui gestito. Morì qualche giorno dopo per un’infezione causata da tracce di urina presenti sulla lama dell’arma. Dal 1963 al giorno dell’incontro con Inoki la vita di Barichievich è condita di innumerevoli fatti che elencarli tutti richiederebbe una monografia solamente a lui dedicata. Ci accontentiamo di due brevi aneddoti: uno lo vede partecipare al Canadian Stampede organizzato da Stu Hart (leggendario wrestler canadese, fondatore di una scuola e padre di altre due leggende dello sport, Owen e Bret Hart), durante il quale rischia di vincere un titolo; comparve poi, tra le tante partecipazioni televisive, al Johnny Carson Show, dove darà dimostrazione della propria forza con il tiro alla fune contro un mucchio di uomini in giacca e cravatta.

L’erede del puroresu

È il momento di tornare di nuovo indietro nel tempo, ma dall’altra parte del ring. La vita di Kanji Inoki è una lunga sequenza di successi, dentro e fuori dal ring. Passa l’adolescenza in Brasile ed è in Sud America quando, appassionato di lotta, s’innamora di Antonino Rocca, wrestler italo-argentino al quale “ruberà” il nome d’arte. A 17 anni incontra Rikidozan (è il 1960, un anno prima del citato match con The Great Antonio) e ne diventa suo allievo. Dal debutto nella Japan Pro-Wrestling Association e per i trent’anni successivi Inoki spicca per una serie di caratteristiche che erano parte integrante del successo culturale del suo maestro, ma ad esse si aggiunsero un’intensa capacità imprenditoriale - tra le varie fu fondatore della New Japan Pro-Wrestling nel 1972 - e un apprezzamento di pubblico internazionale. Inoki è forse l’unico uomo al mondo in grado di poter affermare di aver combattuto sia contro L’Uomo Tigre (in una puntata dell’anime di Ikki Kajiwara) che contro Muhammad Alì. Avvenne nel 1976, al Budokan di Tokyo, ancora una volta sotto gli occhi della Yakuza. Finì in draw, di fronte a 14mila persone, l’incontrò che pose le fondamenta per lo sport delle arti marziali miste.

È il momento di tornare al Ryogoku Sumo Hotel, quando Inoki ha deciso che avrebbe smesso di concedere altro tempo alla bravata di Great Antonio. Siamo verso il quarto minuto e mezzo e tutto succede nel giro di cinque secondi: Inoki attira l’avversario, gli gira attorno, lo afferra per le gambe lanciandosi verso il basso e lo fa crollare sulle ginocchia. A quel punto, con quel tipo fisico, per rialzarsi Great Antonio avrebbe avuto bisogno di un minimo di aria, ma Inoki non gli dà tregua. I calci sulla schiena passano ai fianchi e, quando Barichievich prova ad aggrapparsi al ring per chiamare la pausa, i colpi passano sul volto, segno evidente di una rabbia non trattenuta. Dopo una decina di calci sferrati alle tempie il corpo è ormai inerme e l’accompagnatore di Anton sale sul ring per invocare la resa che l’arbitro concede dopo poco: agguanta il braccio di Inoki e lo innalza verso il cielo, mentre dall’altra parte la telecamera inquadra il viso stordito e bagnato di sangue del gaijin abbattuto.

La storia di questo match, che può sembrare uno shoot bizzarro e un aneddoto da raccontare quando si parla di wrestling agli amici, nasconde mille piccole strade che si dipanano verso il passato e il futuro di quella notte. Potremmo chiederci perché Anton Barichievich decise di comportarsi in quel modo. Al di là del comportamento selvatico e grottesco che ha caratterizzato la vita del lottatore di origini jugoslave, una delle teorie più solide dietro le cause del suo shoot sono legate al desiderio di rivincita nei confronti della punizione fisica impartita dalla Yakuza dopo l’incontro con RIkidozan. D’altro canto la reazione di Inoki si spiega con quello che rappresenta il background del personaggio dentro e fuori il ring, cioè essere l’erede del puroresu. In entrambi i casi, le strade del passato si incrociano nel segno di Rikidōzan.

