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Cosa significa il cambio di rotta di Suning
10 mar 2021
Il gruppo che controlla l'Inter ha deciso di smantellare la sua prima squadra di proprietà, lo Jiangsu.
(articolo)
12 min
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Lo scorso 12 novembre lo Jiangsu Suning ha vinto il suo primo campionato dopo aver battuto il Guangzhou Evergrande di Fabio Cannavaro per 2-1 nella finale di ritorno (0-0 all’andata) grazie a una grande prestazione di Alex Teixeira. Il brasiliano, che nel 2016 Suning aveva prelevato dallo Shakhtar Donetsk per 50 milioni di euro, sul finale di primo tempo si è procurato un fallo dal limite, sulla cui punizione ha poi aperto le marcature Eder. A inizio ripresa, Teixeira ha trovato anche il raddoppio, rendendo inutile il gol di Wei Shihao, con cui la squadra allenata da Cannavaro ha accorciato le distanze. L’euforia per questo trionfo però è durata pochissimo e nessuno si sarebbe mai immaginato che sarebbe stata l’ultima partita di campionato nella storia dello Jiangsu.

Cosa è successo con Suning

Gli scricchiolii si erano già avvertiti durante la regular season della stagione 2020 della Chinese Super League, quando i giocatori avevano lasciato la sessione d’allenamento per protestare contro il mancato versamento degli stipendi. Un caso che il club aveva fatto rientrare in nemmeno 24 ore, ma che aveva lasciato strascichi pesanti. Successivamente, infatti, avrebbero fatto discutere le dichiarazioni molto dure dell’allenatore rumeno Cosmin Olaroiu (uno dei tecnici più vincenti nella storia recente del calcio asiatico), che, dopo aver vinto il campionato, ospite nel podcast di The Asian Game, si è detto infelice della gestione del club, soprattutto per non aver ricevuto il supporto che si aspettava nel miglioramento della rosa.

In realtà le difficoltà dello Jiangsu hanno a che fare con una sfera più ampia di un club di calcio. Il gruppo Suning proprietario della squadra, infatti, ha palesato delle difficoltà finanziarie piuttosto pesanti con perdite da mezzo miliardo di euro già alla fine del 2020, ritrovandosi costretto a ridimensionare la propria divisione calcistica. Non parliamo solo dello Jiangsu, o dell’Inter, per cui continuano a rimbalzare voci di una possibile cessione nel prossimo futuro, ma di tutti gli investimenti che Suning aveva fatto nel calcio negli ultimi anni.

L’emittente online PPTV, di proprietà di Suning, ha per esempio perso il diritto a trasmettere le partite di Serie A in Cina per ritardi nei pagamenti (diritto poi riacquisito a metà febbraio, dopo che Suning è riuscita a stringere un “accordo ponte” con IMG, società addetta a commercializzare i diritti TV del nostro campionato all’estero) dopo che l’anno scorso aveva perso per la stessa ragione (ma questa volta definitivamente) i diritti TV della Premier League, con cui aveva un accordo per una cifra complessiva da 650 milioni di euro. Lo stesso poi è avvenuto con la Liga e infine addirittura con la Chinese Super League, dato che il 3 di marzo la China Sports Media, che detiene i diritti della Chinese Super League, ha annunciato la sospensione del rapporto con la PPTV e con la federazione cinese. A questo punto è lecito aspettarsi che Suning termini i rapporti anche con la Bundesliga (l’ultimo campionato di calcio di cui gli rimangono i diritti) decretando la fine della sezione sportiva di PPTV.

Tornando allo Jiangsu, Suning ha atteso fino all’ultimo giorno disponibile (29 gennaio) per versare i salari di giocatori e staff. Una decisione che non è piaciuta né all’allenatore Cosmin Olaroiu, che ha deciso di rescindere il proprio contratto, né alla squadra, con Alex Teixeira che ha deciso di andare in scadenza senza rinnovare il proprio contratto. Un netto ridimensionamento delle aspettative dei campioni di Cina era all’orizzonte, insomma, ma nessuno si sarebbe mai aspettato che Suning potesse addirittura decide di sciogliere lo Jiangsu mettendo fine alle proprie attività calcistiche in Cina.

