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Che senso ha giudicare l'Inter su una partita
15 mar 2024
Una sconfitta che non dovrebbe indurre al catastrofismo.
(articolo)
10 min
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Foto di Bagu Blanco / Imago
(copertina) Foto di Bagu Blanco / Imago
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Arrivati al 34’ del primo tempo non c’era una virgola fuori posto nella stagione dell’Inter. Dopo 13 vittorie su 13 nel 2024, la qualificazione ai quarti di Champions League non sembrava in discussione. La vittoria per 1-0 in casa dell’andata contro l’Atlético era un margine sottile, ma il gol di Dimarco aveva raddoppiato il vantaggio e pareva aver indirizzato le cose a favore dei nerazzurri. Il Metropolitano era una baraonda, ma l’Inter ha la personalità per reggere quel tipo di slavina che certi stadi cercano di provocare nelle partite europee. In quel primo tempo non era stata brillante, ma sembrava avere troppa solidità, troppa presenza, troppa consapevolezza per poter mandare all’aria la qualificazione.

Certe partite di Champions ti costringono a metterti la tuta da operaio, accettare contesti sporchi e sofferenza. L’Inter, però, è anche quel tipo di squadra, che se c’è da essere sporchi sa esserlo. Tutto sommato aveva rischiato poco. In alcuni momenti, poi, il possesso palla era stato amministrato con notevole calma e l'azione stessa del gol sembrava la rappresentazione plastica delle qualità che hanno reso l'Inter speciale in questa stagione.

Poi è arrivato quel passaggetto che ha cambiato tutto. La palla al limite dell’area, Koke che sembra toccarla quasi per caso verso il cuore dell’area di rigore, dove Griezmann ha fatto un altro taglio intelligente in area. Pavard, però, fa una cosa che quest’anno non era mai capitata all’Inter: fa un brutto errore nella propria area, svirgola con una goffaggine brutale da rivedere - soprattutto se messa a confronto con l’elegante spietatezza di “Grizou”.

Da quel momento qualcosa si perde, nell’anima dell’Inter. Un senso di sicurezza, ai limiti della spavalderia, che ha permesso alla squadra di giocare questi mesi assecondando una specie di flow, una trance agonistica in cui, di solito, tutto le riesce facile. Il gioco fluido, i movimenti esatti, le giocate tecniche, la capacità di raggiungere picchi di gioco vertiginosi nei momenti decisivi dei match. Una certa leggerezza e un gusto di giocare insieme, l’uno per l’altro. Gli episodi delle partite che si incastrano in successione con un’esattezza sempre a favore della squadra di Inzaghi.

Solo che l’Atletico Madrid, almeno quello dei suoi giorni migliori, è nato apposta per guastare l’umore alle squadre troppo ispirate e creative. Il calcio non come un gioco ma come una guerra. Col suo stile duro e intimidatorio, l’Atlético Madrid ha riportato di forza l’Inter coi piedi per terra. Nel secondo tempo la squadra di Inzaghi perde quasi completamente il controllo. Più l’intensità dell’Atlético sale, più l’Inter si abbassa e si spaventa. E allora più si alza il volume del Metropolitano, che si ciba della paura degli avversari; e più passano i minuti, più ci si avvicina alla fine, e più la qualificazione dell’Inter sembra difficile. Simeone fa entrare tutti i suoi attaccanti e a quel punto il gol dell’Atletico pare inevitabile, e quell’illusione di invulnerabilità trasmessa dall’Inter si rivela per quel che era: un’illusione. Il calcio smette di essere un’esibizione di leggerezza e creatività collettiva, e torna essere un affare di tensione e duelli da vincere uno alla volta.

È vero: anche in altre occasioni quest’anno l’Inter aveva sofferto l’intensità avversaria. Contro la Roma nel primo tempo stava soffocando. Contro la Fiorentina, o contro il Bologna. In nessuno di questi casi, però, la posta in palio era abbastanza alta da far tremare le gambe. Mentre quando mancano dieci minuti al fischio finale si inizia a odorare la paura di non farcela. Un gol avrebbe trascinato la partita ai tempi supplementari, sull’orlo del precipizio: la paura di perdere tutto si sarebbe incrociata col desiderio d’impresa dell’Atletico. Simone Inzaghi butta giù, in dieci minuti, un poker di cambi difensivi. All’80’ c’è quel contropiede che arriva sui piedi di Barella.