Quello che succede dopo la notte del Sumo Hall merita di essere raccontato. Inoki continuerà la sua ascesa nel regno del mito anche fuori il Giappone, attraverso stipulazioni contro wrestler statunitensi. Batterà il campione WWF Bob Backlund nel 1985, sfiderà e combatterà con Hulk Hogan. Figura politica già da sportivo, Inoki incarna anche quella del diplomatico. Nel 1990 in Medio Oriente soffiano i venti che avrebbero portato alla Guerra del Golfo. Saddam Hussein invade il Kuwait e prende in ostaggio cittadini stranieri che vivono in Iraq. È una forma di prevenzione di realpolitik cruda ma che funziona: sono lo scudo umano del rais.

Inoki si era ritirato l’anno prima e aveva fondato “Il Partito dello Sport e dalla Pace”, fazione politica che professava il raggiungimento della pace del corpo tramite l’attività fisica. Portare la pace nel mondo attraverso lo sport non è mai stata una stramba tagline di un partito improbabile, ma lo scopo di un’intera esistenza. Inoki interviene sulla delicata questione degli ostaggi dopo la dimostrazione di incapacità del governo giapponese nel riuscire a trattare il rilascio anche solo dei minorenni, viaggiando direttamente verso il cuore del problema. Inoki organizza a Baghdad un festival a base di sport e concerti rock che attirerà migliaia di spettatori locali, ma non solo: sarà il primo giapponese a passeggiare all’interno della moschea della città santa di Karbala, parte di un percorso che lo porterà, in quei giorni, alla conversione all’Islam e ad assumere il nome musulmano di Muhammad Saddam. Quando finirà la crisi degli ostaggi Inoki tornerà vittorioso in Giappone, con una nuova fede, un nuovo nome e un paio di spade d’oro regalategli da Hussein in persona.

Quattro anni dopo Inoki partecipa a uno degli eventi più grotteschi della storia della wrestling, il Collision in Korea del 1995, evento pay-per-view organizzato dalla WCW e NJPW avvenuto in Nord Corea. Primo e unico della sua specie, qualcosa del genere mai avvenne e mai sarebbe avvenuto a Pyongyang, di fronte a 170mila spettatori e agli stati generali della dittatura, con Inoki e Ric Flair che si sfidarono nel main event. Del Collison in Korea conosciamo storie di stress psicologico degli atleti e squadre tecniche e di come (non) reagì il pubblico di fronte agli incontri, spiazzato e inconsapevole - di un mutismo cerimoniale. Nei video ufficiali trasmessi all’estero il rumore di fondo è stato inserito in post-produzione per evitare l’effetto disturbante del silenzio.

Dirà Inoki pochi anni fa, intervistato dopo l’ennesima missione diplomatica nel Nord Corea, che «come unico paese vittima delle bombe atomiche, il Giappone ha un posto speciale nel dover collaborare per la pace nucleare. Anche con una diplomazia autonoma, che cerchi la mediazione».

Così, se da una parte c’è la storia di un successo politico e d’immagine, dall’altra le cose sono diverse, confuse da ricostruire. La vita di The Great Antonio dopo lo shoot del ‘77 è prima di tutto la fine dell’attività come wrestler. Gli anni ‘80 sono fatti di partecipazioni televisive di poco conto e qualche comparsata al cinema, come nel film La guerra del Fuoco di Jean-Jacques Annaud (regista de Il nome della Rosa) nelle parti di un uomo di Neanderthal. Sappiamo però che negli anni ‘90 divenne una sorta di eroe locale a Montreal, precisamente dalle parti dell’area di Rosemont, dove viveva e guadagnava due soldi vendendo le sue foto di quando era uno strongman. Lì a Rosemont c’è Beaubien Park, un piccolo polmone urbano di forestazione con un lago. Si dice fosse uno dei posti preferiti di Anton, che passava ore seduto ad ammirare il panorama. Dopo la sua morte, avvenuta nel 2003, la contea decise di onorarlo firmando la sua panchina preferita, scrivendo su di essa una targa di metallo che porta la firma “The Great Antonio”.

Raccontano i residenti che Anton era stato «parte della comunità locale, pezzo di storia e cultura di Montreal». Adorava aiutare chi ne avesse bisogno, mangiava dodici hot dog per colazione e tre bistecche per cena. Frequentava tutti i giorni un negozio di ciambelle che definiva il “suo ufficio personale”. Era l’idolo dei bambini del quartiere, a loro raccontava storie che si confondevano tra realtà e finzione, tutte incredibili ma poco realistiche. Diceva di aver incontrato gli alieni, che era di origini italiane, che era stato l’uomo più forte del mondo e che aveva combattuto contro i wrestler più famosi della storia.

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