Luciano Spalletti non parla spesso di princìpi, forse perché da fiero interprete della scuola tattica italiana crede che il genio debba esprimersi attraverso la versatilità e la flessibilità; o forse perché da sagace conoscitore dell’animo umano teme che farsi scudo dietro un’identità tattica troppo precisa possa destabilizzare ulteriormente le piazze umorali che adora capitanare. Per qualche motivo, l’argomento salta fuori soltanto quando le cose iniziano a mettersi male.
E se fino a qualche giorno fa era lecito confidare in un appannamento passeggero, in qualche risultato figlio delle contingenze, contro avversarie di buon livello, adesso è il caso di dire che l’Inter non sta vivendo un buon momento (se siete poco familiari con la figura retorica detta “eufemismo” quest'ultima frase ne è un buon esempio). Contro il Bologna, Spalletti ha cambiato modulo almeno quattro volte, passando dal tradizionale 4-2-3-1 del primo tempo a una sorta di 4-3-2-1 con l’ingresso di Martínez, a una sorta di 4-4-2 con l’ingresso di João Mário, a una sorta di 3-2-5 con l’ingresso di Ranocchia. Ad ogni sostituzione, il livello di confusione in campo aumentava sensibilmente.
Al termine di una prestazione senza note liete, senza elementi da cui ripartire, tanto sul piano dell’organizzazione collettiva quanto su quello della brillantezza individuale, l’Inter ha prodotto la miseria di 3 tiri in porta contro una squadra che ne subiva 6 di media. Eppure la partita presentava diversi elementi di interesse: l’esordio dell’unico acquisto del mercato invernale, Cédric Soares; Vecino spostato in una posizione più bassa al fianco di Brozovic; il ritorno di Nainggolan titolare dal primo minuto; l’ennesimo tentativo di dare un senso al contratto di Candreva.
Non ha funzionato nulla, e in particolare l’ultima sostituzione, che ha finito per lanciare il messaggio sbagliato a una squadra che aveva già tentato 30 cross nei primi 78 minuti senza cavarne nulla. Con cinque attaccanti schiacciati sulla linea di difesa, l’Inter si è arresa al lancio lungo come unica strategia di attacco, tutto questo mentre il miglior crossatore a disposizione della squadra (appunto, Cédric) si era accomodato in panchina proprio per fare posto a Ranocchia.
È stato uno spettacolo a tratti poco decoroso, che ha esposto tutti i limiti di una squadra a cui manca un faro nella tempesta, ma soprattutto una base condivisa di princìpi di gioco cui aggrapparsi quando la porta avversaria appare lontanissima.
Anno nuovo, problemi vecchi
I princìpi, dicevamo. Spalletti ne aveva fatto menzione per la prima volta a settembre, in coda a un avvio di campionato assai deludente, mentre l’Inter si affannava a raggiungere una costanza di rendimento: «Stiamo lavorando bene anche se non capisco questi momenti di flessione che ogni tanto ci capitano, (...) queste abbassate di autostima, di personalità e di sicurezza di quelli che sono i nostri mezzi, i nostri princìpi e le nostre caratteristiche, perché siamo arrivati qui senza che nessuno ci regalasse niente».
Allora la diagnosi aveva poggiato sulle tecniche di motivazione: «Qui ci vuole per forza il ghigno del calciatore che ambisce a fare qualcosa di importante, per farlo vedere a tutti quei tifosi che guardano le partite dell’Inter». Dopo la sconfitta contro il Torino, invece, i toni si erano fatti leggermente più cupi e la diagnosi vagamente più tecnica: «Dobbiamo fare ordine su quelli che sono i princìpi della squadra, il gioco che dobbiamo sviluppare in modo più lineare. I giocatori vengono portati a tenere più la palla, così dopo nei contrasti non hanno quella forza che serve».
Per quanto sia divertente immaginare Spalletti novello Marie Kondo (la consulente dell’organizzazione giapponese che su Netflix vi sta insegnando come riordinare la casa), annusare i giocatori per capire quali gli trasmettano gioia, e ricordarsi di dire “grazie” prima di riporli negli scatoloni, l’impegno a «fare ordine» annunciato a mezzo stampa poneva numerosi interrogativi.
