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Insigne si è preso il Napoli
17 mar 2021
In una stagione difficile è diventato con naturalezza il leader tecnico della squadra di Gattuso.
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Il prossimo 4 giugno, appena una settimana prima dell’esordio dell’Italia agli Europei contro la Turchia, Lorenzo Insigne compirà 30 anni, raggiungendo le colonne d’Ercole della maturità calcistica. Per il raggiungimento del prime psico-fisico e gli obiettivi in ballo quella in corso sarebbe dovuta essere una delle stagioni più importanti della sua carriera - quella della cosiddetta consacrazione, almeno per chi crede che abbia ancora qualcosa da dimostrare. Ma il calcio rimane uno sport di squadra, e per una coincidenza temporale poco fortunata il picco della parabola di Insigne ha coinciso con uno dei periodi più grigi della storia recente del Napoli.

A circa tre anni dalla fine dell’era Sarri, gli azzurri sembrano ancora lontani dal vedere terra di nuovo, con una transizione che ha portato tanti nuovi giocatori ma nessuna idea di squadra. Dopo il fallimento dell’esperienza Ancelotti, che avrebbe dovuto portare a maturazione un gruppo che forse aveva già dato tutto, Gattuso non è mai riuscito ad imporre una direzione chiara, e continua a navigare a vista, sempre in bilico tra esaltazione (la vittoria della Coppa Italia contro la Juventus alla fine della scorsa stagione) e depressione (le cocenti eliminazioni in Coppa Italia e Europa League contro Atalanta e Granada quest’anno).

Della squadra di Sarri Insigne è, insieme a Koulibaly e Mertens, l’unico sopravvissuto ad avere ancora un ruolo da protagonista. E, alla luce delle stagioni decadenti degli ultimi due (anche poco fortunati con infortuni e contagi da Covid-19), già questo ci dice qualcosa sulla stagione di Insigne, a cui qualcuno imputa di essere emerso solo per il calo della qualità dei suoi compagni di squadra. Il numero 24 è diventato capitano, simbolo e leader tecnico di una squadra nel momento in cui l’identità di gioco che lo aveva fatto maturare definitivamente si è sgretolata e la cosa, per qualche ragione, ci è sembrata naturale. Forse perché, anche chi crede che a Insigne manchi sempre qualcosa per essere il leader di una squadra di alto livello, gli riconosce comunque un talento fuori dall’ordinario - anche se magari incompiuto. In ogni caso, non c’è niente di naturale nel modo in cui Insigne si è affermato, e non solo perché lo ha fatto nel corso di tre stagioni molto difficili, ma anche perché tra le cose che gli venivano rimproverate c’era anche quella di essere un giocatore da sistema, che si esaltava o si deprimeva a seconda delle prestazioni della squadra in cui era inserito.

Il rapporto tra singolo e squadra è sempre stato il tema quando si parla di Lorenzo Insigne, per via delle caratteristiche del suo talento. Tommaso Giagni, in un pezzo di quasi cinque anni fa (quando Insigne aveva da poco compiuto 26 anni e veniva reclamato come titolare dell’Italia agli Europei del 2016), faceva giustamente notare come il capitano del Napoli fosse «uno cresciuto nelle scuole calcio, non per strada». Anche per questa ragione, Insigne non ha né la sensualità né il senso di rivalsa del potrero pur indossando la maglia della squadra che ha reso immortale il potrero per eccellenza. Il suo è un gioco asciutto, associativo, nella patria che chiede ai suoi numeri 10 di ribaltare i punteggi da soli, di creare il gioco dal nulla, di infiammare gli stadi con un singolo tocco. Il paradosso, oggi, è che adesso che la Nazionale ha adottato quel gioco proattivo che si regge e allo stesso tempo esalta il suo talento, a Roberto Mancini viene spesso chiesto come mai Insigne in questa stagione con il Napoli non giochi bene come fa con l’Italia. «Per il ruolo di raccordo, per come lega la squadra», ha risposto il CT della Nazionale «[Insigne] è il giocatore meno sostituibile».

A Napoli, invece, la sua importanza viene continuamente messa in discussione, ancora di più in quest’annata grigia in cui è il giocatore più impiegato della squadra di Gattuso, con la sola eccezione di Di Lorenzo. Non è solo una questione di quantità di partite e minuti di gioco, ovviamente: mai come quest’anno gli azzurri, dovendo fare a meno a turno di Osimhen, Mertens e poi anche Lozano, si sono aggrappati alle qualità del proprio capitano, soprattutto nei momenti di difficoltà.

