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Inseguendo LeBron
05 feb 2015
Andrew Wiggins avrebbe potuto essere compagno, allievo, addirittura erede di LeBron James. Invece è stato mandato in Minnesota. Ma i risultati potrebbero essere uguali, se non migliori.
(articolo)
13 min
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“He’s a great talent, we all knew that for sure.

He’s very poised and very efficient.

They got a good piece.”

LeBron James su Andrew Wiggins - 23 dicembre 2014

Le parole pronunciate da LeBron prima del suo primo incontro in NBA con Andrew Wiggins sono un’investitura importante per la corsa, ormai quasi solitaria, del ragazzo canadese al premio di Rookie of the Year di questa stagione. Già, solitaria, perché in questa prima parte di Regular Season i possibili avversari si sono autoeliminati dalla contesa con il passare dei mesi: prima è toccato a Julius Randle, infortunatosi all’esordio con la maglia dei Lakers; poi è stata la volta di Aaron Gordon di Orlando, tornato in campo solo recentemente; infine quella del rivale di sempre - ammetto che suona molto strano dato che stiamo parlando di giocatori alla prima esperienza pro, ma vi assicuro che il dualismo esiste da tempo - Jabari Parker, che a metà dicembre ha subito la rottura del crociato anteriore del ginocchio sinistro, quando aveva già le mani protese verso il premio.

Con tre dei principali rivali fuori causa, sono rimasti solo Nikola Mirotic, autore finora di una grandissima stagione ma forse oscurato da un ruolo di backup in una squadra che punta ai vertici della Eastern Conference; il bosniaco Jusuf Nurkic, appena conquistatosi il ruolo di centro titolare ai Nuggets a suon di Vine e risate in faccia a DeMarcus Cousins; e dalla coppia dei Sixers formata da Nerlens Noel e KJ McDaniels, carenti però di statistiche e status, seppur anche loro in un contesto perdente.

Sì, dico “anche loro” perché i T-Wolves di Wiggins non stanno certo brillando per la serie di risultati che stanno ottenendo. Al momento il loro record parla di 9 vittorie e 40 sconfitte, il peggiore della Lega. Una situazione che da una parte aiuta molto le statistiche del canadese, permettendogli di crescere senza troppe controindicazioni, ma che dall’altra lascia un po’ di amaro in bocca per una situazione che poteva essere differente. Ad esempio, se LeBron avesse detto quelle parole 165 giorni prima. In una lettera. Ma andiamo con ordine.

Mai giudicare i giocatori dai mixtape. Beh, quasi mai.

Se sei il risultato dell’amore sbocciato tra un ex giocatore NBA e una medaglia d’argento nei 4x100 e 4x400 alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, qualche gene buono dal punto di vista atletico dovresti averlo. Già a 14 anni Andrew è protagonista di un video di appena 40 secondi di Hoopmixtape (canale YouTube specializzato nel mettere insieme gli highlights dei liceali più promettenti d’America) in cui mostra come dia già del tu al ferro con schiacciate ad altezze impressionanti per uno della sua giovane età.

Sin da subito si capisce che questo ragazzino non è soltanto un grande atleta, ma anche un talento speciale in campo, capace di dominare gli avversari sia sul piano fisico (cosa non difficile a quella età) che, soprattutto, su quello tecnico. Ad accorgersene è la Huntington Prep School, scuola del West Virginia, che nell’estate del 2011 lo porta a salutare il Canada. Dopo neanche un anno il suo nome è dappertutto: dall’aprile 2012 inizia a fare parlare di sé con costanza, partecipa all’Hoop Summit vincendo il titolo di MVP nonostante sia il più giovane in campo con 2-3 anni di differenza rispetto agli altri ragazzi presenti; durante il Nike Peach-Jam umilia Julius Randle, al tempo prospetto n° 1 della sua classe; e durante la LeBron Skills Academy fa saltare dalla sedia proprio lui, LeBron James, dopo uno dei suoi voli.

