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Com'era davvero l'Inter di Gasperini?
31 ago 2018
Ricordo della breve e sfortunata esperienza dell'allenatore piemontese sulla panchina nerazzurra.
(articolo)
13 min
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Incallito lavoratore, ambizioso avanguardista, permaloso di fronte alle critiche, rancoroso ai confini dell’ossessione: nel 2011 Gasperini aveva tutto per diventare un grande interista. Con l’entusiasmo di vent’anni prima Moratti se ne sarebbe innamorato, invece lo accolse stanco e diffidente come i generali alla fine dell’impero.

Non sembrò mai convinto della decisione. Rispose «ma per favore» ai giornalisti che gli chiedevano se potesse essere l’uomo giusto per la panchina dell’Inter, li congedò con parole che sembravano escluderlo dalla lista dei papabili - «vedremo per i favoriti, vi diremo noi» - e poi, tre giorni dopo, lo ufficializzò presentandogli un contratto di un anno con opzione per il successivo.

Già durante le richieste sullo staff si respirava un clima di guerra tra bande. Su Ventrone e Rampulla fu posto il veto in quanto ex-juventini; Caneo, che era il secondo di Gasperini al Genoa, fu accolto ma degradato a collaboratore tecnico, così come il suo preparatore atletico Trucchi, anche lui integrato nello staff con un ruolo minore: furono tutti allontanati a novanta giorni dall’assunzione, assieme a Ivan Juric, alla sua prima esperienza da collaboratore.

Dopo la sconfitta in Supercoppa, la sconfitta all’esordio in Champions, e un punto raccolto in quattro partite di campionato, un 3-1 rimediato a Novara segnò la fine del rapporto. Alle 10.50 del mattino successivo, a dodici ore dal triplice fischio, Moratti annunciò alla stampa «non credo che Gasperini resterà, la sua situazione mi sembra molto difficile, sotto tutti i punti di vista» (questa tendenza di Moratti a comportarsi come un sommo giudice anziché un proprietario d’azienda che prende delle decisioni ritornerà nei racconti di Gasperini).

Stando alle cronache di quella giornata, il contratto di Gasperini fu rescisso con risoluzione consensuale alle 19.10. Alle 21.25 fu comunicato l’ingaggio di Ranieri. Quando le decisioni sono così rapide, le possibili ragioni coprono un ampio spettro che va dalla tempestiva programmazione alla schizofrenica improvvisazione: di sicuro, tanto la dirigenza interista quanto Gasperini premevano per cancellare il prima possibile il ricordo di quell’esperienza.

L’ultima, desolante, notte interista di Gasperini (foto di Olivier Morin / Getty Images).

Gasperini ha fallito con una grande?

Con il tempo, Gasperini ha cambiato atteggiamento in merito al suo periodo interista. Con l’irriverenza e la franchezza di chi è sicuro di aver subito un torto, ha raccolto ogni traccia di provocazione sul tema per aggiungere un’opinione salata a sostegno della propria tesi.

L’ultima volta è successo anche lunedì sera, al termine dello spettacolare 3-3 contro la Roma, quando gli è stato chiesto se il suo gioco fosse traslabile in una grande squadra, e lui ha riconosciuto di non averne mai allenate: «nell’unica esperienza che ho avuto quel club era in grande difficoltà, perché finiva dietro il Genoa e l’Atalanta».

Anche lo scorso febbraio, nel corso di un’intervista per Tuttosport, si era espresso in termini simili: «Non mi ricordo di essere mai stato in una grande squadra. L’Inter non lo era, almeno come valori tecnici».

Ad un rapido confronto di valori tecnici, l’intero centrocampo dell’Inter sembra inadeguato a contenere un giovane Ilicic, che se lo divora con tre tocchi.

Per la narrativa del campionato il rancore di Gasperini è una benedizione, perché negli anni ci ha regalato una serie di citazioni strepitose sull’argomento.

Ho raccolto per voi le migliori:

Gasperini punta il dito contro l’arretratezza del calcio italiano, solleticando l’orgoglio milanese: «Allora la difesa a 3 era un tabù pazzesco, anche per il Milan. Squadre prigioniere della propria storia. Che delusione per l’idea che avevo di Milano, città dinamica, all’avanguardia. Il calcio è sempre studio, ricerca, dopo 5 anni il nuovo è già vecchio».

