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L'intelligenza artificiale ha vinto
22 gen 2020
E noi, esseri umani, abbiamo perso.
(articolo)
21 min
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Il Bianco sta riflettendo sulla sua mossa da quasi otto minuti ormai, dentro una piccola sala dalle pareti blu oceano del Four Seasons di Seoul. Il tempo sembra essersi fermato nell’attesa di capire se Lee Se-Dol, il più grande giocatore di Go vivente e uno dei più grandi mai esistiti, riuscirà a vincere almeno una partita contro Alpha Go, l’intelligenza artificiale creata dalla società inglese DeepMind.

La partita è trasmessa in televisione, in streaming, sui maxischermi dei grattacieli della città. Molti si fermano a guardare Lee Se-Dol in silenzio, come se dalla sua mossa dipendesse la sopravvivenza di tutto il genere umano. Sembra che la sedia di pelle nera sulla quale è stato messo lo stia torturando per le volte in cui ha cambiato posizione. Continua a grattarsi la nuca a intervalli regolari, a sfiorarsi il mento con il palmo della mano. Altre volte congiunge le mani tese davanti alla bocca fissando dritto davanti a sé. Sembra in meditazione, come se il goban (il termine giapponese con cui si indica la tavola del Go) fosse un altarino dove raccogliersi in preghiera.

Lee è già sotto di tre partite su un totale di cinque. Di fatto ha già perso, e lo ha fatto in maniera talmente netta e clamorosa che la tensione che circonda l’incontro adesso è funerea. Se non dovesse vincere nemmeno una partita in molti potrebbero pensare che siamo diventati obsoleti, superati.

Sembra passato letteralmente un secolo da quando Lee non sembrava nemmeno concepire la possibilità di perdere l’incontro. In realtà non pensava nemmeno di perdere una singola partita. Nella conferenza pre-partita, illuminato dalla pioggia dei flash dei fotografi, aveva dichiarato di essere tranquillo, di credere che l’intuizione umana fosse ancora troppo avanzata. «Farò del mio meglio per proteggere l’intelligenza umana», aveva detto con un sorriso che tradiva fin troppa fiducia.

Poi, però, Lee era entrato nel suo inferno personale. Già alla prima partita era diventato chiaro che battere Alpha Go non sarebbe stata la formalità che si aspettava. Non solo Alpha Go si era dimostrato un avversario molto più forte di lui. Soprattutto, si era dimostrato un avversario che non poteva comprendere. Un avversario che riusciva a guardare nel futuro talmente più lontano di lui, che persino le mosse apparentemente sbagliate si rivelavano poi solo parte di un disegno più grande. Un disegno che si sarebbe rivelato quando ormai la partita era persa.

«Sembra un errore, ma visto che è basato su un calcolo non può essere un errore», aveva detto il commentatore coreano dopo la mossa 162 «Quindi se è basato su un calcolo è davvero spaventoso: significa che [Alpha Go] vuole solo confondere il suo avversario».

In realtà nessuno sapeva davvero cosa volesse fare Alpha Go con quella mossa. Poco primo Lee aveva lanciato uno sguardo all’uomo di fronte a lui, forse nel tentativo di capire cosa passasse nella testa del suo avversario. Ma l’uomo di fronte a lui non era il suo avversario. L’uomo di fronte a lui era Aja Huang, un informatico di Taiwan del team di Deep Mind con il solo compito di mettere le pietre sul goban seguendo le istruzioni che Alpha Go indicava su un monitor. E Huang era stato esplicitamente istruito di non tradire emozioni.

Lee aveva solo il goban di fronte a sé. Una tavola di legno lucida con una griglia di 19 linee per lato su cui aveva visto scorrere tutta la sua vita. Nel 1995 era diventato la quinta persona più giovane nella storia della Corea del Sud a diventare un giocatore professionista di Go. Aveva 12 anni e 4 mesi. E dopo 50 tra titoli nazionali, continentali e internazionali era diventato un idolo in Corea del Sud, un simbolo nazionale. Lo chiamavano Ssen-dol, la forte roccia.

Adesso, però, quel goban era diventato qualcosa di estraneo. A volte Lee lo fissava inconsapevolmente con la bocca semi-aperta come se avesse aperto un abisso sotto i suoi piedi, mentre Alpha Go faceva il suo incomprensibile gioco. Sembrava attirarlo a sé con un’oscura forza ipnotica e lo aveva quasi convinto a fare una mossa senza senso. Era riuscito a rinsavire poco prima di posare la pietra, grattandosi la nuca con fare imbarazzato. «Sembra un po’ nel panico», aveva dichiarato il commentatore coreano «Questo è ciò che temevamo di più: l’insicurezza».