Dalle parole dell’allenatore toscano traspariva l’intento di velocizzare la manovra offensiva dell’Inter, di renderla più verticale, in riferimento a un passato ideale in cui l’Inter riusciva a conciliare questo gioco dispendioso con una fase di recupero palla altrettanto energica ed efficace.
Al di là della forza nei contrasti, è un periodo in cui l’Inter ha le idee poco chiare nella fase di recupero palla. Nel momento in cui Brozovic sale a pressare il portatore, nessuno si preoccupa di scalare su Milinkovic.
Cinque mesi prima, però, il punto di partenza era il medesimo, e anche all’epoca le rimostranze presentate a Spalletti suonavano molto simili. La Gazzetta dello Sport le aveva ben riassunte in un articolo pubblicato all’indomani della sconfitta contro il Parma, ma che risulta ancora di stringente attualità. Le considerazioni intorno alle carenze dell’Inter venivano articolate in tre punti, più o meno sovrapponibili tra loro.
Primo punto: la squadra si smarrisce di fronte alle difficoltà. Se va sotto nel punteggio, non riesce a risalire la china, si trova a sbattere contro un muro fisico (gli avversari ormai conoscono le difficoltà ad attaccare difese chiuse), e di conseguenza psicologico, che porta i giocatori a incartarsi in decisioni sempre più insicure. Secondo punto: il maggior numero di tocchi a centrocampo non ha portato a una maggiore pericolosità offensiva, in assenza di giocatori in grado di prendersi responsabilità creative negli ultimi venti metri. Terzo punto: troppi errori sotto porta, un sintomo di scarsa lucidità o di scarsa “cattiveria”, a seconda delle correnti di pensiero.
A partire da queste constatazioni, le conclusioni a cui si può arrivare sono diverse. Il dato però rilevante è che la fotografia scattata cinque mesi fa sia perfettamente sovrapponibile alla situazione attuale (volendo si può tornare indietro anche di tredici, il giochino si conferma infallibile).
Il che, da un certo punto di vista è persino rassicurante: l’Inter di Spalletti ha già affrontato più e più volte momenti come questo, e ha già dimostrato di poterne uscire, di saper trovare il proverbiale interruttore per tornare competitiva nel momento in cui proprio non può farne a meno. In questo senso, si direbbe che l’Inter abbia piuttosto un problema con la bassa pressione, un problema, cioè, ad arrivare attraverso il gioco e le idee laddove non può condurre l’adrenalina.
Anche nella gara di ritorno, il Sassuolo è riuscito agevolmente a bloccare le vie di accesso a Brozovic, palesando i limiti di una struttura così spaccata come quella dell’Inter. In quest’occasione Duncan vince il contrasto contro Skriniar e manda in porta un compagno.
Che squadra pensa Spalletti?
Un equivoco simile avvolge di mistero l’identità tattica della squadra. Sull’argomento, sciolte le iniziali misure di prudenza, Spalletti è sempre stato chiaro: l’Inter deve imparare ad avere confidenza con il pallone, perché è alla base delle caratteristiche che definiscono una grande squadra. Quindi, possesso palla e costruzione dal basso, anche contro le squadre più forti (anzi, a cominciare da quelle, se si pensa che una delle prime prove in cui l’Inter ha mostrato la volontà di resistere alla pressione avversaria tenendo palla a terra è stata l’amichevole contro il Bayern di Monaco dell’estate 2017, vinta 2-0).
Una volta costruito e consolidato il possesso, sta alla grande squadra ricamarsi all’interno della partita i momenti in cui attaccare il campo in velocità, ma questo processo passa necessariamente da una consolidata fase di costruzione del possesso, e quindi da una maturazione nella capacità di prendere decisioni con il pallone. In quest’ottica, come detto condivisa da Spalletti, sarebbe sbagliato pensare che le difficoltà dell’Inter in attacco siano una conseguenza della maggiore ricerca di giocate orizzontali, al massimo ne rifletterebbero la scarsa qualità.
