«Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo agli avversari!». Con queste frasi incendiarie Herbert Kilpin faceva nascere a Milano, il 16 dicembre 1899, il Milan Football & Cricket Club, diventandone il primo capitano. Quasi dieci anni dopo - nel 1908 - l'artista pubblicitario Giorgio Muggiani assieme ad altri compagni decise di fondare una nuova squadra di calcio sempre nella stessa Milano e, inebriato dal cielo della notte milanese, propose come colori ufficiali «il nero e l'azzurro sullo sfondo d'oro delle stelle».
Da quel momento Milan e Inter sono due squadre all’opposto. Una che guarda agli inferi e una che guarda al cielo. Una squadra sotterranea e una eterea. Una dicotomia che rappresenta perfettamente la rivalità tra due squadre vicine a livello geografico, ma distanti per tutto il resto. Tuttavia c’è un aspetto che mette in discussione questa visione e che svela invece il rapporto stratificato e complesso tra i due club e non è un aspetto neanche tanto piccolo essendo un simbolo: la loro mascotte.
La gran bissa de Milàn
Una data cruciale nella scrittura della storia delle mascotte italiane – se mai ce ne fosse una – è senza ombra di dubbio il 10 ottobre 1928, giorno in cui il settimanale Guerin Sportivo arriva in edicola con una prima pagina intitolata ironicamente “L’araldica dei calci”, articolo in cui lo scrittore e disegnatore satirico Carlo ‘Carlin’ Bergoglio assegna a ciascuna squadra del campionato italiano una sua controparte allegorica. Alcuni scudetti disegnati da Bergoglio hanno poi trovato il favore della storia e dal pubblico arrivando intatti fino a noi. Altri no. Chissà, per esempio, come sarebbe andata a finire se fossero sopravvissute mascotte come il bufalo laziale, la cavalletta fiorentina, il giullare napolista.
Quanto alle squadre milanesi, nell’articolo di Bergoglio Inter e Milan hanno tutto sommato le stesse icone portafortuna a cui le associamo ancora oggi. Il Milan è rappresentato secondo un’iconografia piuttosto inconsueta con un diavoletto pensoso, appollaiato con i gomiti sulle ginocchia, rannicchiato a metà tra l’indispettito e il mortificato. All’Inter invece, che in quel periodo si era trovata costretta a modificare il proprio nome in Ambrosiana per fascistissime ragioni, era toccata una sintesi più propriamente araldica. Il suo scudo viene rappresentato con un biscione, riproducendo esattamente quello presente sullo stemma della casata dei Visconti prima e degli Sforza poi. Una «biscia d'azzurro ondeggiante in palo e coronata d'oro, ingolante un moro di carnagione» recita il Dizionario araldico edito da Ulrico Hoepli nel 1940. Un serpente con una persona in bocca: questa è la mascotte scelta da Bergoglio per l’Inter alle soglie degli anni Trenta.
D’altronde il serpente visconteo era già comparso sullo stemma ufficiale dell’Inter già tra il 1925 e il 1928, occupando uno spazio a sinistra dello scudo rossocrociato di Milano e del fascio littorio, in una terna che tristemente neutralizzava ogni ombra di internazionalità dalla storia interista. Il biscione come simbolo dell’Inter non è quindi una fantasia di Bergoglio, ma anzi tornerà nel logo della squadra nerazzurra in almeno altre due altre occasioni: dal 1960 al 1963 e dal 1979 al 1989, con il celebre scudetto con il serpente dal collarino nerazzurro che seguiva eccellentemente il trend dei loghi modernisti – per lo più zoomorfi – che in quegli anni investe gran parte delle squadre della Serie A italiana – a partire dal lupetto della Roma e dal galletto del Bari, entrambi disegnati dal grafico Piero Gratton.
Nel celebre scudetto che l’Inter porta sul petto nel corso degli anni Ottanta però scompaiono i dettagli araldici del biscione dei Visconti: non ci sono più le spire che lo attorcigliavano e così pure non c’è più traccia dell’uomo tra i denti. Rimane solo un serpentello in transito, in principio sereno e successivamente dallo sguardo più arcigno e sfrontato. D’altronde proprio negli anni Ottanta il legame tra l’Inter e la sua trasposizione araldica si concretizza nella nascita di una nuova mascotte ufficiale. Nel 1987 la squadra nerazzurra presenta Spillo, un serpente a strisce con in testa un cappellino con visiera. Come è chiaro, tanto dal nome quanto dalla foto che accompagnano il lancio del merchandising, il nuovo serpente portafortuna è un omaggio all’attaccante Alessandro Altobelli, detto ‘Spillo’ appunto, che – ironia della sorte – lascerà l’Inter proprio quell’anno.