Insigne è ormai letteralmente al centro del gioco del Napoli, da tutti i punti di vista: non solo tocca più palloni di quanti ne abbia mai toccati in carriera (parametrando i tocchi palla sul possesso della squadra quest’anno ne tocca 53.4 per 90 minuti, contro i circa 42 degli anni di Sarri), ma è anche il capocannoniere della squadra con 13 gol - più di quanti ne abbia mai segnati in Serie A se si esclude la sola stagione 2016/17, quando arrivò a quota 18. Quello, non casualmente, fu anche l’unico anno in cui Insigne riuscì a “battere” le aspettative, con 13 non-penalty goals da 12.4 xG - cosa che invece non gli sta riuscendo quest’anno, anche se di poco: 8 non-penalty goals da 9.3 xG.

Forse il gol più bello segnato da Insigne quest’anno.

Rispetto a quell’anno, però, Insigne non può più fare affidamento sulla celebre catena di sinistra del Napoli, che con Sarri creava un lato forte in cui compiti di creazione del gioco erano divisi tra lui, Ghoulam, Hamsik e spesso anche Mertens. Allora pensavamo che non avrebbe potuto sopravvivere fuori da quel contesto fatto di giocate nello stretto e tocchi di prima che gli permetteva di eludere l’avversario ancora prima che potesse pensare di andare a contrasto. Ora che il numero 24 è solo nel superare l’uomo, aiutare la risalita del pallone, rifinire l’azione e poi a finalizzarla, Gattuso lo utilizza come unico faro offensivo della propria squadra, proprio come vorrebbero quei tifosi che gli rimproverano più o meno consapevolmente di non essere un numero 10 sufficientemente taumaturgico.

Nell’ultimo scontro diretto contro il Milan, in cui come spesso accade contro le “grandi” il Napoli ha abbassato il baricentro attaccando in transizione, l’allenatore calabrese ad esempio lo ha isolato a sinistra, a largo di quel mezzo spazio in cui una volta avrebbe giocato a un tocco con Hamsik e Mertens. L’obiettivo era di mandarlo in uno contro uno con Dalot sui cambi di gioco, come se Insigne fosse una di quelle ali brasiliane alla Neymar che sanno inclinare il campo verso la porta avversaria con un tocco bruciando l’avversario in profondità. Il numero 24 del Napoli però non avrà mai l’esplosività per poter lasciare sul posto il diretto marcatore ed è rimasto bloccato dalla fisicità di Dalot e Tomori, vincendo a fine partita solo 2 dei 5 dribbling ingaggiati. Nonostante questo, la sua influenza è stata comunque la fonte principale di occasioni da gol per la squadra di Gattuso, anche se in un modo totalmente nuovo rispetto al passato. Insigne non più come creatore di gioco, che crea spazio sul lato opposto facendo densità con i compagni vicino a lui, ma come accentratore, che attira gli avversari e mette direttamente in porta i compagni.

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Nelle due azioni che potete vedere qui sopra è ancora più chiaro il nuovo rapporto tra Insigne e il resto della squadra: il numero 24 riceve larghissimo a sinistra, porta palla fino al limite dell’area attirando su di sé Dalot, e poi scarica verso un giocatore verticale e diretto come Zielinski, in entrambi i casi già lanciato verso la porta. Il trequartista polacco però non riuscirà a controllare il primo pallone, mentre calcerà al lato il secondo.

Anche prima della sfida contro il Milan, Gattuso lo ha sempre invitato a prendersi la scena - chiedendogli di mettersi la squadra sulle spalle, come si dice - a volte riportandolo nel ruolo di trequartista centrale che sembrava aver abbandonato definitivamente dopo gli ultimi esperimenti con Ancelotti. Al di là del ruolo, Insigne ha sempre accettato di buon grado l’investitura sul campo, dove spesso è fondamentale dalla costruzione dell’azione fino alla sua finalizzazione. Nell’azione che ha portato al rigore del momentaneo 2-3 contro il Sassuolo, ad esempio, Insigne ha aiutato la difesa a consolidare il possesso in mediana, ha saltato una linea di pressione trovando Ghoulam sull’esterno, e infine, sulla trequarti, ha pescato Di Lorenzo sul lato debole, dove Haraslin ha commesso il fallo da rigore (trasformato poi proprio da Insigne).

