
Alcuni tifosi avevano già lasciato lo stadio, altri preparavano mentalmente il tragitto verso casa; i più malinconici, stesi malamente sul divano, stilavano l’elenco dei rimpianti. A qualcuno sarà spuntato nella testa il pensiero peggiore: chissà se mi ricapiterà, in questa vita, di giocarmi l'ingresso in una finale di Champions League, andarci vicino, così vicino.
Alcuni momenti sono peggiori di altri, nel processo di accettazione di una sconfitta bruciante. La sera con la testa sul cuscino, prima di chiudere gli occhi, la mattina dopo averli riaperti, quando ci si sveglia nel carcere della propria sconfitta, nel mondo in cui le cose la sera prima non sono andate come volevamo. E poi quei minuti in cui la partita si gioca ancora, la nostra squadra è ancora in campo, le cose teoricamente potrebbero ancora cambiare ma sappiamo che non lo faranno. Ci tocca prendere consapevolezza che niente potrà modificare il corso di quegli eventi, e cominciamo a dare una forma a questa sconfitta, per trovarle un senso e un posto.
Mentre l’Inter controllava l’ultimo pallone della partita, o uno degli ultimi, in pochi potevano aspettarsi ciò che in effetti stava per succedere. Come dare, però, una forma a quella sconfitta?
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Sei minuti prima Raphinha aveva segnato il gol del 3-2. Aveva raccolto una respinta corta di Sommer e l’aveva buttata in porta con un destro di collo pieno più forte e angolato del necessario. Dentro un San Siro immobile e silenzioso, gruppetti di persone sparsi festeggiavano. La pingue dirigenza del Barcellona, la panchina blaugrana, mentre Simone Inzaghi guardava davanti a sé con il palmo steso davanti alla faccia, l’aria di uno passato dalla parte sbagliata della storia. Il Barcellona era sembrato sempre sul punto di dare la spallata decisiva all'eliminatoria, e a quel punto era passato in vantaggio per la prima volta nel doppio confronto, a due minuti dal novantesimo. Brutale.
Non si sapeva come l’Inter stesse perdendo quella partita assurda, ridicola, per niente somigliante alle partite di calcio che conosciamo. Sul punteggio complessivo di 6-5 era difficile ricostruire una consequenzialità logica degli eventi, capirne le motivazioni. L’Inter stava perdendo per aver preso il giro sbagliato di una roulette russa, vittima di un gioco perverso e arbitrario che è stato questa partita. Un grosso Squid Game, farcito di gol e intrattenimento iper-accelerato, controllato da chissà chi. Raphinha sembra nel pieno di un processo di cristianoronaldizzazione: non combina nulla ma gli bastano un paio di palloni per essere decisivo.
Sembrava il modo più crudele per terminare questo ciclo di Simone Inzaghi all’Inter. Dopo la finale di Champions League di due anni fa i nerazzurri sembravano aver promesso a se stessi di volerci tornare. Magari più forti, più consapevoli. Ed erano andati davvero a un passo dal riuscirci, battendo avversarie più forti, o comunque più ricche; giocando partite in cui il superamento dei propri limiti è sembrato a tratti doloroso, masochistico. E ora stavano perdendo.
Quaranta secondi prima Lamine Yamal aveva preso un palo. Si era infilato per l’ennesima volta in una difesa statravolta, ormai in disarmo, e quando aveva calciato l’Inter si era rassegnata a sperare che la palla non entrasse. Sembrava non stancarsi mai, Lamine Yamal; danzava lievemente sul prato mentre gli altri giocatori erano alle prese col proprio massimo logoramento psico-fisico. Lui continuava queste azioni sinuose, impossibili, da destra verso il centro, sempre fintando, cambiando direzioni, facendo cose che non dovrebbero far parte del calcio degli ultimi minuti, contro avversari sempre più stanchi.
Magari avrebbe potuto anche mettersi a proteggere il pallone con la suola, perdere tempo, giocare coi minuti, ma la difesa dell’Inter in quel momento era così abbandonata che è stato quasi costretto a calciare.