«Inter Football Club», n. 10, novembre 1987, archivio privato Interabilia – F.C. Internazionale 1908 memorabilia, Milano.
Tuttavia, è bene chiarirlo subito, il fatto che la mascotte dell’Inter sia storicamente associata a una biscia, e in particolare a “la gran bissa de Milàn”, non semplifica nulla, anzi. Già il piccolo bozzetto realizzato nel 1928 da Bergoglio offre spazio a dubbi e interrogativi. Per esempio, non è chiaro se il biscione stia sputando o ingoiando l’uomo. A dire il vero non è chiaro neppure chi sia questa persona e ci sono anche dubbi legittimi sulla natura del rettile. Più che una biscia, quella abbozzata da Bergoglio sembrerebbe un mescolamento grottesco tra un serpente e un drago. L’ambiguità non è casuale e corrisponde fedelmente alla nebbiosa storia dello stemma visconteo.
Stando a quanto afferma lo storico e antropologo Michel Pastoureau, i Visconti in un primo momento erano signori di Anguiaria, il cui nome discende da “anguis” che in latino, non a caso, vuol dire serpente. Per costruire una mitologia all’altezza della crescita di prestigio della famiglia i Visconti avevano scelto di imboccare la strada del revisionismo storico, anzi della leggenda tout court. Inventano una narrazione eroica secondo la quale un feroce serpente avrebbe divorato il figlio di Bonifacio, signore di Pavia, mentre egli era in guerra contro i saraceni. Tornato in patria e messosi sulle tracce del serpente, Bonifacio si sarebbe trovato a fronteggiare l’animale facendogli sputare il corpo di suo figlio ancora intonso, vivo e vegeto. Ecco il perché del serpente quindi.
Altre scuole di pensiero però la pensano diversamente. Più fonti parlano di un drago di nome Tarantasio, che secondo alcuni viveva nelle caverne e secondo altri nel mare Gerundo, un ampio specchio d'acqua stagnante, un tempo presente in Lombardia. Questo serpente, in realtà sarebbe un drago quindi, capace di spargere il panico e la morte nel capoluogo lombardo a causa del suo soffio infernale e pestilenziale. Altre leggende riportano che Tarantasio sia stato generato dal corpo moribondo del nemico della Chiesa Ezzelino da Romano. Non sorprende quindi che tra gli epiteti di questo controverso signorotto ci fosse anche quello di “insaziabile basilisco”. Nelle leggende greche, nei bestiari che sono arrivati fino a noi e più in generale nella letteratura europea, il basilisco era una fiera mitologica, un rettile immaginario considerato il “re dei serpenti” capace di incenerire o pietrificare con il solo sguardo.
Il fatto che neppure il basilisco fosse esattamente una biscia in senso stretto, quanto piuttosto un incrocio grottesco tra un gallo e un serpente, dovrebbe definitivamente convincerci sull’arbitrarietà del biscione visconteo – e dell’araldica più in generale. Tra le tante storie raccontate sulle origini della “bissa” milanese ce n’è anche una che sostiene che i Visconti abbiano scelto questo stemma, copiandone uno che già esisteva nella zona e chissà chi o cosa rappresentasse.
Tuttavia la storia più pazza da questo punto di vista è un’altra ancora. Pare che, per mettere fine alla strage della popolazione per sua mano, Umberto Visconti si sia recato presso la caverna dove la fiera stava per sbranare un bambino non meglio identificato. A seguito di un duello durato due giorni Umberto riportò la pace sconfiggendo Tarantasio e liberando il bambino e, va da sé, Milano. In memoria di questa impresa nell'insegna dei Visconti si pensò di introdurre la sagoma di un drago con un bambino in bocca. Però, quando il simbolo fu svelato il popolo si trovò davanti agli occhi un serpentone, mica un drago. Il motivo, con ogni probabilità, fu dovuto all’imperizia del pittore incaricato che, non sapendo come fosse fatto un drago avrebbe scelto di creare un accrocchio rettilomorfe.