Come si batte uno specchio?

La partita tra Alpha Go e Lee Se-Dol è raccontata dal documentario Alpha Go. In Alpha Go il momento drammatico di Lee è commentato da Fan Hui, campione europeo di Go dal 2013 al 2015 che nella partita svolge il ruolo di arbitro. Fan Hui è stato il primo giocatore professionista di Go a essere stato battuto da Alpha Go – una disfatta per 5-0 ricompensata materialmente da Deep Mind, che lo ha assunto all’interno del progetto nella veste di consulente. «Alpha Go funziona come uno specchio», dice Fan Hui «Quando ci giochi ti senti come se fossi nudo per tutto il tempo. E quando ti ci specchi non vuoi davvero vedere perché pensi: “È questo il mio vero io?”. Ma più lo guardi e più impari ad accettarlo: “Oh, questo sono davvero io. E ora come dovrei fare?”».

Lee non era riuscito a venire a capo di questa domanda e aveva perso la prima partita tra lo sgomento generale. Nella conferenza post-partita, però, sembrava ancora fiducioso: aveva dichiarato che la sconfitta non avrebbe cambiato il suo modo di giocare e che adesso stavano “50:50”. Soprattutto sembrava aver appreso la lezione di Fan Hui: aveva visto nello specchio di Alpha Go e ci aveva visto le sue imperfezioni. «Penso che gli errori che ho fatto all’inizio si sono protratti fino alla fine. Per questo motivo ho perso il gioco: non sono stato in grado di guardare in prospettiva».

Forse proprio per questo motivo, nelle fasi iniziali della seconda partita Lee aveva deciso di prendersi una pausa, andando a fumare su una grande terrazza dell’hotel da cui si vedevano le montagne. Era stato uno di quei momenti contemplativi che sembrano presagire una svolta, in cui l’eroe sta per avere un colpo di genio. E in effetti un colpo di scena c’era stato, anche se non era quello che tutti noi esseri umani ci aspettavamo.

Per una casualità talmente incredibile da non poter non destare sospetti sulla sua malizia per noi esseri alla costante ricerca di senso, Alpha Go aveva riservato proprio a quel momento, l’unico in cui Lee si era allontanato dal goban, il suo colpo migliore, quello che sarebbe rimasto nella storia: la mossa 37.

La 37 era stata una mossa apparentemente sbagliata. O meglio sbagliata per noi esseri umani che non potevamo vedere quel punto nel futuro in cui infine si sarebbe rivelata giusta, in cui, come dice Fan Hui, «tutte le pietre giocate prima acquistano senso». Alpha Go, infatti, non è un semplice software “basato sul calcolo delle probabilità” - non è “semplicemente una macchina”, come aveva detto di aver capito Lee dopo quella mossa.

In Alpha Go il suo funzionamento è spiegato da uno dei ricercatori dietro Deep Mind, Thore Graepel. Alpha Go, dice Graepel, si basa sostanzialmente su tre pilastri principali: il cosiddetto policy network, la funzione con cui studia centinaia di partite di giocatori professionisti per imitarli e studiarne gli errori; il value net, con cui Alpha Go legge la posizione delle pietre sul goban e ne valuta ogni volta la probabilità che quella posizione possa portare alla vittoria; e infine il tree search, una specie di finestra sul futuro attraverso cui l’intelligenza artificiale valuta tutte le possibili variazioni del gioco a partire da quella posizione per capire quali sono gli scenari in cui ha più possibilità di vincere.

Sulla base di queste tre variabili Alpha Go faceva le sue valutazioni e imparava a giocare continuamente. E a forza di imparare, Alpha Go era arrivata molto velocemente al punto in cui era ormai in grado di creare qualcosa di completamente nuovo, originale - la mossa 37, per l’appunto: la prima che gli esseri umani non erano veramente riusciti a spiegarsi. «I commentatori quasi all’unanimità hanno detto che nessun giocatore umano avrebbe giocato la mossa 37», dice David Silver, uno dei ricercatori che guidano Deep Mind «Quindi ho curiosato in Alpha Go per capire quello che ha pensato. E in effetti Alpha Go era d’accordo con quella affermazione. Secondo Alpha Go c’era una possibilità su 10mila che la mossa 37 sarebbe stata giocata da un essere umano. Sapeva che era una mossa altamente improbabile».