Gasperini si accorge per primo che Fiorello aveva ormai smesso di far ridere: «Fu un’esperienza durissima. Critiche offensive, violente. Fiorello era un mio idolo, negli sketch mi faceva passare per un mezzo intossicato che non conosceva Pazzini e non capiva niente». (La scarsa fiducia in Pazzini fu molto contestata a Gasperini: la dirigenza premeva molto perché giocasse, così come numerosi opinionisti. Alla fine Fiorello gli ha chiesto scusa).

Gasperini ha fatto capire che il mercato dell’Inter era stato confuso: «Moratti all'inizio mi spiegò che un pezzo grosso doveva partire a causa del fair-play finanziario, ma Eto'o sarebbe rimasto. A me bastavano Palacio, un centrocampista e un difensore. (...) Eto'o infine partì e arrivarono Forlán e Zarate, gente diversa da Palacio e che toglieva spazio a Coutinho e Castaignos». (Il mercato, tutto sudamericano, fu completato da Jonathan e Ricky Álvarez).

Gasperini ha lasciato intendere che non era chiaro neanche chi prendesse le decisioni nell’Inter: «A Dublino, Moratti mi parlò della possibilità di riprendere Mario (Balotelli, ndr). Mi spiegò però che eravamo i soli all'Inter a volerlo. Presidente e allenatore pensavo bastassero».

Gasperini ha chiarito che non erano inadatti i giocatori al suo gioco, ma la società a gestire quei giocatori: «Ero convinto di avere dei giocatori forti che dovevano diventare più squadra, pensavo che un nuovo sistema di gioco potesse motivarli. All'Inter invece sono convinti del contrario: di avere giocatori logori che però formano una grande squadra solo se giocano come hanno sempre fatto».

Il tema dei giocatori logori è centrale nel processo che il popolo interista muove da anni contro Gasperini. In effetti nessun giocatore di quella rosa ha poi vissuto una grande annata all’Inter o altrove, e la maggior parte non ha più vinto nulla. A conferma di quanto assurda sia stata quella stagione, le uniche eccezioni alla regola sono state Motta e Coutinho, cioè i due giocatori ceduti nel mercato invernale.

Per dare un’idea del valore assoluto dell’undici titolare si può partire dall’ultima partita, giocata sul manto sintetico del Piola di Novara. L’Inter si presentò con un gasperiniàno 3-4-3: Julio César tra i pali, Lucio, Ranocchia e Chivu sulla linea di difesa, Zanetti e Nagatomo esterni, Sneijder e Cambiasso in mediana, Castaignos e Forlán ali a sostegno del centravanti Milito.

Il gol del vantaggio di Meggiorini è molto bello, ed è un compendio di tutto quello che non funzionava nell’Inter: si intravedono le classiche marcature a uomo a tutto campo, ma il pressing non è efficace; la difesa è troppo bassa e agevola la sponda di Morimoto; la posizione larga di Mazzarani manda definitivamente in tilt la linea a tre; Lucio osserva da lontano senza sapere se, come e quando tornare a difendere.

Se almeno il 3-4-3 fosse stato interpretato in maniera tradizionale, sfruttando le catene laterali, l’Inter avrebbe trovato qualche modo per mettere in difficoltà il rombo a centrocampo del Novara.

Invece, nelle immagini della partita la prestazione dell’Inter sembra un generatore automatico di disposizioni in campo: Lucio sale altissimo a destra nella zona di Zanetti, che quasi intimorito inizia a stringersi verso il centro, mentre Cambiasso e Sneijder si abbassano nello stesso punto per ricevere il pallone, ritrovandosi l’uno a fianco all’altro.

Col passare dei minuti si abbassò al centro anche Forlán, poi Castaignos andò a fare l’esterno a tutta fascia per coprire Zanetti, e così via, seguendo un ciclo di meccanismi compensativi che riportava l’Inter al punto di partenza: una squadra con l’unica vaga idea di costruire dal basso, senza sapere come, senza un centrocampo, senza la forza di anticipare o inseguire gli avversari. Nel momento in cui il pressing del Novara acquistò fiducia e intensità, l’Inter iniziò a perdere il pallone e ad aprire regolarmente il campo alle transizioni della squadra di Tesser.