La copertura mediatica cresce sempre di più e per molti versi ricorda quella riservata al 4 volte MVP nel suo periodo liceale (ai tempi però mancavano 2 anni alla nascita di YouTube e 3 a quella di Twitter), e infatti i paragoni non tardano ad arrivare, tanto che oltre al già conosciuto Maple Jordan, gli affibbiano anche il nickname The Canadian LeBron, aumentando un hype già elevato. Il comportamento di Wiggins davanti a queste attenzioni però non ricorda assolutamente il percorso fatto da James nel 2003: il suo atteggiamento schivo e pacato non cambia davanti a tutte le attenzioni che lo circondano e lo dimostra quando deve scegliere la destinazione del suo unico anno universitario. Mentre i coetanei non esitano a tirare fuori le fanfare e a mettersi davanti ad una telecamera - preferibilmente di un network nazionale - circondati da membri della famiglia, amici e “posse”, lui sceglie di dare la notizia solo a chi gli sta più vicino in una piccola cerimonia ad Huntington Prep, alla presenza di un solo giornalista e con la notizia divulgata con un tweet. È talmente riservato che nessuno può dirsi certo di dove andrà prima dell’annuncio: non solo tiene col fiato sospeso la nazione intera (anzi due, pure il Canada), ma anche i suoi stessi genitori, che speravano di vedere il figlio ricalcare le loro orme a Florida State. Invece decide di andare a Kansas preferendo la vicinanza del fratello Nick, di stanza a Wichita State, a 160 miglia di distanza dal campus di Lawrence.

Però un po’ dispiace che la fase con l’afro in testa sia durata così poco.

Ai Jayhawks si trova sotto coach Bill Self, uno dei migliori allenatori a livello collegiale, che basa il suo stile su due concetti in particolare: difesa e gioco alto-basso per i lunghi. Sebbene la prima caratteristica sia ben attribuibile al canadese, la seconda lo è molto meno considerando il suo ruolo: nelle prime partite stagionali a fare notizia non è lui ma l’altro freshman, il centro camerunese Joel Embiid, che in poco tempo diventa il punto focale dell’attacco di Kansas.

Wiggins riceve sempre la sua dose di attenzioni, ma per la prima volta nella sua vita non sono positive; non gioca male e ha buoni numeri, ma non domina come ci si poteva aspettare da uno così incensato a livello mediatico. Tira fuori una grande partita contro Duke, limitando in diretta nazionale Jabari Parker (ve l’avevamo detto che gli hanno creato attorno una rivalità fin dall’inizio, no?), è l’unico a tener testa a Florida, la miglior squadra a livello collegiale, e nella gara decisiva per le gerarchie della Conference contro Iowa State scrive 17 con 19 rimbalzi. Ma non basta: gli sguardi volgono tutti verso quelle partite in cui fatica ad uscire a livello offensivo. E non gliene si può fare un torto. Andrew non è uno abituato a caricarsi la squadra sulle spalle, per due motivi: il suo atteggiamento schivo e calcolatore, che lo porta ad esaltarsi solo quando ha piena sicurezza nei propri mezzi; e un posto nello scacchiere di Self dove ha palla in mano solo in poche occasioni. I lampi di talento sono comunque accecanti, ma proprio nel momento in cui sembrava mettere a tacere molti hater con una prestazione da 41 punti contro West Virginia, buca nel peggiore dei modi la peggior partita in cui poteva farlo.

Durante il Torneo NCAA, evento che incolla tutta la nazione alla tv, Kansas esce inaspettatamente al secondo turno battuta da Stanford, squadra molto aggressiva in difesa che prepara nel migliore dei modi la gabbia attorno a Wiggins, sfruttando anche l’assenza di Embiid, ai box per un problema alla schiena. Il canadese chiude con 4 punti, 1/6 al tiro e una presenza evanescente in campo nella sua ultima apparizione con la maglia di Kansas, l’ultima partita giocata prima del Draft 2014, dove è proiettato come prima scelta assoluta. Ma ovviamente in quel momento tale proiezione vacilla prepotentemente.

Jabari Parker al Torneo non fa meglio di lui (fuori al primo turno con Mercer) e Joel Embiid, come detto, non mette neanche piede in campo, ma in molti a quel punto credono che questi due siano scelte migliori rispetto al canadese, troppo passivo in attacco per costruirgli attorno una franchigia, dimenticando che la curva d’apprendimento a 19 anni potrebbe essere solo allo stadio iniziale - errore commesso anche quando ci furono da valutare le potenzialità di Kevin Durant nel 2007. Il potenziale del ragazzo però rimane troppo intrigante e i flash di talento troppo irresistibili per non essere scelto alla prima assoluta. E infatti il primo nome chiamato da Adam Silver è proprio il suo.

“With the first pick in the 2014 Nba Draft, the Cleveland Cavaliers select Andrew Wiggins, from Toronto and University of Kansas”.