La mossa 37 è una cosiddetta slack move, letteralmente una “mossa fiacca” – una di quelle mosse, cioè, che apparentemente non portano ad alcun vantaggio nell’immediato e che quindi ci sembrano inutili, superflue. O meglio: ci sembravano inutili fino a quel momento in cui Alpha Go ci aveva svelato che in realtà le slack move potevano essere scorciatoie segrete verso scenari in cui la vittoria era più sicura, anche se con un margine minore rispetto all’avversario. Il segreto stava nel saperle vedere – come gli scalatori professionisti che guardano una parete di roccia liscia e ci vedono una via per arrivare in cima. E Alpha Go poteva considerare fino a un massimo di 50-60 mosse successive a una determinata situazione di gioco.

La mossa 37 era stata così scioccante che Lee era arrivato a chiedersi cosa fosse la creatività nel Go. Dopo aver perso anche la seconda partita, aveva deciso di prendersi una pausa per riunirsi con alcuni professionisti del Go e analizzare l’incontro. La terza partita, però, era scivolata via in maniera ancora più veloce e drammatica della precedente. Lee aveva deciso di stravolgere il suo stile, di giocare aggressivo, e aveva perso in maniera ancora più palese. Era stata la disfatta definitiva, quella che decretava definitivamente la superiorità dell’intelligenza artificiale, e adesso la partita si spostava su un piano ancora più profondo e drammatico. Ora in gioco c’era il senso stesso del nostro intelletto. Come aveva detto l’amministratore delegato di DeepMind, Demis Hassabis, citando un maestro di Go cinese: «Se AlphaGo dovesse vincere forse inizieremo a capire davvero cos’è questo gioco». Sottintendendo, quindi, che fino a quel momento non l’avessimo mai capito.

La mossa di Dio

Quando si parla dello sviluppo delle intelligenze artificiali, spesso si trattano i giochi come sparring partner, allenamenti futili in attesa di applicazioni più materiali e importanti (per esempio per le sue applicazioni in campo medico, o per la meteorologia, per il contrasto all’emergenza climatica), forse sottovalutando il ruolo che ricoprono nelle vite delle persone e delle società.

Il Go, per esempio, è un gioco antichissimo. Le prime tracce si ritrovano nella storia cinese intorno al 1000 a.C. e per le sue regole e per il suo funzionamento viene spesso utilizzato a piccola metafora della strategia militare e della geopolitica. Questo spiega anche la sua importanza politica nelle società in cui si è diffuso. In Giappone fino al 1867 era considerato un’arte più che uno sport, e la sua attività e organizzazione erano affidate a un funzionario governativo nominato direttamente dallo shogun - i leader militari che governavano i territori del Giappone prima della cosiddetta Restaurazione Meiji, che ha avviato l’unificazione del paese rendendolo uno Stato moderno di stampo occidentale. Oggi ci sono circa 18 milioni di persone in tutto il mondo che giocano a Go, 2,5 milioni che partecipano abitualmente a tornei ufficiali, quasi tutte concentrate tra Cina, Corea del Sud e Giappone.

Senza questo contesto è difficile prendere sul serio i toni biblici che avevano assunto le parole nella conferenza post-partita del terzo match tra Alpha Go e Lee Se-Dol. «Mi voglio scusare per essere così impotente», aveva detto sull’orlo del pianto Lee. Un uomo che era intervenuto subito dopo, forse un suo amico, descrivendolo come un eroe omerico tornato dal campo di battaglia esanime sul proprio scudo: «Sta combattendo una battaglia solitaria contro un avversario che non esiste in forma fisica».

Vincere almeno una partita significava accendere una speranza per il futuro. Era questa aspettativa ad aver creato un’attesa spasmodica intorno alla mossa 78, quella che sta continuando a torturare da dieci minuti Lee Se-Dol nella quarta partita e che i giornalisti raccolti al Four Seasons di Seoul attendono ancora come sopravvissuti che guardano l’orizzonte in cerca di una nave da un’isola deserta.