Il tiro di Lamine Yamal colpisce il palo pieno e viene risputato dentro al campo. L’Inter avrebbe avuto un’altra possibilità.
Nessuno difende come il Barcellona, e forse nessuno ha mai difeso come il Barcellona. Non si è mai vista una squadra con una linea difensiva così alta, che ricorre in modo così estremo all’arma tattica del fuorigioco. Dal nostro punto di vista, della nostra cultura sportiva, ci sembra un abominio, una scelta ideologica soprattutto, non funzionale a come dovrebbe essere il calcio. Eppure la linea difensiva del Barcellona funziona, fa annullare i gol alle squadre avversarie, mette loro costante pressione e permette di giocare una fase offensiva più brillante e semplificata.
È più facile attaccare quando la palla viene riconquistata in zone pericolose, mentre la squadra è fuori equilibrio e già stressata. Questo sistema, però, come ogni sistema, ha i suoi limiti. Ne scriveva Marco Lai ieri prima della partita: "Continuare a giocare con il fuoco fino al triplice fischio può diventare un azzardo. È il paradosso dei sistemi rigidi: funzionano alla perfezione finché non cedono; e quando cedono, lo fanno di colpo". Nella partita d’andata le dita dei piedi in fuorigioco di Mkhitaryan avevano salvato il Barcellona, può essere davvero così sottile il confine tra un sistema che funziona e uno che non funziona?
Dopo il gol del 3-2, a due minuti dalla fine, una squadra italiana avrebbe probabilmente fatto un cambio difensivo. Avrebbe sostituito una punta con un difensore, e poi si sarebbe abbassata di qualche metro, per ridurre il rischio che anche un lancio lungo, una seconda palla, potesse generare un pericolo. Il Barcellona però non sa cambiare sistema, o comunque sceglie di non farlo, e così è alto e un po’ lungo sul campo mentre Sommer rilancia uno degli ultimi palloni della partita, e quando Marcus Thuram vince il proprio duello aereo con Cubarsí, si apre un terribile quattro contro quattro. C'è un'indubbia questione di rigidità a non accettare una difesa più bassa su una situazione simile, ma senza rigidità il sistema del Barcellona non funzionerebbe e non sarebbe arrivato a quel punto. E con quella rigidità, comunque, la squadra non stava più rischiando nulla. Denzel Dumfries scatta a lato di Gerard Martín, che per un attimo sembra intercettare il filtrante di Thuram. Dumfries però fa un gesto furbo: allunga la sua lunghissima gamba per spostare il pallone allo spagnolo, che a quel punto simula un fallo. Dumfries crossa forte e basso al centro, dove Francesco Acerbi è rimasto alto, in uno contro uno con Araujo. È un momento che possiede qualcosa di ineluttabile.
L’Inter sembrava aver giocato tutto il secondo tempo al 4% di batteria e pareva non aver più assolutamente nulla da dire in quella partita. Non si ricordava neanche più l’ultima circostanza in cui era stata pericolosa. È proprio il fatto che sia nato dal nulla, senza presupposti logici, nel momento più inatteso, che rende quel momento così speciale. Il momento più inatteso, ma anche l’ultimo disponibile: il momento in cui si concentrano le preghiere universali dei tifosi dell’Inter.
È strano che Acerbi sia lì in area di rigore, è strana la facilità con cui tiene la posizione e poi fa gol, col destro. Il gol del tre a tre e del sei a sei in una semifinale di Champions League. Non c’è niente di logico in quello che abbiamo visto.
Francesco Acerbi è arrivato all’Inter a 34 anni e reduce dalla sua peggiore stagione alla Lazio. Il suo arrivo sembrava un capriccio di Simone Inzaghi, che nella sua vecchia squadra lo usava in modo originale nella sua difesa a tre, facendolo muovere col pallone come un pedone molto intraprendente. Pochi avrebbero scommesso sul suo successo, figuriamoci se gli avessero detto che tre anni dopo avrebbe segnato il gol decisivo di una semifinale di Champions League.
