A qualche ora dal calcio d’inizio della finale di Supercoppa, siamo sul pullman diretto al King Fahd Stadium insieme agli altri giornalisti accreditati per la partita, guardando con curiosità lo scenario che ci circonda. Passiamo una quarantina di minuti imbottigliati nell’infernale traffico cittadino e più ci allontaniamo dal centro di Riyadh più l’atmosfera diventa da "tour in cammello e pernottamento in tenda nel deserto", che da Derby della Madonnina.
Com'è un Derby a Riyadh
Dimenticate per un attimo lo scintillio che nella serata di ieri ha fatto brillare i vostri schermi, perché fuori dallo stadio e dalle sue luci, la realtà è molto diversa. Qualche porta da calcio in cui nessuno segna un gol da tempo - d’altronde, per nove mesi all’anno il clima è ai limiti del praticabile -, intorno ampie distese di sabbia e pietre e sullo sfondo alcune sagome che interrompono l’orizzonte. Dietro di noi infatti si vede chiaramente la skyline di Riyadh, in cui si stagliano la Kingdom Tower (dimora provvisoria di Cristiano Ronaldo) e la PIF Tower (il fondo che ha permesso lo sbarco di CR7 e che due anni fa ha acquisito l’80% del Newcastle). Davanti a noi, lo stadio, uno degli ultimi baluardi della civiltà prima di 500 chilometri di deserto incontaminato che porta dritto al Bahrein.
Il King Fahd Stadium è uno di quegli impianti scavati nel terreno. Alto sì e no la metà di San Siro, ma con una capienza massima comparabile: 68mila posti circa, inclusi quelli nel palco riservato alla famiglia reale. Tutti al coperto, caso mai si giocasse in uno di quei pochi giorni di pioggia all’anno, e al riparo dal sole, la vera minaccia da cui proteggersi. È un impianto moderno, ovviamente, e destinato ad un’ulteriore espansione. È qui, del resto, che il governo saudita punta a far giocare una finale dei Mondiali, un giorno. Magari già nel 2030. Accontentandosi, nel frattempo, con la Supercup italiana e spagnola.
Fuori dallo stadio, guardandoci intorno e scambiando qualche parola con i presenti, è evidente fin da subito la distribuzione iniqua del tifo, a netta prevalenza rossonera. Ci troviamo infatti in un’area dove il Milan è per distacco più popolare dei cugini, vantando oltre 7 milioni di sostenitori nella sola Arabia Saudita (dati Nielsen) e una presenza capillare in tutta la penisola arabica. Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e anche Giordania: gli spettatori arrivano un po’ da tutto il Golfo. Un Derby da queste parti è un’occasione rara (per quanto ancora?) e non va sprecata.
A ridosso dei tornelli, ogni cliché del prepartita italiano è stravolto. Niente birre e panini con la salamella, tanto per cominciare. Per ovvie ragioni, le stesse che ci fanno trovare un’area dedicata alla preghiera, in cui tifosi con magliette di entrambe le squadre, membri dello staff e addetti alla sicurezza pregano, inginocchiati uno a fianco all’altro su un tappetto orientato verso la Mecca.
Quando le squadre stanno per entrare in campo, sugli spalti ci sono circa 51mila spettatori, ma solo poche centinaia arrivano dall’Italia: i costi della trasferta - inclusi i 120 euro di visto - non sono indifferenti, e la Supercoppa non è la Champions League, per quanto sentita possa essere questa edizione dalle due tifoserie vista la rivalità cittadina. E anche qui, ogni luogo comune va messo da parte. Le bandiere del Milan sventolano nel cuore del settore riservato all’Inter, e viceversa: spetterà ai calciatori, e loro soltanto, rappresentare il vero volto della rivalità tra le due squadre.
La situazione non è del tutto estranea per i due club in ogni caso. Nel 2011 Inter e Milan si sono affrontate a Pechino, in uno scenario per certi versi simile. Ai tempi era la Cina la nuova frontiera del calcio mondiale, prima che Xi Jinping chiudesse i rubinetti e passasse il testimone agli sceicchi. È la prima volta, però, che Inter e Milan si scontrano all’estero nel bel mezzo dell’inverno, in una partita che non precede l’inizio della stagione ma arriva nel suo culmine, in un calendario già contratto dal Mondiale in Qatar. La logica di questa Supercoppa è la stessa di quel Mondiale: si accetta il compromesso - a peso d’oro - e si organizza la trasferta in quella manciata di settimane in cui il caldo non è opprimente, cercando di renderla il più veloce ed efficiente possibile.