Una versione fresca di Barella avrebbe continuato a condurre palla in area di rigore e scelto il miglior modo per finalizzare. Quella versione di Barella invece tira per stanchezza dal limite dell’area, un tiro che fa il solletico a Oblak. Prima c’era stato un altro contropiede sciupato da Thuram. L’Inter si scopre anche stanca, e con sul groppone un numero preoccupante di occasioni mancate.

In quel momento iniziano i peggiori dieci minuti della stagione nerazzurra. I dribbling di Riquelme iniziano a diventare un incubo. Memphis Depay prende un palo. L’Atlético annusa l’odore del sangue e l’Inter è sempre più remissiva, e spaventata, e concentrata solo sul rosicchiare il tempo un rinvio alla volta. Quando le doppie sfide di Champions arrivano al nodo di questi minuti finali, si tratta davvero di dettagli, momenti fortunati, intuizioni. Esiste un piano della realtà in cui la palla del 2-1 non entra mai nella porta dell’Inter.

Ora dobbiamo fare un passo indietro e tornare a 365 giorni fa.

Il 14 marzo del 2023 l’Inter affronta la partita di ritorno degli ottavi contro il Porto allo stadio Do Dragao. Una squadra per molti aspetti simile all'Atlético di Simeone. È un sorteggio giudicato fortunato ma all’andata la squadra ha vinto 1-0 grazie a un gol di Lukaku a cinque minuti dalla fine. Un vantaggio striminzito. Al ritorno l'Inter non sembra patire più di tanto il Porto, ma dal 95’ al 98’ ci sono tre minuti infernali. Ivan Marcano in area, dopo una mischia, sembra aver trovato un sinistro vincente; ma Dumfries, che segue l’istinto pessimista dei difensori, si stacca dall’attaccante che marcava per andare a salvare sulla linea. Se fate caso c’è un istante in cui Marcano inizia a correre per esultare. Un minuto dopo, al terzo colpo di testa consecutivo in area, Taremi prende il palo. La palla viene deviata da un intervento istintivo di Onana da pochi passi. Un minuto dopo Marko Gruijc prende la traversa, sempre con un colpo di testa. C’è voluta una grande ferocia finale, e l’intervento del caso, per mandare l’Inter ai quarti di finale.

Ieri non è andata così bene ed è arrivato il gol di Depay, un “golazo” lo ha definito Simeone al termine della partita. Dopo quel gol, nei tempi supplementari, nei calci di rigore, era difficile scalfire la convinzione da invasati con cui l’Atlético ha giocato la partita. Se si riguardano quei due tempi, quella mezz’ora extra, l’Inter sembrava averne anche di più, forse ha avuto anche più occasioni. L’Atlético, però, giocava in quella bolla di follia in cui abitano le migliori versioni della squadra di Simeone - che ci pareva aver smarrito il tocco, e forse ci sbagliavamo.

Quando l’Inter è si è qualificata col Porto, un anno fa, sembrava un caso. Sembrava dire poco sul percorso della squadra. Il lavoro di Simone Inzaghi veniva persino messo in discussione. Il campionato perso l’anno prima era univocamente considerato un suicidio; e quell’anno la squadra era già fuori dalla corsa al titolo. Nei big match l'Inter faticava e persino il gioco sembrava irrigidito rispetto alla stagione precedente. Il 16 marzo pubblicavamo un articolo in cui ci chiedevamo se Simone Inzaghi stesse facendo il massimo con i mezzi a disposizione. Ne avevamo discusso anche nel nostro podcast riservato agli abbonati, Uno contro uno.

Oggi ci sembra un multiverso fantascientifico. In pochi mesi la narrazione si è ribaltata al punto in cui l’Inter è stata descritta come una corazzata con dei mezzi fuori scala per il nostro campionato. Un giudizio chiaramente alimentato dalla malafede di qualcuno, ma che ci spinge a chiederci: quanto velocemente possono cambiare le opinioni nel calcio? Ad aprile l’Inter ha sciolto il proprio gioco, Lukaku ha alzato il livello delle sue prestazioni, c’è stato un quarto di finale comodo contro una squadra fuori forma come il Benfica e poi il derby. Il derby di Champions ha cambiato tutto e ha demolito gli equilibri calcistici della città di Milano. Da quel momento in poi, il ciclo di Pioli al Milan si è avviluppato in una spirale decadente, mentre l’Inter di Inzaghi ha iniziato una marcia splendente, lussuriosa, arrivata fino a ieri.