«Abbiamo fatto delle buone gare quando abbiamo giocato molto coperti, non da grande squadra. Appena ci apriamo un po’ e cerchiamo di essere un po’ più offensivi, andiamo incontro a grossi guai», commentò a caldo Gasperini.

Solo pochi giorni prima, del resto, era stato costretto a rivedere i suoi princìpi nell’allucinante sconfitta contro il Trabzonspor, che ricorda con particolare sofferenza: «Lasciammo il gioco ai turchi, non riuscivamo a reggere la mezzapunta e un reparto intero che non fa la fase difensiva. Il giorno dopo quella gara dissi alla squadra: è stata l'ultima volta, piuttosto torno ad allenare i ragazzini».

In quell’occasione aveva riportato la difesa a quattro e il rombo a centrocampo. L’Inter sembrò un po’ più compatta ma non più equilibrata, e finì per subire un tiro diagonale di Celutska in un’azione in cui la difesa si dimenticò prima di fare il fuorigioco e poi di spazzare un pallone vagante.

Una delle tante immagini che rappresentano la confusione in cui versava la difesa dell’Inter. A De Rossi non sembra vero di poter saltare due linee di pressione con un passaggio di piatto. Osvaldo non è neanche in fuorigioco, Lucio non l’ha ancora notato.

L’impossibilità di sostenere il trequartista con le due punte sarebbe poi tornata attuale nella gestione di Ranieri, palesando i limiti di una squadra che non aveva le energie né l’entusiasmo per pressare alto come avrebbe voluto Gasperini. La versione dell’Inter più vicina alla sua idea di calcio la si può paradossalmente rintracciare nella prima partita ufficiale, la Supercoppa persa a Pechino contro il Milan.

L’onta del derby perso

L’Inter si presentò priva dei sudamericani Lucio, Maicon, Cambiasso e Milito, a cui la dirigenza concesse di allungare le vacanze fino al termine della spedizione cinese (Thiago Silva e Robinho erano invece al loro posto nella formazione titolare del Milan). Gasperini schierò la difesa a cinque, il centrocampo a rombo e come riferimento offensivo il solo Eto’o, che sarebbe stato ceduto due settimane dopo ai russi dell’Anzhi.

C’era la migliore linea di difesa possibile (Ranocchia-Samuel-Chivu), più o meno tutti i giocatori nei loro ruoli naturali (Obi e Zanetti esterni a tutta fascia, Stankovic e Sneijder ai vertici del rombo), e più qualità a centrocampo con Motta e Álvarez mezzali. Non bastò a contenere il Milan, che vinse 2-1, ma mostrò chiaramente come quella squadra avesse dei margini di crescita che dipendevano in senso vincolante dalla riuscita del pressing, un meccanismo acceso a fiammate eppure in grado di mettere in difficoltà il palleggio del Milan.

Mostrò anche come gli elementi idonei a seguire le richieste tattiche fossero pochi. Quando Robinho si ritrova da solo davanti a Julio César dopo neanche sei minuti (e calcia fuori, ça va sans dire), il Milan non incontra nessuna forma di resistenza difensiva nel tragitto da un’area di rigore all’altra. Álvarez non sale a pressare Gattuso, Obi non sale a pressare Abate, nessuno dei due prova a correre all’indietro per togliere profondità al Milan. Gli stessi dubbi rapiscono Zanetti e Ranocchia sull’altra fascia, che non si allineano e lasciano uno spazio enorme in cui Robinho riceve e scambia con Ibrahimovic, per cui è facilissimo anticipare Samuel.

Il 3-5-2 dell’Inter concedeva sempre tanto spazio tra i reparti e non riusciva a risolvere problemi elementari: chi copre Abate? Chi segue Robinho?

L’Inter di Gasperini non era una squadra solida. Lucio aveva perso ogni rapporto con la realtà, come dimostra l’infame calcio a Stekelenburg, e si muoveva con ritardo netto sullo sviluppo dell’azione (di fatto fu la sua ultima stagione ad alti livelli).

Stankovic poteva far trascorrere interi minuti di gioco senza muoversi mai dal cerchio di centrocampo, ma a gennaio i dirigenti preferirono cedere Thiago Motta. Gli esterni a disposizione, tanto importanti per gli equilibri di Gasperini, erano Maicon (infortunato nei primi mesi), Zanetti, Nagatomo, Obi e Jonathan, nessuno dei quali era tatticamente o atleticamente adeguato a sostenere le richieste.