Alla fine Lee si decide. Stacca la mano dal goke - la vaschetta di legno che contiene le sue pietre bianche che aveva chiuso con il palmo fino a quel momento - ne prende una tra l’indice e il medio e la piazza quasi al centro del goban, tra due pietre nere. La mossa sembra riverberarsi nell’aria con un’energia diversa rispetto alle precedenti, come se avesse increspato uno specchio d’acqua. Nella war room del team di Deep Mind ci si accorge subito che qualcosa è cambiato – quando Alpha Go risponde con la sua mossa uno degli analisti dietro ai monitor riferisce che c’è stato un netto calo nel tasso di vittoria. «Lo sapevo fin dalla mossa 78», dice Aja Huang in Alpha Go, in un’intervista dopo la partita, che lo aveva visto sempre più in difficoltà nel nascondere le proprie emozioni «Dopo dieci o venti mosse Alpha Go ha iniziato a fare mosse strane. Sapevo che era come impazzito, ma non sapevo perché». Nel team di Deep Mind si accorgono che Alpha Go, provando a risolvere l’enigma della mossa 78, ha cercato 95 mosse avanti – la ricerca più lunga di tutta la partita. «Penso che abbia cercato così in profondità da perdere se stesso», dice David Silver.

Nessuno però se la sente di cantare vittoria, perché il gioco impazzito di Alpha Go potrebbe ancora avere un senso che noi non possiamo capire, no? Nessuno se la sente di chiamarli davvero errori. David Silver a fine partita, mentre Aja Huang prova a convincerlo che prima della mossa 78 effettivamente Alpha Go stesse vincendo, dice: «Se Alpha Go credeva di vincere e non ha raggiunto la vittoria, non stava vincendo. Altrimenti avrebbe fatto le mosse giuste».

La tensione, quindi, si scioglie solo quando finalmente Alpha Go si ritira, facendo esultare i giornalisti presenti al Four Seasons, e il pubblico fuori. Qualcuno piange, in molti si abbracciano. «Ho sentito la gente che urlava di gioia quando era chiaro che Alpha Go aveva perso la partita», dice Lee in Alpha Go «Credo che il perché sia chiaro: la gente sentiva paura e impotenza. Sembrava che noi umani fossimo deboli e fragili. Questa vittoria ha significato che possiamo ancora cavarcela da soli». Secondo Alpha Go, prima della mossa 78 Lee aveva appena lo 0,007% di possibilità di vincere. Non sembra poi tanto un’iperbole, quindi, quella utilizzata dal maestro di Go cinese Gu Li, che l’ha definita la mossa di Dio.

L'Intelligenza Artificiale è nostra amica

La mossa 78 è quella che ispira la fiducia e l’ottimismo del finale di Alpha Go, in cui l’intelligenza artificiale viene descritta come un orizzonte di miglioramento che l’essere umano non pensava nemmeno di avere. In questo modo, la mossa 37 di Alpha Go e la mossa 78 di Lee diventano sostanzialmente la stessa cosa: senza l’una non avremmo avuto l’altra, e insieme rappresentano un punto di vista completamente nuovo che l’uomo non avrebbe potuto avere da solo. E grazie al quale potrà finalmente scoprire «cosa c’è davvero dietro al gioco del Go», come dice Fan Hui nella sequenza finale mentre porta una bambina sulle spalle in un vigneto al tramonto.

Anche Lee, d’altra parte, sembra pensarla allo stesso modo: «Sono cresciuto grazie a questa esperienza. Metterò in pratica ciò che ho imparato. Mi sento molto grato e sento di aver trovato la ragione per cui gioco a Go».

Tre anni dopo quella partita, poche settimane fa, Lee Se-Dol ha però deciso di ritirarsi dal circuito professionistico di Go affermando di aver realizzato di non poter più essere il migliore perché «c’è un’entità che non può essere sconfitta».

Viene da chiedersi se in questi tre anni abbia davvero trovato la ragione per cui gioca a Go, se il mondo, come si era augurato il team di Deep Mind, abbia davvero scoperto cosa significhi questo gioco. Se magari l’intelligenza artificiale ci abbia fatto arrivare a una consapevolezza tale da averci aperto gli occhi sulla tossicità dello sport professionistico, se ci abbia liberato dall’ossessione del risultato, se il nuovo orizzonte non sia altro che un ritorno alle origini, al Go come forma d’arte. D’altra parte è quello che sembra dirci lo stesso Lee quando si giustifica affermando di aver realizzato di non poter essere il migliore nemmeno diventando «il numero uno attraverso sforzi frenetici».

Vengono in mente le parole del maestro di Go giapponese Kajiwara Takeo, che una volta ha detto: «Io non gioco per vincere. Io gioco a Go». D’altra parte è quello che celebra anche Kawabata Yasunari nel suo famoso “Il maestro di Go” (con cui vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1968), in cui racconta l’ultima partita del maestro Honinbo Shusai – rappresentante metaforico del vecchio mondo tradizionale giapponese – contro il giovane Minoru Kitani. Shusai fu l’ultimo a detenere il titolo di Honinbo, che veniva riservato al miglior giocatore della scuola omonima – la più rinomata e tra le più antiche delle quattro scuole dinastiche del Giappone (venne fondata nel 1612).