Il meteo, comunque non è male: sembra una giornata primaverile milanese, anche piuttosto fresca all’ora del calcio d’inizio che sono le 22 locali, le 20 in Italia. Se le due squadre arrivassero ai rigori, si andrebbe ben oltre la mezzanotte. Se in altre trasferte arabe, come quella a Jeddah del 2019, si era giocato nel loro prime time, questa volta è stata Canale 5 a spuntarla, per avere il Derby di Supercoppa a un orario consono al suo palinsesto.
Qualche fuoco d’artificio e spettacolo coreografico – niente in confronto a quello che accadrà per la premiazione finale - ed è tutto pronto per una partita che per le due squadre ha un significato particolare: vendetta per l’Inter, dopo la scorsa stagione, conferma per il Milan.
Dzeko e Lautaro vs Kjaer e Tomori
Il ritorno dopo la pausa Mondiale non era conciso con un periodo particolarmente positivo per le due squadre. L’Inter aveva ricominciato con una vittoria convincente con il Napoli, che lasciava presagire grandi cose, ma la realtà era stata piuttosto diversa: un deludente pareggio a Monza e due vittorie non particolarmente brillanti contro Parma e Verona. Al Milan è andata ancora peggio: la squadra di Pioli affronta il periodo peggiore della sua gestione dall’ormai storico 5-0 subito dall’Atalanta nel dicembre 2019, uno stato di forma tra infortuni e prestazioni che non si vedeva da molto tempo in casa Milan e che solo la rimonta con il Lecce non ha reso una vera crisi.
Un derby strano, insomma, ma con in palio la possibilità di invertire il momento negativo con una grande prestazione. E, fin da subito o quasi, è chiaro chi approfitterà di questa possibilità. L’Inter di Inzaghi vince con merito, con una prestazione ancora migliore di quella che l’aveva vista battere il Napoli a inizio 2023. Il Milan invece conferma, e se possibile peggiora, le sensazioni delle ultime settimane, mostrandosi irriconoscibile rispetto alla squadra travolgente che ha vinto l’ultima Serie A.
Rispetto a quella versione, a questo Milan più che gli uomini è mancata totalmente l’intensità, che invece era il tratto più caratteristico della banda di Pioli. I rossoneri sono apparsi stanchi, privi di quella vitalità che avevamo imparato ad apprezzare, finendo in balia della superiorità tecnica dell’Inter, che dal primo minuto ha controllato il ritmo della partita e si è mostrata più convinta nei duelli individuali. Spesso analizzare una partita nel chi fa meglio tra attaccanti di una squadra e difensori dell’altra è una lettura banale, ma in questo caso non si andrebbe lontani dalla verità: la prestazione di Dzeko e Lautaro è stata davvero di alto livello, mentre Kjaer e Tomori hanno passato una delle peggiori serate della loro carriera.
Il centrale danese è stato scelto come titolare un po’ a sorpresa da Pioli, probabilmente per non concedere un mismatch troppo evidente all’Inter in un possibile duello fisico e aereo tra Dzeko e Kalulu. Dopo l’infortunio e il lungo stop, però, Kjaer sembra aver perso l’atletismo e l’agilità per difendere in modo aggressivo, quella capacità di dominare gli avversari anche lontano dall’area di rigore che aveva reso quasi insuperabile la coppia Kalulu-Tomori nella scorsa stagione. Per l’Inter allora è stato piuttosto facile sfruttare le debolezze della coppia centrale rossonera, scambiando la posizione delle due punte come avvenuto al decimo minuto per far perdere i riferimenti agli avversari, come nell’azione del primo gol.
Darmian porta palla dalla destra e davanti a lui trova Dzeko che si è abbassato per ricevere sulla trequarti a destra, una zona di campo dove può rifinire il gioco e dove, storicamente, si trova più a suo agio che in area di rigore. Tomori sembra disorientato dal trovarsi davanti il bosniaco e non Lautaro; invece di anticiparlo, o almeno rendergli difficile la giocata successiva con un intervento aggressivo, rimane fermo a guardarlo mentre imbuca per Barella. Il centrocampista dell’Inter si inserisce con i tempi giusti nel mezzo spazio, Theo Hernandez - non concentratissimo - rimane attardato e così per Barella è semplicissimo servire sul secondo palo l’assist per il primo gol di Dimarco.