Eppure, proprio Spalletti sembra aver riconosciuto come problematico, almeno in parte, il tipo di possesso dell’Inter. Recentemente ha detto di volere che i suoi giocatori abbiano meno compiti e che li eseguano meglio, che vorrebbe far viaggiare il pallone da una parte all’altra del campo più velocemente, mosso più dall’istinto che dal ragionamento.
E in effetti quest’anno l’Inter non solo palleggia un po’ di più, ma anche più lentamente. I volumi di passaggi tentati hanno registrato un lieve aumento in tutte le categorie, purtroppo e incredibilmente anche alla voce “cross”, che l’anno scorso era ferma a 28 a partita (già primato nei grandi campionati europei), e ora è aumentata a 30 nonostante Candreva stia giocando pochissimo; e così anche nel possesso palla, salito da 55% a 56%. A questo percorso non è però corrisposto un aumento di qualità media, impoverita oltretutto dalle partenze di Cancelo e Rafinha.
Non solo, anche alcuni giocatori fondamentali nella passata stagione sono drasticamente calate. Su tutti quelle di Perisic, la cui precisione nei passaggi è scesa dal 75,4% al 71,9%, e quella nei dribbling dal 58,5% al 46,4%; anche se il calo principale lo registra Vecino, passato dall’88,3% all’82,3% di passaggi completati, e dal 75% al 45,5% di dribbling riusciti. E a proposito di numeri in calo non si può non citare Nainggolan, anche lui molto meno risolutivo (dal 73,5% al 47,1% di precisione dribbling) e creativo (-20% nella produzione di passaggi chiave) rispetto alla passata stagione.
Quindi, anche a causa delle carenze tecniche di diversi suoi titolari, l’Inter in attacco è spesso troppo prevedibile quando deve costruire un’azione dal niente. Tuttavia, come notava anche Pergolizzi, la squadra di Spalletti non dà neanche l’impressione di attaccare facilmente il campo in transizione, con idee chiare e movimenti sincronizzati quando si trova di fronte a spazi aperti.
Allo stesso modo, la squadra di Spalletti non dà la sensazione di costruire in modo tranquillo - né tanto meno pulito - dal basso: Brozovic, che comunque resta il solo a far salire con costanza la squadra (è il giocatore che in Serie A fa guadagnare più metri alla propria squadra con passaggi o corse palla al piede) viene circondato facilmente dagli avversari, in uno spazio troppo grande che fatica a coprire anche in fase difensiva, e per questo tende a farsi ammonire qualche volta di troppo; mentre João Mário è costretto a ripiegamenti profondi dalla trequarti che poi lo penalizzano nello sviluppo dell’azione, trascinandolo fuori posizione.
Così, per iniziare l’azione dalla difesa l’Inter deve abbassare il proprio baricentro finendo per isolare Icardi e gli altri giocatori offensivi, e se arriva nella metà campo avversaria lo fa troppo lentamente per le caratteristiche dei propri giocatori migliori, quasi tutti portatori di palla che avrebbero bisogno di spazi in verticale. L’Inter è una squadra contraddittoria, che risolve un problema creandone un altro. E nei casi peggiori si allunga, si sfilaccia e si spezza e i singoli giocatori non riescono a mettere abbastanza.
Insomma, probabilmente ha ragione Spalletti quando dice che l’Inter deve avere un approccio alla partita più affine alle proprie corde, ma è vero anche che è proprio sulla sua lavagna tattica che bisogna iniziare a fare ordine.
Anche Spalletti sta provando a cambiare
Ricapitolando e semplificando: l’Inter attacca a ritmi bassi, intasando gli spazi in cui dovrebbe attaccare, finendo per rintanarsi sulle fasce e faticando a capitalizzare una supremazia tecnica e fisica che spesso è evidente in tutto tranne che nella performance o nel risultato.