Insomma bisogna mettersi l’anima in pace: se l’araldica è sfuggente per natura e vittima di slittamenti immaginifici, metamorfosi e fraintendimenti quella calcistica non è da meno. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, per esempio, la mascotte interista sarà spesso fedele all’ambiguo serpente-drago-basilisco che confonde la storia della simbologia milanese, arrivando talvolta ad assumere le sembianze femminili. Per esempio nel 1953 il supplemento alla rivista La Nostra Penna omaggia la vittoria del sesto scudetto dell’inter mettendo in copertina un drago acquatico – quasi un cavalluccio marino – dai tratti femminili disegnato da Mariano Congiu. Questo tipo di rappresentazione sinuosa e tutt’altro che mascolina ritorna anche in una cartolina pubblicata nel 1966, anno del decimo scudetto.
A conferma di questa specie di gioco del telefono, dopo il biscione Spillo è il turno di un coccodrillo piacione che diventa la mascotte dell’Inter a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. Non è facile ricostruire il percorso evolutivo che ha portato ad Ambrogio - questo il nome della mascotte che si rifà al Santo patrono della città - il cui unico legame con il biscione visconteo è banalmente la sua appartenenza alla famiglia dei rettili.
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Da così a così.
Dalla maglia dell'Inter alle case degli italiani
Ma se il biscione visconteo perde il suo posto di rilievo nella simbologia nerazzurra, negli stessi anni entra prepotentemente nelle case di tutti gli italiani, e non più come rappresentazione di una casata lombarda ma come simbolo di una rivoluzione culturale. Il biscione è infatti il simbolo della Fininvest, la holding che controlla la galassia di società di Berlusconi e che sta vivendo una forte fase di espansione in quegli anni, soprattutto per quanto riguarda i suoi canali televisivi. I biscione era infatti quello di Canale 5, la principale rete televisiva privata apparsa in Italia a partire dal 1980, come evoluzione di Telemilano 58 e di Canale 10.
Per la verità Berlusconi aveva scelto il riferimento ai Visconti originariamente come simbolo di Milano 2, il nuovo quartiere di Segrate inaugurato nel 1974. Per sintetizzare la ricchezza degli spazi verdi e il legame con Milano, il grafico Enzo Mazzilli aveva progettato per quell’occasione una versione stilizzata del biscione dei Visconti, disegnando in bocca al serpente un fiore al posto del bambino/uomo. Nel corso del tempo quel simbolo ha finito per coincidere con la corporate identity dell’impero mediatico berlusconiano che tra gli anni Settanta e Ottanta Marcella Boneschi, Cesare Priori e infine Mirko Pajè hanno disegnato e ridisegnato in chiave sempre più razionale, sintetica e coordinata in tutti i suoi differenti output – tra i quali il logo del gruppo Mediolanum, il gruppo assicurativo di famiglia che dal 1987 va a sostituire Fotorex come sponsor sulle maglie rossonere. Sopra la scritta Mediolanum tutta in maiuscolo con carattere sans serif, si staglia un’icona ben riconoscibile: la testa di un serpente, con in bocca non un uomo ma un fiore geometricamente sintetizzato. Per il biscione è il definitivo passaggio dalla simbologia nerazzurra a quella rossonera.
L’identificazione del biscione con il quinto canale della tv privata è così forte che si decide di materializzarlo in una mascotte di rete rivolta in primis al pubblico dei più piccoli. Dopo alcuni prototipi realizzati dall’ideatrice di Topo Gigio Maria Perego, e ritenuti non soddisfacenti, Berlusconi affida la progettazione del pupazzo al Gruppo 80 di Kitty Perria ed Enrico Valenti, i quali daranno vita a Five, un draghetto in gommapiuma dalle guance rosse, doppiato da Marco Columbro. Il fatto che la traduzione del biscione in forma di mascotte non sia un serpente ma un draghetto non dovrebbe sorprendere vista la genesi sfumata del simbolo della famiglia Visconti. Quello che è invece singolare è la repentina sparizione di questa mascotte a fronte del successo di pubblico, di tutti gli investimenti promozionali, del merchandising, di compilation storiche come Fivelandia, e degli investimenti di Operazione Five e di programmi seguitissimi come Five Time, Pomeriggio con Five e Domenica con Five.