In particolare, Zanetti si muoveva con una confusione che non rispecchiava la duttilità tattica che ne aveva caratterizzato la carriera, forse il più evidente segno che i tempi erano cambiati.

Nessun giovane era spendibile a quel livello: Ranocchia, l’unico investimento in difesa, si è dimostrato presto in adatto alla difesa a tre, alle uscite aggressive, agli uno contro uno in campo aperto; Ricky Álvarez teneva il pallone per un tempo infinito e faticava a coprire gli inserimenti; Castaignos non era strutturato fisicamente e superava persino l’argentino in termini di indolenza.

Forse lo sarebbe stato Coutinho, ma rimase a lungo infortunato durante la prima metà di stagione e a gennaio fu ceduto in prestito all’Espanyol. In uno spogliatoio soffocato dalla frustrazione di giocatori non all’altezza del proprio passato, sarebbe stato fondamentale intravedere uno spiraglio di futuro (tanto che il momento più felice della stagione fu il bel gol di Faraoni al Parma).

Anche Gasperini ha le sue colpe?

Sempre dopo il recente pareggio contro la Roma, Gasperini ha dettagliato un breve elenco di grandi giocatori che ha allenato in carriera: Motta, Milito, Palacio, Perotti, Gómez. Tutti giocatori tecnici, intelligenti se non addirittura cerebrali, in grado di occupare diverse posizioni e di assolvere a diverse funzioni sul campo, accompagnando la fluidità dell’azione.

Di quella dimensione, oltre a Milito e Motta che rimasero sospesi tra vacanze e infortuni, l’Inter aveva il solo Sneijder, che però si dimostrò un po’ troppo statico per il contesto a cui era ridotto. Sneijder era ancora un gran trequartista, in grado di muoversi con naturalezza in verticale e in orizzontale, ma non poteva esserlo in una formazione titolare in cui non aveva né alle spalle né di fronte giocatori più mobili di lui. E soprattutto si aspettava di essere ceduto in estate, come credeva anche Gasperini, che invece se lo ritrovò al posto di Eto’o, il giocatore che avrebbe forse assorbito meglio i cambiamenti tattici. La confusione di queste righe sbiadisce in confronto alla direzione tecnica di quella campagna acquisti.

Nelle dichiarazioni successive, Gasperini si è rimproverato di non aver fiutato per tempo l’atmosfera che circondava la squadra, oppure si sarebbe dimesso prima dell’inizio del campionato.

Proprio pochi giorni prima dell’inizio del campionato, l’Inter perse un’amichevole contro il Chievo di Mimmo Di Carlo che sarebbe stata cattivo presagio di tutte le sconfitte successive. Finì 3-2, con il rombo di centrocampo del Chievo sempre in controllo del gioco, e Ranocchia bullizzato da Théréau e Moscardelli.

Visto com’è finita, con il rombo del Novara che pasteggia nella metà campo dell’Inter, con Ranocchia espulso a 5 minuti dalla fine per un fallo da ultimo uomo su Morimoto, è lecito chiedersi perché un allenatore come Gasperini non sia riuscito ad accorgersi per tempo dell’imminente mareggiata.

Perché si è accontentato di quel fragile assetto difensivo?

Come è possibile che Lucio e Forlán fossero ancora titolari a Novara?

Come si spiegano le incomprensioni tra i giocatori nell’interpretazione di qualunque fase di gioco?

Nei ricordi avvelenati dei tifosi interisti, Gasperini è un allenatore privo di carisma e pieno di idee confuse, senza neanche il buon senso di rispettare la tradizione e la flessibilità di adeguarsi a un calcio diverso.

Nei ricordi di Gasperini, è stato l’allenatore al centro della campagna acquisti più ridicola della storia recente dell’Inter, vittima di scarsa fiducia, scarsa pazienza e numerosi pregiudizi (la difesa a tre, l’inesperienza ad alti livelli, il passato juventino).

Forse di questo si è convinto successivamente, quando il tempo gli ha concesso una seconda possibilità e lui è riuscito di ricostruirsi una reputazione, a restituirsi una dimensione internazionale, così come è successo nel frattempo all’Inter.

Le cose non potevano andare meglio di come sono andate?

Quando Gasperini ha lasciato Appiano Gentile aveva in testa questa domanda, e un herpes da stress sul labbro inferiore.

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