Cleveland. Sembra uno scherzo del destino. Scelto dalla stessa squadra che 11 anni prima aveva aperto le porte della NBA a LeBron James, un nome ricorrente nella seppur breve carriera del canadese. Ma mai ricorrente come lo sarà nei mesi successivi alla chiamata.

Il tempismo è alla base di tutto. Nel giorno in cui Andrew Wiggins fa il suo debutto con la maglia dei Cavs alla Summer League di Las Vegas, sul sito di Sports Illustrated esce un pezzo, una lettera firmata Lee Jenkins ma scritta proprio da LeBron, in cui annuncia il ritorno a Cleveland, togliendosi di dosso tutte le scorie lasciate dalla Decision di quattro anni prima. È una lettera in cui parla a 360° della sua nuova decisione, del rapporto con le personalità importanti degli Heat, della ritrovata pace con il proprietario dei Cavs, Dan Gilbert, di come non vede l’ora di giocare con Kyrie Irving, Tristan Thompson, Dion Waiters e l’amicone Anderson Varejao.

Parla di tutto e di tutti, ma non parla di Wiggins. Non solo non scrive il suo nome, ma non lo fa neanche intendere. Semplicemente perché non è nei piani. Servono giocatori pronti a dare una mano, serve un contributo di spessore, serve qualcuno con cui rincorrere fin da subito l’anello, serve Kevin Love, soulmate cestistica di James.

In un’intervista alla ESPN rilasciata durante il Photoshoot dei Rookie, Wiggo indossa la maglia dei Cavs ma si nota come non la senta più addosso e si vede come non abbia ancora elaborato tutta la situazione. Quando gli chiedono se ha parlato con LeBron (3 settimane dopo la notizia del ritorno) risponde “No, non ancora, ma credo abbia avuto un’estate impegnativa” e alla domanda se Cleveland sia ancora interessata a lui, la risposta è un eloquentissimo “Yes... I hope so”. In realtà stanno tutti aspettando che passino i tempi tecnici per poter completare la trade che porta Love alla corte del figliol prodigo e manda Wiggins e Anthony Bennett - anche lui canadese e prima scelta assoluta al Draft 2013 - ai Minnesota Timberwolves, insieme a Thaddeus Young, in arrivo dai Philadelphia 76ers per pareggiare i contratti. La prima scelta assoluta viene scambiata prima dell’inizio della stagione, evento che in 21 anni non era mai successo, da quando Orlando e Golden State si scambiarono Chris Webber, primissima scelta dei Magic, e Penny Hardaway.

Con la perdita del loro giocatore franchigia i T’Wolves sono attesi a una stagione mediocre: alla guida della squadra c’è Flip Saunders, allenatore che ha raccolto risultati altalenanti nella sua carriera svezzando però giocatori come Kevin Garnett, Stephon Marbury e John Wall, assunto in estate da... se stesso, visto che ricopre anche la carica di GM ed è uno dei proprietari di minoranza della squadra. Considerando la presenza a roster di giocatori borderline All-Star come Ricky Rubio, Kevin Martin e Nikola Pekovic, Wiggins sembra avere la possibilità di crescere senza fretta e senza troppe responsabilità, cercando di diventare quel valore aggiunto per permettere a Minnie di effettuare uno step successivo che manca da diversi anni (leggi: da quando se n’è andato KG).

Ma l’annata non inizia nel migliore dei modi e nel giro di 10 partite i T’Wolves perdono il trio sopracitato per infortuni. In un batter d’occhio il canadese si trova da una situazione di relativo agio a una di pressione massima, visto che le responsabilità di cui si parlava in precedenza a questo punto sono tutte addossate su di lui. Non c’è più tempo per sviluppare la fiducia nei propri mezzi in maniera graduale, com’è nelle corde del ragazzo: serve un contributo immediato, e Saunders decide di metterlo alla prova sin da subito mettendolo a capo dell’attacco e cercando di dargli più palloni possibili, a costo di sacrificare qualche vittoria.