La vita di Acerbi però non ha niente di banale. Pochi mesi fa è stato al centro di un caso di razzismo che ne ha sporcato la traiettoria, che altrimenti sarebbe stata in tutto e per tutto fiabesca. Un uomo guarito da un cancro ai testicoli, passato attraverso problemi di depressione e alcolismo, che esordisce in Champions League a 32 anni, e segna il suo primo gol nelle coppe europee a 37, all’ultimo pallone dell’ultimo minuto di una semifinale contro il Barcellona.
Acerbi con la barba troppo lunga, e una strana macchina sopra, il naso triste, il fisico tutto ossa e spigoli; Acerbi che probabilmente aveva provocato e molestato i giocatori del Barcellona come fa ogni difensore italiano vecchia scuola in una partita importante; Acerbi che si era preso uno sputo da Iñigo Martínez, e poi l’esultanza in faccia di Pedri dopo il gol di Raphinha. Pedri che dopo un gol così importante per prima cosa pensa ad Acerbi, e guardando quella scena qualcuno avrà pensato che certe cose non vanno mai a finire bene.
Un minuto dopo il gol di Acerbi, Lamine Yamal arriva solo davanti al portiere. A scriverlo non ci si crede. Eppure c’è stato un momento in cui il miglior giocatore in campo ha avuto la palla per segnare il gol del 4-3 per i blaugrana. Taremi aveva ripulito un bel pallone, e poi aveva provato a servire in verticale Nicolò Barella, ma il passaggio era stato intercettato. Barella era stanco morto, sfibrato, sull’orlo dei crampi, e quella corsa in avanti rappresenta il giocatore che è: generoso e un po’ incosciente. Nel centrocampo dell’Inter si era aperto un buco, attraverso il quale era passato un geniale filtrante di Raphinha. Lamine Yamal aveva protetto palla dal rientro di Carlos Augusto, che gli aveva messo una mano sulla spalla per sbilanciarlo. Lamine Yamal ha poi tirato debolmente: lui che ha avuto la forza per far tutto, non l’ha avuta in quel momento per gestire con più brillantezza quel pallone. Se avesse trovato il gol - magari d’esterno, di punta in anticipo - non sarebbe stato strano. E allora cosa avremmo detto, come sarebbe cambiato il nostro giudizio sulla partita? Abbiamo parlato tanto della difesa folle del Barcellona, ma in fondo l’Inter ha concesso un’occasione quasi altrettanto pulita agli avversari addirittura dopo aver trovato il 3-3. È più pericoloso un tiro di destro di Acerbi o di Lamine Yamal? Quanto sono fiacchi tutti i nostri tentativi di razionalizzare tutto.
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Il flusso di emozioni di una partita viene trascritto come se fosse un elettrocardiogramma. Sono i grafici che si usano per calcolare la distribuzione degli Expected Goals nei novanta minuti e quello che racconta questa partita è incredibilmente perfetto. Sembra finto.
Negli ultimi cinque minuti dei tempi regolamentari la partita ha preso una piega quasi indipendente dal suo andamento. L'Inter non riusciva più a risalire il campo, a vincere un duello, a giocare sotto pressione. Non ne aveva davvero più. Anche il Barcellona, però, sembrava essere calato molto e aver perso l'inerzia.
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In queste ore si sta discutendo se questa non sia stata, forse, la più bella eliminatoria di Champions di sempre. Ne discutono, ovviamente, le persone meno suscettibili agli errori difensivi, non quelle per cui se si segnano più di tre gol in una partita smette di essere calcio. Sono discussioni su cui pesa naturalmente una parte di recency bias (la distorsione della percezione per cui tendiamo a considerare di più le cose avvenute più di recente). Facciamo fatica a ricordare le varie, tante, stupende, incredibili, partite di Champions degli ultimi anni. Però di certo questo Barcellona-Inter fa parte di questa storia recente in cui la Champions sta mettendo in crisi il concetto di calcio come sport a basso punteggio.