Fu un incontro che durò quasi sei mesi, e che vide la salute di Honinbo Shusai, già fragile, deteriorarsi fino alla sua sconfitta e poi alla sua morte, nel 1940, che portò anche allo scioglimento definitivo della scuola Honinbo, l’ultima rimasta in vita prima dell’avvento del professionismo. Nel romanzo di Kawabata sembra che sia quasi la stessa moderna rigidità del regolamento a togliere gradualmente la linfa vitale al vecchio maestro, come se fosse un batterio invisibile ma invincibile. È il caso, per esempio, della regola che prevede di sigillare in busta chiusa l’ultima mossa di un incontro, in caso di sua sospensione, per evitare che l’avversario abbia ore, o addirittura giorni, per pensarci. Prima di questa regola era previsto invece che l’ultima mossa prima di una sospensione fosse sempre del Nero, che per tradizione spettava al giocatore dal dan inferiore (il sistema di valutazione con cui si classificano i giocatori nel Go, e non solo) – era un atto di fiducia verso il giocatore più forte, da cui ci si aspettava che non approfittasse della situazione.

«La via del Go non aveva più nulla della virtù e della bellezza dell’Oriente, soffocate dalla freddezza di conteggi e regole», scrive Kawabata «Anche l’avanzamento nella scala dei dan che governava la carriera dei giocatori non era che un computo di alta precisione, e in primo piano era assurto lo spirito di competizione, un agonismo il cui unico scopo era la vittoria, talmente esasperato da togliere ogni spazio alla riflessione sull’arte, alla sua fragranza […] Il Go si era trasformato in evento sportivo, in puro agonismo, e tutto il resto era soltanto una conseguenza».

Ho una conoscenza troppo superficiale del Go e della cultura orientale per sapere se l’intelligenza artificiale sia una specie di vendetta sadica e paradossale del vecchio mondo sul nuovo. Quello che so è che dalla partita tra Alpha Go e Lee Se-Dol lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in ambito sportivo è andata ancora più avanti.

Nel 2017 Deep Mind ha sviluppato una nuova versione di AlphaGo, AlphaZero, che al contrario del suo predecessore impara giocando contro se stesso, anziché attingere da un database di migliaia di partite umane. In questo modo può imparare più velocemente e in modo migliore. E infatti, dopo appena tre giorni di apprendimento, Alpha Go Zero ha battuto Alpha Go a Go per 100 partite a 0.

All’inizio di quest’anno, Deep Mind ha rivelato al mondo la sua ultima creatura, AlphaStar. Come dice il nome, AlphaStar non è programmato per giocare a Go ma a StarCraft, uno dei più famosi videogiochi della Blizzard, nonché uno dei primi a diventare un esport competitivo a livello globale.

StarCraft è un gioco incredibilmente più complesso di Go, e non solo perché per il primo serve un computer e per il secondo invece solo una tavola e delle pietre. Al contrario di Go, infatti, StarCraft è un gioco principalmente a informazioni imperfette – perché spesso i giocatori non sanno cosa stanno facendo i loro avversari e in quale punto della mappa – e richiede di valutare i vantaggi ottenuti con le proprie mosse in tempo reale. Non si ha il tempo di analizzare la tavola ogni volta dopo che l’avversario ha fatto la propria mossa, insomma, e bisogna ricalibrare continuamente la propria strategia a seconda del cambiamento delle condizioni della partita e di ciò che fa il proprio avversario. Tutto questo per centinaia di volte al minuto, per una partita che può durare anche più di un’ora.

A dicembre del 2018 Deep Mind ha invitato nei suoi studi a Londra due giocatori professionisti di StarCraft II, Dario “TLO” Wünsch e Grzegorz “MaNa” Komincz, per giocare contro AlphaStar. Nel video promozionale diffuso all’inizio di quest’anno li si vede concentratissimi ma sorridenti perdere tutte e dieci le partite giocate, mentre nella stanza accanto il team di Deep Mind esulta come un centro controllo missione della NASA dopo un atterraggio di una sonda andato a buon fine. «Penso di aver imparato qualcosa. Credo di potermi considerare un buon giocatore, no?», si chiede MaNa alla fine della sua partita, senza che però il suo viso sia attraversato da alcun tipo di dubbio.