Ed è quello che succede. Le vittorie non arrivano, Minnesota diventa una delle peggiori squadre della Lega, ma soprattutto Wiggins non riesce a venir fuori, fatica ad avere prestazioni continue, non riesce ad adattarsi al livello fisico della NBA, a differenza dell’amico Jabari, che a Milwaukee è uno dei bracci armati di Jason Kidd e con Giannis Antetokounmpo forma una delle coppie di ali più allettanti in chiave futura. Ma nel momento in cui sembra che il premio di Rookie dell’Anno abbia già il suo nome scritto sopra, il ginocchio di Jabari fa crac e questo rimette Wiggo in carreggiata, anche se i numeri grezzi non meriterebbero un riconoscimento. Inesorabili ritornano le voci di chi lo crede sopravvalutato, esaltato con troppa fretta, chi esclude non solo una carriera da stella ma anche da All-Star, paragonandolo a un James Posey qualunque.

Proprio nel periodo peggiore per Minnie e Wiggins è capitata una partita insignificante ai fini delle classifiche, ma di importante valore per ciò che è successo nei mesi precedenti: la sfida a Cleveland contro i Cavaliers. È il 23 dicembre del 2014. 165 giorni dopo la famosa lettera.

Vince Cleveland, molto più forte degli avversari, LeBron scrive 24 e Love fa registrare una doppia-doppia a quota 20+10. Ma è Andrew Wiggins a prendersi la scena, almeno nei primi 3 quarti, quelli dove Minnie riesce a stare a contatto, nei quali tiene testa a James contenendolo molto bene in difesa e rispondendo colpo su colpo in attacco, dimostrando di aver migliorato il gioco e le letture senza palla. E come ciliegina sulla torta si permette anche di schiacciare sopra Love, che ha il buon gusto di non saltare e non finire in un poster che nella zona di Minneapolis sarebbe stato appeso su tutte le pareti della città, anche in seguito ad una sconfitta. Il tutto senza urlare, ringhiare, guardare in cagnesco o quant’altro facciano gli altri giocatori per autocelebrarsi dopo una grande giocata, ma tornando in difesa silenzioso, a mettersi le mani sulla parte posteriori dei fianchi, come fa sempre nel momento in cui archivia nozioni, situazioni e stati d’animo.

Ciò che sarebbe potuto essere e invece no.

Quella partita è una sorta di consacrazione. Nelle gare successive riesce a mantenere un alto livello di gioco offensivo, mostra di aver sviluppato una miglior cognizione sul come usarsi in attacco, evitando scelte affrettate e tiri dalla bassa efficienza come i long-two’s per dare più importanza a penetrazioni e tiri da dietro l’arco da 3. Il resoconto statistico del mese successivo alla partita con Cleveland parla da solo.

A sinistra le prestazioni al tiro nelle partite precedenti a quella contro i Cavs, a destra quelle successive. Shot chart by Nicolò Ciuppani e Michele Berra.

Questa migliorata efficienza offensiva ha permesso di spostare l’attenzione anche sulle sue grandi qualità difensive: non solo sulla marcatura a uomo, nella quale usa al meglio le strepitose doti atletiche che mamma Marita e papà Mitchell gli hanno regalato, ma anche sull’aiuto lontano dalla palla, mostrando istinti innati straordinari, aspetto tutt’altro che scontato in prospetti di questa età e di questa caratura. Ovviamente ha ancora molto lavoro da fare - soprattutto a livello fisico, dove dovrà cercare di rinforzarsi senza perdere la grande fluidità nei movimenti e aumentando la fiducia nel tiro mano a mano che passerà il tempo -, ma le potenzialità sono sotto gli occhi di tutti. Il fatto che riesca a utilizzare il suo atletismo in maniera utile in vari aspetti del gioco non può che essere di buon auspicio nella sua crescita.

Alcuni rinomati colleghi si sono già espressi in merito: per Dwyane Wade ha già le carte in regola per diventare grande, mentre Kobe Bryant - intervistato nel giorno del suo sorpasso nella classifica marcatori all-time ai danni di Jordan - ha detto che gli ricorda se stesso agli esordi, 19 anni fa. Endorsement importanti, arrivati prima delle inedite parole citate da LeBron all’inizio di questo pezzo.

A questo punto ad Andrew Wiggins manca solo di ritirare il premio di Rookie dell’Anno: se ci riuscirà, sarà il primo Jayhawk a riuscirci dai tempi di uno che ha scritto pagine importanti di questo sport, tale Wilt Chamberlain.

Poi penserà a zittire - in maniera schiva e distaccata, of course - chi lo ha sempre apostrofato come un sopravvalutato. E poi chissà, magari farà pentire qualcuno di non aver parlato prima. Tipo in una famosa lettera di luglio ormai passata alla storia.

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