È possibile che prima di prendere una decisione così drastica il gruppo Suning abbia provato a vendere (o forse addirittura regalare) il club al governo di Wuxi, con il tentativo di spostare la squadra dal capoluogo dello Jiangsu, ma alla fine non se n’è fatto niente. In un video circolato su internet nei giorni scorsi, il proprietario di Suning, Zhang Jindong, ha ribadito la volontà del colosso cinese di focalizzarsi solamente sul settore del retail e di liberarsi di tutte quelle attività che erano ritenute non essenziali, soprattutto per via dei danni finanziari derivanti dalla pandemia di Covid-19.

Come detto, Suning ha avuto un 2020 difficile. Lo scorso anno Suning aveva investito molto nel settore immobiliare assieme al fondo Evergrande (proprietario del club di Guangzhou) con l’apertura di oltre 3200 nuovi punti vendita. Nonostante questo, e l’aumento dell’utenza online del 68% e del volume di vendita dei prodotti di oltre il 100% rispetto al 2019, Suning.com ha chiuso comunque con perdite pari al mezzo miliardo (su un fatturato di circa 33.6 miliardi di euro). Da qui la necessità di liberarsi dei rami considerati improduttivi, come per l'appunto lo Jiangsu, e di far entrare nuovi investitori come soci di minoranza, come ad esempio la Shenzhen Holding Group che ha acquistato circa il 23% di Suning per una cifra pari a 2.29 miliardi di dollari.

Lo stesso, come riportato da diversi quotidiani italiani, potrebbe avvenire più in piccolo anche all’Inter, che ha condotto delle trattative per vendere quote del club (per esempio con il fondo BC Partners, che aveva palesato un interesse molto forte per il club nerazzurro).

Cosa ha innescato l’implosione del calcio cinese

Nonostante la situazione di Suning non sia effettivamente florida, quella dello Jiangsu è però solo una delle tante storie di dissoluzione di club in Cina, dove questo tipo di avvenimento è più frequente di quanto non si pensi. Ben 16 squadre sono sparite dall’inizio del 2020 ad oggi, tra cui tre club di prima divisione. E il processo non sembra potersi arrestare.

All’origine di questi problemi improvvisi, per un movimento che fino a qualche anno fa sembrava in ascesa inarrestabile, non ci sono solo le difficoltà finanziarie contingenti ma anche decisioni governative che poco hanno a che fare con la solidità delle aziende. Una di queste è la riforma voluta dalla Chinese Football Association, che ha imposto ai club di rimuovere la denominazione aziendale, che in Cina è molto diffusa.

Questo ovviamente non significa che i club cinesi non abbiano problemi. Nonostante negli ultimi anni il calciomercato cinese sia diventato uno dei più ricchi del mondo, con l’arrivo tra gli altri di giocatori come Oscar, Hulk, Paulinho, Anderson Talisca e Alex Teixeira, persino le “grandi” squadre sono rimaste di dimensione modesta, finanziariamente parlando. Come riportato dai dati in borsa, ad esempio, il Guangzhou Evergrande, il club più vincente di Cina, a fronte di un fatturato annuale di circa 90 milioni di euro, ha dei costi che sono quattro volti maggiori.

La maggior parte dei profitti di un club della Chinese Super League derivano dai diritti TV, dagli sponsor della federazione e dal botteghino durante il matchday (quella cinese è una delle leghe con una delle affluenze maggiori al mondo, con oltre 22mila spettatori medi a partita nel 2019), mentre sono pochi i club che hanno degli sponsor personali che siano rilevanti e l’attività di merchandising per la maggior parte delle squadre è assente.

A fronte di un fatturato che oscilla fra i 30 e 50 milioni di euro per i club più prestigiosi della Chinese Super League, si deve far fronte a costi molto superiori derivanti da stipendi e costi di cartellino che negli ultimi anni sono andati fuori controllo. Invece di provare a gettare le basi di una strategia sostenibile nel lungo periodo, la federazione cinese e il governo hanno semplicemente provato a mettere un freno a questa emorragia di capitali (anche perché molte delle aziende proprietarie di club sono statali), con riforme e limitazioni che però non hanno mai risolto il problema alla radice.