Passano dieci minuti e l’Inter raddoppia. Un’azione per certi versi simile: tutto nasce da un calcio di punizione laterale per i nerazzurri nella propria metà campo battuta da Bastoni; Lautaro è ancora sul centrosinistra ed è preso da Kjaer, che non è perfettamente allineato con il resto della difesa perché costretto a seguire il movimento incontro dell’argentino. Si crea quindi alle spalle del danese uno spazio che viene attaccato da Dzeko, che inizia la sua corsa in diagonale da destra ma che non viene seguito, come ci si poteva aspettare, da Tomori. Il difensore inglese è infatti preoccupato dalla posizione di Barella e decide di rimanere fermo. A seguire Dzeko allora è Tonali, che però parte con un attimo di ritardo e non è un difensore centrale, che forse avrebbe letto meglio il dribbling del bosniaco. Il gol di Dzeko è in ogni caso di altissimo livello, come tutta la sua partita. L’ennesima dimostrazione di una classe intramontabile anche a 36 anni e che forse in Italia non abbiamo celebrato quanto avremmo dovuto.
Il lavoro di Dzeko e Lautaro ha avuto un impatto non solo a livello offensivo, seppure presente in tutti e tre i gol. La squadra di Pioli tende a pressare alto, con grande aggressività e con chiari riferimenti a uomo sin dalla prima costruzione avversaria; l’Inter però è riuscita per tutta la partita a trovare i suoi attaccanti anche con i lanci lunghi e loro hanno avuto spesso la meglio sul marcatore diretto, permettendo alla squadra di mantenere il possesso e gestire il ritmo della partita, evitando di adeguarsi a quello del Milan.
Quando era sul lato di Tomori, Dzeko ha vinto quasi tutti i duelli aerei, mentre Lautaro ha mostrato una mobilità e una pulizia tecnica che gli ha permesso di gestire al meglio i lanci di Onana e le verticalizzazioni dei compagni, nonostante la pressione alle spalle.
I problemi del Milan
Nel secondo tempo, in ogni caso, il Milan ha giocato leggermente meglio. La spinta iniziale, però, non ha portato i rossoneri ad accorciare il risultato e riaprire quindi la partita, mettere un po’ di paura all’Inter. Al 65’ Pioli ha inserito De Ketelaere e Origi (nell’insolita posizione di esterno destro), ma il loro ingresso non ha sortito l’effetto sperato, anzi, ha in qualche modo spento la reazione dei rossoneri. In una fase di stallo è stata l’Inter ha trovare il gol del definitivo 3-0. I nerazzurri hanno colpito ancora su un calcio di punizione laterale, questa volta battuto direttamente su Lautaro. Sul lancio verso l’argentino, Tomori ha sbagliato completamente il tempo dell’intervento in anticipo, lasciandosi sorpassare dal pallone mentre Lautaro gli girava intorno. Davanti alla porta, poi, l’elegante esterno destro per battere Tătărușanu, con tanto di bacio al palo, è la parola “fine” a un Derby di Supercoppa mai davvero in discussione.
Prima ancora che il gioco riprenda, sugli spalti ha inizio una curiosa migrazione verso il settore occupato dagli interisti. Tifo o non tifo, perché non vivere la festa da dentro, in fondo?
Nella curva opposta, invece, la densità dei presenti si riduce a vista d’occhio. La delusione è cocente, soprattutto per chi ha fatto ore di viaggio per essere qui. E il primo a finire sul banco degli imputati è, ancora una volta, il grande protagonista della cavalcata vincente del 2022: Stefano Pioli.
Forse dall’allenatore sarebbe stato legittimo aspettarsi qualche soluzione tattica in più, specialmente ricordando la vittoria nel derby di settembre, quando la sorprendente idea di schierare Tonali da esterno sinistro in costruzione, per creare superiorità numerica su quel lato e ribaltare il campo con facilità, aveva messo l’Inter in grande difficoltà. Alla luce del periodo di crisi, però, è più opportuno focalizzarsi sul calo dell’intensità complessivo e sulle tante prestazioni individuali al di sotto delle aspettative, in particolare di alcuni giocatori impegnati a lungo in Qatar come Giroud ed Hernandez.
Per i rossoneri è già il momento di pensare alla delicata sfida con la Lazio della prossima settimana, tappa fondamentale che precede la rivincita cittadina del 5 febbraio. Per i nerazzurri, invece, ha inizio la festa: ad alzare la coppa è Handanovic, sullo sfondo uno spettacolo di fuochi d’artificio degno di una cerimonia olimpica. Poco più tardi, è il solito Dimarco - uscito per crampi, anche se non sembra ricordarsene - a dettare musica e testi della celebrazione, con il megafono in mano, sotto la curva, seguito a ruota Calhanoglu, che anche a queste latitudini viene fischiato ad ogni tocco di palla. Sarà lui nel post-gara quello a togliersi un sassolino dalle scarpe, parlando di karma per gli eccessivi festeggiamenti dei rossoneri dopo lo Scudetto (con tanto di diverse frecciatine al turco) e raccontando di come la squadra abbia “mangiato” gli avversari.