Cosa ha generato un intrattenimento così estremo? Innanzitutto il contrasto di stili fra le due squadre. Un matchup perfettamente incastrato, con i difetti del Barcellona che favorivano chiaramente i migliori pregi dell’Inter. Una squadra che gioca pressing e linea difensiva alta, e una squadra maestra dell’elusione del pressing e fenomenale negli spazi. Dentro questo canovaccio ci sono state applicazioni e variazioni sul tema; ma quel che si dice spesso, talvolta esagerando con la retorica, è che la Champions è la coppa dei momenti. Intendo qualcosa di vago e indefinito, o meglio: intendendo che il vago e l’indefinito sono più importanti dell’ordine razionale delle cose. Che più delle questioni tattiche, fisiche e tecniche, conta la capacità di surfare sulla cresta degli eventi; come se le partite seguissero un flusso non del tutto prevedibile che i calciatori devono essere bravi a leggere e interpretare. Ci sono momenti più densi rispetto alla solita rarefazione del calcio, in cui le cose succedono quasi assecondando un flusso esterno, e bisogna farsi trovare pronti. In un calcio in cui si è un po' abbandonata l'ossessione del controllo - e cioè il calcio che vediamo in Champions League - questi momenti sono di più.
E allora quali sono stati i momenti decisivi di Inter-Barcellona, cioè quelli che non ci vengono in mente subito, ma che hanno finito per risultare decisivi per produrre un risultato così strano? Vale forse la pena di farne un elenco.
Al 20’ la palla recuperata da Federico Dimarco. Dani Olmo riceve sulla trequarti e pensa di avere più tempo, ma Dimarco ha stretto la posizione verso il centro a caccia della palla. Facendolo si è preso un rischio. Vediamo Lamine Yamal sul lato basso dell’inquadratura, completamente solo. Se il Barcellona avesse eluso quel pressing avrebbe creato un’occasione molto pericolosa. Però l’Inter del primo tempo è stata una squadra senza paura, che ha accorciato il campo in avanti, ha provato a recuperare palla, si è presa dei rischi consapevole che solo prendendoseli si poteva uscire vincitori da una sfida simile. Dimarco recupera palla e ha il guizzo per innescare d’esterno Dumfries, che poi serve a Lautaro il gol dell’1-0. Dimarco era stato tra i più criticati dopo la partita d’andata: troppo timido in marcatura. Per questo, forse, ha giocato invece un’ora di grande aggressività, coraggio, intensità.
Al 41’ il passo con cui Lautaro Martinez copre palla a Pau Cubarsì. Si tratta solo di un passo in più, che ha fatto la differenza tra un intervento che prende solo il pallone a uno che prende tutto, e regala all’Inter il rigore del 2-0 a fine primo tempo. Lautaro che non avrebbe dovuto giocare, sicuramente stanco e imballato, impreciso e in ritardo su quasi tutto. Doloroso da guardare in certi momenti. Eppure capace di trovare un gol e di guadagnarsi un rigore nel primo tempo - solo con straordinaria applicazione di carisma e forza di volontà.
Al 93’ la gamba che Dumfries mette davanti a Gerard Martin per portarsi avanti l’ultimo pallone della partita. Dumfries che ha preso parte a cinque gol fra andata e ritorno: solo Del Piero e Firmino ci erano riusciti in semifinale di Champions. (Se c'è una cosa razionale da dire su questa partita, è che nessuna assenza ha pesato più di quella della coppia di terzini titolare del Barcellona).
Al 93’ la scelta di Acerbi di non tornare in difesa, di restare davanti a fare da centravanti, mentre in telecronaca Giuseppe Bergomi quasi ha una sincope, e chiede ai difensori dell’Inter di tornare dietro, assecondando il proprio istinto atavico di difensore italiano della tradizione - mentre Caressa gli ricorda, sommessamente, che “ormai”. Un momento che rende quindi chiara la differenza tra il calcio che giocava Bergomi e quello che si gioca ora, dove anche un difensore dallo stile italiano come Acerbi deve avere momenti di coraggio, ambizione offensiva, ottimismo.