Dopo quelle due partite Deep Mind è stata costretta ad ammettere che ci fossero ancora dei “ma” rispetto al successo sbandierato pubblicamente. Il primo è che AlphaStar era ottimizzato per giocare con Protoss, una delle tre razze che si possono scegliere nel videogioco, mentre TLO si è affermato a livello competitivo utilizzando Zerg. Il secondo è che a quello stadio dello sviluppo, AlphaStar poteva ancora giocare avendo visibile l’intera mappa, al contrario dei giocatori umani che invece dovevano muovere la telecamera e scoprire la mappa gradualmente. Un enorme vantaggio competitivo, che AlphaStar ha immediatamente pagato non appena è stata costretto ad utilizzare anch’esso la telecamera del giocatore, perdendo una sesta partita con MaNa.

Lo sviluppo, però, non si è fermato. AlphaStar ha continuato a imparare giocando contemporaneamente contro decine e decine di diverse versioni di se stesso, accumulando in questo modo ore di gioco a una velocità che non appartiene al nostro mondo – nei 14 giorni che hanno separato le partite contro TLO e Mana, ad esempio, si era allenato per un equivalente di 200 anni. A fine ottobre, Deep Mind ha annunciato di aver fatto entrare una versione di AlphaStar con le stesse limitazioni umane all’utilizzo della telecamera in maniera anonima su Battle.net (una delle piattaforme online più utilizzata per StarCraft) e di aver raggiunto velocemente il livello di Grandmaster per tutte e tre le razze del gioco. In questo modo, AlphaStar si è classificata al di sopra del 99.8% dei giocatori attivi registrati su Battle.net.

Al contrario del Go, non è mai esistito un’era in cui StarCraft sia stato considerato un’arte. Il mondo degli esport nasce proprio come esasperazione competitiva di prodotti culturali che erano stati pensati per l’intrattenimento – in maniera alla fine non troppo dissimile da come sono nati gli sport tradizionali, concepiti come tecniche educative semi-marziali nei college inglesi della metà dell’Ottocento e diventati spettacoli di massa proprio attraverso la spinta competitiva del miglioramento, della ricerca della vittoria sistematica sull’avversario. È su questa spinta che si basa il mondo dello sport professionistico, in tutte le sue forme, ancora oggi. E mi chiedo in quanti nei prossimi anni, alla luce dello sviluppo dell’intelligenza artificiale, riusciranno ancora a farsi trascinare da questa spinta, sapendo che si andrà a infrangere contro un superoggetto che non ha forma, confini, limiti, definizioni. Un’entità che non può essere sconfitta.

Non posso fare a meno di pensare al momento prima che Lee Se-Dol entrasse dentro quel salone del Four Seasons Hotel di Seoul per affrontare AlphaGo, ormai più di tre anni fa. Era stato tenuto lì un minuto, ad aspettare che la porta si aprisse, in attesa che il suo futuro gli venisse svelato. Penso alla sua tensione, ai suoi sguardi all’orologio, alla sua apparente incapacità di trovare la concentrazione, allo sguardo tenuto in una mano per coprire gli occhi. Al suo corpo troppo piccolo per il vestito da adulto che lo conteneva. Guardandolo mi chiedo quanti dovranno passare per quella porta in futuro. Quanti avranno il coraggio di aprirla.

Alla fine del 2019 si è tenuta la partita d’addio al Go professionistico di Lee Se-Dol, alla meglio di tre, che per salutare la sua vita nello sport ha deciso di sfidare l’intelligenza artificiale coreana HanDol. Prima dell’inizio della partita inaugurale, che si è tenuta lo scorso 18 dicembre, Lee aveva detto di non credere di poter vincere, nonostante il vantaggio di due pietre che gli è stato concesso, e ha iniziato ad allenarsi solo dieci giorni prima dell’incontro, dopo un pausa di cinque mesi in cui non si è mai allenato.

Del tutto a sorpresa, però, Lee ha vinto, sfruttando un errore iniziale di HanDol. Nella conferenza post-partita sembrava sollevato: «Se facciamo del nostro meglio i miracoli accadono ogni tanto. Non mi preoccuperò troppo per il risultato. Voglio solo mostrare alle persone che è già abbastanza se do il cento per cento». HanDol, poi, ha vinto le due successive, aggiudicandosi la vittoria finale e chiudendo così la carriera di Lee. Il campione sud-coreano però sembrava comunque grato: «In passato dicevo sempre che il Go era la mia vita. Adesso penso che ci sia molto altro nella mia vita oltre al Go».

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