Il futuro della Supercoppa
Cala così il sipario sulla 35esima finale di Supercoppa Italiana, la dodicesima disputata all’estero e la terza in Arabia Saudita. Più che un addio, però, sembra un arrivederci. È notizia degli ultimi giorni, infatti, che l’interesse di Riyadh per ospitare la competizione sia più vivo che mai. Dopo l’accordo triennale del 2018 tra Lega Calcio e Turki Alalshikh (il Ministro dello Sport saudita), arrivato solo ora al termine a causa delle posticipazioni imposte dalla pandemia, l’offerta per rinnovare la sinergia è già sul tavolo. Più di 140 milioni di euro per ospitare quattro delle prossime sei edizioni (contro i 24 delle ultime tre), riportando al King Fahd Stadium una coppa che in Italia facciamo fatica ad amare.
Il periodo invernale in cui andrebbe disputata, rispetto alla sua versione estiva di un tempo, e la questione etica sembrano, che piaccia o no, ostacoli ormai dimenticati. Il Mondiale in Qatar, giocato a dicembre, ha definitivamente sdoganato lo svolgimento (e la commercializzazione) di eventi del genere nel Golfo e non è un caso che sempre più campionati stanno disputando partite in questa parte del mondo (addirittura la Supercopa Argentina si disputerà ad Abu Dhabi nei prossimi giorni. Rimane solo una criticità da superare, ma piuttosto ingombrante: il formato. La ricca proposta di estensione dell’accordo ha infatti una condizione vincolante, ovvero il passaggio ad una “final four” con quattro squadre coinvolte e un programma di tre partite. La federazione spagnola ha dato il via libera a tutto ciò nel 2020, quella italiana potrebbe essere la prossima.
Le prime resistenze da vincere, ovviamente, sono quelle dei club. Al netto di un aumento dell’introito garantito a ciascuna partecipante - dai 7 milioni di questa edizione ai quasi 10 preventivati per le prossime - convincere le grandi squadre del nostro campionato a intasare ulteriormente il calendario non sarà facile, soprattutto con l’espansione della Champions League prevista a partire dal 2024. Se ne riparlerà, in ogni caso, a fine stagione.
Ciò che sappiamo per certo è che la Supercoppa italiana è soltanto una delle tante competizioni - calcistiche e non - nel mirino della monarchia wahabita, che sta muovendo i primi passi di un processo di apertura e di “pulizia” della propria immagine internazionale. Il “Vision 2030”, di cui lo sport è un perno fondamentale. Una novità per l’Arabia, ma non in assoluto nella regione, come abbiamo ampiamente appreso dal dibattito sullo sportwashing che ha accompagnato quotidianamente il Mondiale in Qatar.
Riyadh ha osservato con attenzione le mosse di Doha, e non è un mistero che proverà a replicare tutto ciò, presentandosi al fianco di Grecia ed Egitto per una possibile edizione multi-continentale della Coppa del Mondo 2030. I peccati da far passare in secondo piano davanti all’opinione pubblica sono tanti: l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, i recenti arresti del docente universitario Awad al-Qarni (a rischio pena di morte) e dell’attivista Salma al-Shebab, le operazioni militari in Yemen, le sistematiche violazioni dei diritti umani, la disparità di genere. I petroldollari a disposizione per questo obiettivo sono però tantissimi: basti pensare alle parole del principe Mohammed bin Salman sul fondo sovrano PIF, il più ricco del mondo, «che aiuterà le nostre società ad espandersi oltre i confini e a farsi largo nei mercati internazionali, non lasciando il Paese in balia dei prezzi delle materie prime».
Tra qualche anno, con buone probabilità, ricorderemo il Derby di ieri e in generale le sfide di Supercoppa italiana e spagnola come i primi passi dell’espansione saudita nel mondo del calcio. Sicuramente lo ricorderanno gli interisti, perché non capita tutti i giorni di battere 3-0 i cugini e mettersi una medaglia d’oro al collo. C’è una consolazione, però, anche per i rossoneri, o quantomeno per chi trova conforto nella cabala. Lo scorso aprile il Milan incassava lo stesso passivo in Coppa Italia, vedeva sfumare la possibilità di vincere un trofeo ed era chiamato a rimettersi subito in carreggiata in campionato, contro la Lazio: nessuno, a Milano, ha dimenticato com’è finita.
E da Riyadh, dal derby più anormale di sempre, è tutto.