Un problema che c’era lo scorso anno e c’è ancora oggi, cosa che ci spinge a interrogarci sull’evoluzione del progetto tattico. Magari l’inerzia dei risultati cambierà già dalla prossima partita, quando auspicabilmente Icardi e Martínez torneranno a capitalizzare le occasioni a disposizione, ma quanto bisognerà aspettare perché le cose cambino davvero? Oppure, con altre parole: quanto dovrà cambiare Spalletti per evitare che la storia si ripeta?
Contro il Torino, come primo segnale di forte cambiamento, Spalletti ha recuperato l’esperimento della difesa a tre, abbozzato in estate e poi mai veramente proseguito nel corso della stagione. Così l’Inter, con il 3-4-1-2, era schierata a specchio contro il tradizionale 3-5-2 di Mazzarri, una scelta motivata dall’assenza di opzioni sugli esterni, ma che ha prodotto esattamente la partita di duelli individuali in zona centrale in cui confidava il Torino.
La superiore intensità del centrocampo e dell’attacco granata ha fatto il resto, nella stessa misura in cui il Sassuolo una settimana prima aveva vinto la battaglia a centrocampo con la qualità e le geometrie (la linea di mediana Duncan-Sensi-Locatelli era apparsa, quantomeno, la più completa delle due in campo).
La cosa peggiore che possa succedere a una difesa a 3: dietro la spinta della pressione del Torino, lento giro palla che isola uno dei difensori laterali - Miranda - che si ritrova senza compagni vicini a cui appoggiarsi. Palla persa nel giro di pochi secondi e buona occasione per il Toro.
Lo schieramento inedito ha inevitabilmente peggiorato le geometrie dell’Inter, che ha fatto grande fatica a trovare ampiezza sugli esterni, per l’occasione D’Ambrosio e Dalbert, apparsi entrambi in grande confusione a dispetto del passato da quinti di centrocampo.
Considerando che la situazione nel pacchetto ali non sembra destinata a migliorare nel futuro imminente (Keita è infortunato, Politano acciaccato e squalificato, Perisic acciaccato e infelice, Candreva fondamentalmente inaffidabile), il 3-4-1-2 (o 3-5-2) rappresenta sicuramente un’opzione interessante, a patto che l’Inter riesca a interpretarlo con idee più chiare. Altrimenti, torna a galla quel senso di improvvisazione che si trasmette tra i giocatori a ogni appoggio impreciso di João Mário e Vecino, a ogni inserimento coi tempi sbagliati di Dalbert e D’Ambrosio.
Per risolvere il problema di fondo, quello dell’impossibilità di far uscire la palla dalla difesa passando per Brozovic (costretto a giocare tutta la partita spalle alla porta in appoggio ai tre difensori, senza mai riuscire a girarsi), Spalletti potrebbe anche decidere di saltare completamente il centrocampo, assegnando ai difensori e agli esterni compiti di maggiore responsabilità in impostazione, cercando filtranti o lanci lunghi che arrivino direttamente ai giocatori offensivi. Oppure può provare a sfruttare al massimo la qualità a disposizione, riproponendo Borja Valero e João Mário come mezzali, una soluzione finora sperimentata poco (Roma, Udinese, Napoli, più spicciolate di minuti qui e lì), ma sempre con risultati confortanti.
L’unico dato positivo registrato nella trasferta torinese è stato il miglioramento dell’intesa tra Icardi e Lautaro. A partire dalla sfortunata campagna di Champions League, Icardi ha iniziato a cercare nuovi registri di gioco, muovendosi più spesso al di fuori dell’area, più spesso spalle alla porta, più spesso tra le linee in appoggio ai compagni, dimostrando anche di possedere una tecnica di passaggio e una visione di gioco all’altezza del contesto.
I passaggi tentati nelle ultime 7 partite di campionato sono stati 18,7, a fronte di una media di 13,4 registrata nel combinato delle ultime due stagioni. Piccoli segnali, che però si sposano bene con la voglia di Lautaro di muoversi a complemento, di riempire e svuotare l’area, di disallineare le difese avversarie.