Da biscione a diavolo
A metà anni Ottanta, dopo mesi di latitanza, Five, abbandonata la ribalta televisiva e cambiato il suo nome in Dudy – nomignolo del secondogenito di casa Berlusconi, Pier Silvio – passa dall’essere la mascotte di Canale 5 a essere la mascotte del Milan. Per evitare incidenti diplomatici però viene accorciata la coda da drago e accentuate le due corna sulla testa. La metamorfosi è compiuta: il serpente, lo stesso cucito in quegli anni sul petto dei cugini interisti, attraverso una parabola tutta mediatica fatta di apparizioni e scomparse è ora un diavolo.
E pensare che nell’album delle figurine 1986-87, che proponeva per ogni squadra delle serie maggiori una visionaria versione dello scudetto “all’americana”, ai cugini interisti – proprio nel momento in cui si assisteva alla scomparsa del draghetto/biscione berlusconiano dall’iconografia milanista – veniva assegnato il nome di Inter Dragons con tanto di fiamme sputate dalla bocca incendiaria del rettile fantastico. Effettivamente, i draghi sono anche gli animali che sputano fuoco, no? E i diavoli nel fuoco ci sguazzano come sintetizzava compiutamente lo stemma indossato dal Milan dal 1979 a metà anni Ottanta e ideato – per commemorare i primi dieci scudetti – dall’agenzia milanese Zeta.
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Nella continua evoluzione tipica delle mascotte, quelle di Inter e Milan, traendo spunto da alcuni caratteri comuni - il serpente visconteo, il fuoco dei draghi o del diavolo, una certa necessità di creare pupazzi zoomorfi - finiscono per somigliarsi e non somigliarsi in un balletto di richiami, ricorrenze, marketing e semplice intuito dei grafici.
La parabola di Dudy sfuma progressivamente negli anni Duemila, soppiantata da Milanello, un diavoletto creato ad hoc nientemeno che dalla Warner Bros. Una nuova mascotte che disambigua definitivamente ogni legame con biscioni e draghi mutanti. Tutto ciò mentre l’Inter vive, nei primi decenni del nuovo millennio, una situazione complessa di cessioni e passaggi societari che la porta ad affidarsi alla protezione di animali vari ed eventuali: su tutti un inspiegabile orsetto marrone, oppure il leone dalla criniera stellata, icona della holding cinese Suning diretta da Steven Zhang, pseudonimo di Zhang Kangyang, presidente della squadra dal 2018.
Eppure, proprio in questi ultimi anni di presidenza cinese a bordo campo sono riapparsi i draghi illudendo tutti rispetto a un possibile rocambolesco ritorno della squadra alla più canonica araldica viscontea. I draghi in questione però questa volta sono i dragoni tipici della mitologia dell’Asia Orientale, sorretti e animati da file di uomini in costume come nelle parate tradizionali del folklore cinese. Il drago orientale, nella sua consueta rappresentazione, è una fiera colossale avente corpo di serpente, quattro zampe di pollo, baffi simili a quelli del pesce gatto, criniera e corna di cervo e testa di coccodrillo. Un altro meraviglioso cadavre exquis, insomma che arricchisce, confonde e rimescola l’araldica calcistica ancora una volta.
Mentre l’Inter sta per lanciare il restyling della propria visual identity, inseguendo l’evoluzione delle squadre di calcio in veri e propri brand dalle strategie commerciali complesse e dalla comunicazione visiva sempre più controllata e abbottonata, ripercorrere la storia dell’araldica calcistica di Inter e Milan dovrebbe aiutarci a capire anche quanto siano aleatori i simboli, quanto siano fortuiti e casuali i loro percorsi.
In assenza di pubblico sugli spalti anche le mascotte acriliche della domenica sono scomparse dagli stadi. Probabilmente nel derby tra Inter e Milan di domenica non vedremo ne serpenti, ne draghi e neppure diavoletti. A rimanere è la rivalità tra le due squadre, che quest'anno si giocano un traguardo importante come lo Scudetto: rivali in campo, vicine nell'araldica. L’unica cosa certa è che, a discapito del nome della Vergine dorata posta in cima al Duomo, sembra scontato constatare quanto Milano in fondo sia una città di diavoli e di serpenti. Per altro, a pensarci bene, il serpente non è forse il primo diavolo tentatore della storia dell’uomo?