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Gattuso, insomma, sta plasmando sul campo ciò che i tifosi più intransigenti chiedono più o meno consapevolmente a Insigne da sempre - e cioè di diventare il vero e proprio deus ex machina della squadra, tatticamente ma anche tecnicamente. Il numero 24 del Napoli, infatti, sta cercando di ampliare il suo bagaglio tecnico all’estremo pur di aderire a questa idea, utilizzando i suoi mezzi in modi nuovi. Il primo controllo con l’esterno destro è sempre stato uno dei suoi tocchi, ad esempio, ma adesso Insigne sta provando ad utilizzarlo per lanciarsi direttamente in profondità, anticipando il diretto marcatore. Se prima questa giocata era utilizzata per ricevere in spazi stretti e aggirare la pressione associandosi con i compagni, adesso l’obiettivo dribblare l’avversario e prepararsi al tiro con un solo tocco. Allo stesso modo, anche la pausa, prima utilizzata per trovare la giocata giusta alle spalle della difesa avversaria, è tornata utile per invitare l’intervento dell’avversario e lasciarlo sul posto, adesso che Insigne deve risalire metri e metri di campo palla al piede partendo dalla mediana.

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Inevitabilmente, il suo gioco è cresciuto anche a livello quantitativo, diventando un vero e proprio centro di gravità per tutto il resto della squadra. Oggi Insigne è la prima arma offensiva del Napoli: tenta più dribbling rispetto allo scorso anno (3.8 dribbling tentati per 90 minuti, contro i 3.4 della scorsa stagione) ed è diventato uno dei giocatori che tira di più in Serie A (4.7 p90 contro i 3.9 della scorsa stagione; solo Ronaldo, Ibrahimovic e Muriel tirano di più). È lui l’uomo che viene a chiedere il pallone ai difensori quando il Napoli è in difficoltà ed è sempre lui quello a tentare il dribbling o il tiro complicato per cercare di risolvere i problemi tagliando il nodo gordiano.

Dopo anni in cui gli è stato chiesto di diventare il “Totti di Napoli”, Insigne quest’anno si è definitivamente caricato in campo il ruolo di trascinatore e simbolo della squadra. Lo ha fatto con una certa gravità d’animo, come dimostrano le lacrime dopo il rigore decisivo sbagliato contro la Juventus in Supercoppa. Anche nelle sue interviste, Insigne sembra sempre attento ad apparire molto severo con se stesso, come quello che non sfugge dalle proprie responsabilità di fronte ai fallimenti. Non solo nella sconfitta - come quella recente contro il Genoa per 2-1, dopo cui ha dichiarato: «Se avessi segnato avrei dato una mano alla squadra, quando non ci riesco sto male» - ma anche nella vittoria. Quest’estate, dopo aver vinto la Coppa Italia, Insigne è tornato sulla fine dell’era Ancelotti, accollandosi una fetta di colpa. «Il mister è abituato a grandi campioni, io gli dicevo sempre che noi avevamo bisogno di essere messi sotto pressione, anche bacchettati se era il caso», ha dichiarato «Mi rendo conto che la mia è un’autocritica: siamo professionisti, dovremmo camminare da soli, ma noi forse in quel momento avevamo necessità di sentire il fiato sul collo».

Anche pubblicamente, insomma, Insigne sembra aver accettato il ruolo che i tifosi hanno deciso per lui, cioè quello di primo responsabile. Forse il capitano del Napoli è arrivato alla consapevolezza che in ogni caso non gli verrà perdonato niente. O forse ha ragione Gattuso, che lo ha definito un “musone”, percependo la sua cupezza come immaturità. Quel che è certo è che fino a pochi anni fa in pochi avrebbero creduto che Insigne sarebbe potuto diventare quello che è adesso, e cioè l’uomo simbolo e il leader tecnico del Napoli, al di là dell’allenatore o del sistema di gioco, nella buona e nella cattiva sorte. Portare palla da solo dalla mediana alla trequarti in progressione, dribblando un paio di uomini, o attirando le attenzioni di metà difesa avversaria puntando il diretto marcatore.

Si può pensare che non è un caso che all'aumento dell'importanza di Insigne nel gioco del Napoli sia iniziato il declino tecnico della squadra azzurra, ma in fondo è questa la notizia. Ovvero non che una parte del pubblico di Napoli creda che Insigne non sia abbastanza rispetto alla sua idea ideale di numero dieci, nonostante lui ci stia provando con tutte le sue forze ad assomigliarci. Ma che Insigne sia riuscito a diventare il giocatore più importante del Napoli, il suo simbolo, in maniera talmente naturale che non ce ne siamo nemmeno accorti.

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