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Gli scambi tra Icardi e Lautaro sono stati pochi, è vero, ma contenevano la promessa di un futuro migliore. Ad ogni combinazione riuscita tra i due la difesa del Torino collassava, e non è un caso che le cose migliori si siano viste prima del gol di Izzo, quando il Toro teneva il baricentro molto più alto, lasciando spazi per le sponde e i cambi di gioco al volo dei due argentini.
A fine partita, però, Spalletti non è apparso soddisfatto: «Nel secondo tempo siamo stati prevedibili, io però me l’aspettavo. Io almeno... l’ho sempre detto che se quei due giocano insieme, vuol dire che Icardi deve spostarsi un po’, e nelle ripartenze degli avversari devi esser pronto a coprire gli spazi». Una condizione che però non è negoziabile se si vuole rendere Icardi un centravanti completo, ora che anche lui ha qualche certezza in più sulle sue capacità lontano dall’area piccola. Anche sotto questo punto di vista, non è chiaro che direzione abbia intrapreso l’Inter.
Contro il Bologna, Icardi e Lautaro hanno giocato nuovamente insieme per un tempo, ma si sono mossi in maniera decisamente meno complementare, utilizzati puramente come arieti su cui appoggiare i lanci lunghi, una strategia fallimentare. La sfida principale che l’Inter si troverà ad affrontare nei prossimi mesi, e il suo capitano con lei, sarà quella di diventare meno dipendente dai cross dalle fasce. Un aiuto dovrà per forza arrivare da alcuni elementi la cui forma potrebbe rivelarsi cruciale per le sorti di questa rosa, come Keita e Politano.
La ripresa del campionato dopo la sosta ha lasciato l’Inter con più dubbi di quanti ne avesse al termine del girone d’andata, esattamente com’era successo un girone fa, quando erano bastate tre partite tremende a mettere in discussione tutte le indicazioni positive emerse durante l’estate. Poi arrivò la partita contro il Tottenham, che l’Inter vinse nei cinque minuti finali (la partita della garra charrua), ritrovando all’improvviso fiducia nei propri mezzi e brillantezza nell’esecuzione, inaugurando così il ciclo di vittorie che l’ha trascinata fino all’attuale posizione di classifica- che rappresenta comunque un miglioramento significativo rispetto alla scorsa stagione.
Dopo il pareggio con il Sassuolo e la sconfitta con il Toro, una vittoria anche fortunosa, nei quarti di finale contro la Lazio avrebbe potuto sortire lo stesso effetto di quella partita. Invece Nainggolan ha sbagliato l’ultimo rigore, e Spalletti ha toccato il punto più basso della curva di gradimento da allenatore dell’Inter.
Riportare un trofeo in bacheca a distanza di otto anni, quantomeno, gli avrebbe risparmiato di passare alla storia dell’Inter nel girone infernale degli Hodgson e dei Tardelli, ricordato solo come l’allenatore che ha avallato la cessione di Zaniolo.
Al termine della partita contro il Bologna, i fischi dello stadio hanno fatto eco alle voci di esonero imminente, uno scenario imprevedibile soltanto un mese fa, che - per quanto Spalletti minimizza dicendo che “ho ricevuto fischi dappertutto, come gli applausi” - impone per forza di cosa una strategia d’uscita.
Sul piano tattico la squadra avrà bisogno di maggiore organizzazione e forse anche di scelte più coraggiose, per tornare a vincere le partite a centrocampo, nei duelli individuali, nelle pieghe dei novanta minuti. Difesa a tre o a quattro, centrocampo pesante o leggero, due punte o centravanti unico: sono tante le decisioni che Spalletti è chiamato a prendere nei prossimi giorni, altrettanti i princìpi da adottare e da scartare.
Il metodo KonMari a tal proposito è molto chiaro: bisogna aggrapparsi soltanto a quei princìpi che trasmettono vera gioia. In questo modo capiremo sicuramente qualcosa in più sulla dimensione dell’Inter, ma soprattutto sulla felicità di Spalletti.