In queste settimane abbiamo fatto fatica a trovare pietre di paragone per quest’Inter. Secondo molti tifosi è “la più bella Inter mai vista”. Eppure oggi molti giudizi iniziano a traballare. Nei novanta minuti con l’Atletico, l’Inter è passata dalla prudenza alla paura al panico. Il modo in cui le sue sicurezze si sono sciolte col passare del tempo è merito degli avversari, certo, ma forse anche la strategia di Inzaghi - e i suoi cambi terrorizzati - ha contribuito a far sentire la squadra meno sicura di farcela. Eppure fino a un quarto d’ora dalla fine l’Inter aveva rischiato davvero poco. Può un quarto d’ora fatto male mettere in discussione un percorso così profondamente positivo?

Nella partita contro l’Atletico abbiamo avuto un’altra dimostrazione di quanto crudele possa essere il calcio della Champions League. Il calcio dei dettagli minimi, delle sfumature invisibili agli occhi. Questa crudeltà è però proporzionale all’influenza che attribuiamo a questo torneo. Negli ultimi anni l’importanza che viene proiettata sulla Champions è cresciuta. Una conseguenza anche di un calcio sempre più oligarchico: se i campionati vengono dominati sempre dagli stessi club, il successo di quei club dovrà misurarsi altrove, nel campo europeo. L’Inter ha 16 punti di vantaggio sulla seconda in Serie A ed è un risultato incredibile. Simone Inzaghi non ha mai vinto il campionato italiano, che quindi rappresenta un obiettivo fondamentale, di vasta importanza simbolica, anche perché permette all’Inter di cucirsi sul petto la seconda stella che manca al Milan. Eppure, proprio per questo, la dimensione dell’Inter, arrivati a marzo, sembrava così grande che l’Europa era diventata il territorio in cui negoziare il valore del suo successo in campionato. Si ritrova in quella strana situazione in cui sono spesso squadre come Bayern Monaco o PSG, che vedono dipendere i giudizi sui propri campionati da un pugno di minuti in Champions League. (E non c'è, forse, un'ironia nel fatto che un allenatore considerato un maestro di coppa ma incapace di vincere i campionati come Inzaghi, veda oggi la situazione ribaltata?).

Oggi si tirano molte conclusioni sul calcio italiano. L’Inter, la squadra che in Italia viene celebrata come una delle più belle e forti squadre della storia recente, è stata eliminata da una versione ridotta dell’Atlético Madrid. Un Atlético descritto come spompato, senz’anima e a fine corsa. Un Atlético quarto in Liga, che pochi giorni fa ha perso col Cadice. In questo tipo di giudizi si nasconde un desiderio maligno di argomentare senza contesto. Far finta che le cose più attuali che accadono hanno un valore universale e assoluto, assecondando opinioni quasi sempre provocatorie. Certo, nella demolizione dell'Inter delle ultime ore c'è molto sfottò da parte di altre tifoserie, ma non mi riferisco quello ma a quel tentativo - argomentato con la selettività di un discorso di Trump - di far passare davvero l'idea che l'Inter è una squadra mediocre che sta vincendo un campionato mediocre.

L’eliminazione dell’Inter non è del tutto casuale e i suoi demeriti esistono. Ha fatto troppo poco all’andata, è stata troppo prudente e conservativa al ritorno. Ha permesso agli avversari di entrare in un trip emotivo difficile da contrastare. Eppure, nonostante tutto, ha perso ai rigori, per un po’ di sfortuna e qualche dettaglio fuori posto. Contro un avversario forte, con tanti giocatori di talento e uno dei migliori allenatori al mondo. In questa eliminazione bisogna pesare anche il valore di una rosa forte ma con dei limiti che erano piuttosto evidenti (nei ricambi offensivi, soprattutto) a certi livelli - nonostante qualcuno abbia fatto finta di non vederli in questi mesi e l'ottima forma collettiva li abbia nascosti per bene.

Ci sono ancora dieci partite di campionato da giocare e sta soprattutto a Simone Inzaghi riuscire a non far disunire la squadra, e a non sporcare d’amarezza la probabile vittoria della Serie A. Ripristinare il significato di questo eventuale successo: il riconoscimento a una grande squadra, la migliore che abbiamo visto in Italia negli ultimi dodici mesi, una delle migliori viste in Europa. Una squadra costruita sul lavoro e sul talento. Se l’eliminazione rappresenta solo un piccolo passo falso di un lungo ciclo vincente, invece, non dipende solo da Simone Inzaghi, né solamente dai suoi giocatori, ma dalla forza e dall'intelligenza della società.

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