Al 99’ il dribbling esausto di Marcus Thuram. Thuram che è ormai infortunato da mesi, che gioca tutto fasciato, imballato, che gioca perché ha parlato con Marotta e con Inzaghi; Thuram che dice «Inzaghi mi ha parlato, mi ha detto delle cose che rimangono tra me e questo grande allenatore. E così sono tornato». Thuram che quindi gioca sopra qualche problema fisico, ma la cui personalità a volte sembra debordare e colmare ogni mancanza. E così al 99’ - un minuto in cui nessuno ha la forza per far niente, figuriamoci un giocatore infortunato - protegge una palla alta e difficile in mezzo a Gerard Martin e Araujo. Sembra già molto, invece Thuram ha un altro guizzo, va verso il fondo e mette una palla arretrata, con una brillantezza sui primi passi che non aveva da mesi, e chissà dove l'ha pescata in quel momento. Un passaggio su cui Taremi è lucido e gioca di sponda.
Al 99’ la piccola esitazione di Davide Frattesi, la sua prima finta, con cui manda fuori tempo un difensore, con cui prende tempo e raccoglie le energie, guarda bene il secondo palo e calcia il gol del 4-3. Poi si arrampica sul cancello giallo come dopo il gol all’Hellas Verona, e dopo ha un malore. Urla così tanto che vede nero e gli gira la testa e il gioco si deve fermare, e tutti pensiamo sia la solita furbata da squadra italiana ma è solo Frattesi che ha esultato troppo. Perché ha segnato il gol del 7-6 in una partita senza senso. Dopo la partita la CBS gli ha chiesto come ha fatto a restare così calmo in quel momento, quando ha avuto quella palla in area, e lui ha risposto: «Perché sapevo che se non segnavo ero fottuto». L'ansia come grande motore delle cose.
Al 107’ la testata di Lewandowski con la parte sbagliata della testa, in cima e non in fronte, la palla che va alta, dopo la centesima giocata utile di Lamine Yamal - addirittura un cross di punta, d'esterno, non so, di una parte del piede su cui solo Lamine Yamal ha sviluppato una sensibilità.
Al 114’ la parata di Yann Sommer. L’azione era partita da un pressing malandato dell’Inter su una rimessa del Barcellona, la difesa di nuovo disarticolata in un momento decisivo. Ricordiamoci questi momenti, quando qualcuno proverà a raccontare questa vittoria dell’Inter come quella di una squadra difensiva che ha approfittato del suicidio difensivo del Barcellona. Ricordiamoci di quando al minuto 114 l’Inter pressava alta su una rimessa laterale avversaria, e Lewandowski mandava fuori tempo De Vrij, che lo seguiva a uomo lontanissimo, e poi Lamine Yamal riceveva sull’angolo destro, ed era con un solo uomo davanti, e per lui quindi era come essere da solo, e poi ha calciato senza sforzo sul secondo palo, un tiro che sarebbe stato gol contro tutti i portieri tranne che contro Yann Sommer, migliore in campo.
C’è il video di un gruppo di tifosi che prova a rientrare dopo il 90’. Erano usciti dopo il 3-2 di Raphinha, magari per avere un deflusso agevolato allo stadio. Non ci avevano creduto. Erano stati richiamati dal boato un po’ sinistro che fa uno stadio ascoltato dall’esterno.
C’è una foto molto bella di Acerbi dopo il gol. Lo vediamo di spalle, saltare a qualche centimetro da terra verso la panchina, le braccia aperte, e si nota il tatuaggio di un paio d’ali sulla sua schiena - annegate in un flusso quasi psichedelico di disegni vari e tatuaggetti.
È una foto dal significato chiaro, che vuole suggerirci che in quel momento Acerbi stesse spiccando il volo; anche se è troppo goffo e vecchio e strano per trasmettere in realtà un senso così leggero. Acerbi non ha muscoli, l’età sembra averglieli seccati addosso, e adesso gli è rimasto un vestito di pelle scarabocchiata che non gli sta nemmeno perfettamente. Acerbi fa le grinze. Il suo corpo sembra aver superato l’età in cui può ancora competere con gente eterea come Lamine Yamal o con corpi in HD come quello di Lewandowski. Però è proprio questa incongruenza generale a raccontare bene Acerbi e questa Inter. Un corpo ridotto a un brandello di nervi e ossa e grida, ai minimi termini, in finale di Champions League.