A partire dalla stagione 2020, nella Chinese Super League è stato introdotto il salary cap, che impedisce ai club di riconoscere ai nuovi acquisti stranieri uno stipendio superiore ai 3 milioni di dollari (diritti di immagine esclusi) - limitazione che si aggiunge alla cosiddetta "luxury tax”, che obbliga le squadre a pagare una multa alla Federazione per gli acquisti superiori ai 6 milioni di euro pari al costo del cartellino del giocatore.

Anche se persino in Cina ci sono sempre dei modi per aggirare le leggi (per assicurare a Oscar uno stipendio da 25 milioni di euro, ad esempio, lo Shanghai SIPG aveva eletto il giocatore vicepresidente dell’azienda), alla fine queste riforme queste hanno sortito l’effetto sperato. Dopo una netta riduzione degli investimenti già nel calciomercato del 2020, nella sessione invernale appena chiusa i club della Chinese Super League hanno investito appena 26.7 milioni di euro nell’acquisto di nuovi cartellini. Per trovare una sessione di mercato più povera di questa bisogna tornare indietro all’inverno del 2010.

Ma il problema è molto più profondo degli investimenti sul mercato. Lo Jiangsu, infatti, non è l’unico club a essersi dissolto nelle ultime settimane. Prima della squadra di Suning, infatti, anche il Tianjin Teda e il Tianjin Tianhai sono scomparsi dalla massima serie lo scorso anno. E questo senza contare lo stillicidio dei piccoli club nelle serie inferiori - una costante dell’ultimo decennio, ma che negli ultimi mesi ha raggiunto dimensioni preoccupanti. Sono stati ad esempio smantellati club che hanno partecipato alla Chinese Super League recentemente, come Beijing Renhe e Yanbian Funde, mentre in terza divisione non ci sarà più il Lhasa Chengtou, club del Tibet. E adesso che questo fenomeno ha iniziato a riguardare anche la Chinese Super League l’impressione è che lo Jiangsu non sarà l’ultimo club a sparire.

Come avevamo raccontato qualche tempo fa, il calcio cinese ha iniziato ad avere a che fare con il professionismo soltanto a partire dalla metà degli anni ’90 e i club sono sempre stati legati all’azienda proprietaria, quasi sempre statale, più che alla città d’appartenenza. Questo ha portato molti club a cambiare a seconda dell’azienda proprietaria in quel preciso momento nome, logo, colori sociali e a volte persino città. Fino al 2015, anno in cui è stata promulgata una delle più importanti riforme del calcio cinese degli ultimi anni, un club poteva spostarsi ovunque. Dopo il governo ha deciso che un club si potesse spostare solamente all’interno dell’iniziale regione di appartenenza.

La stessa riforma prevedeva la rimozione dei nomi delle aziende d’appartenenza da quelli dei club - un aspetto piuttosto controverso per i motivi che abbiamo appena detto e che infatti il governo cinese ha deciso di attuare solo nel novembre del 2020. L’obiettivo della riforma era quello di creare un contesto riconoscibile e soprattutto stabile per il calcio cinese, ma ha finito per ritorcersi contro la stessa federazione che l’aveva promossa, trovando l’opposizione sia dei club, che l’hanno vista come l’occasione per svincolarsi dagli investimenti che dovevano dedicarci, sia dei tifosi, che l’hanno percepita come un attacco alla cultura del calcio in Cina.

La riforma dei nomi infatti non ha risparmiato club che a partire dagli anni ‘90 sono sempre stati legati alla stessa azienda e non hanno mai cambiato nome, come il Beijing Guoan, il Changchun Yatai, lo Henan Jianye e il Tianjin Teda. Non è un caso che i tifosi di queste squadre abbiano protestato veementemente: i tifosi della Royal Army (gruppo ultras della squadra di Pechino) hanno affittato gli spazi pubblicitari su alcuni autobus che passano di fronte alla sede della federazione decorandoli con i colori del club e un messaggio molto chiaro: “Il nostro nome è Guoan”. Guanpeng Wang, documentarista per Copa 90 e grande sostenitore del Tianjin Teda, è stato invece uno dei promotori della campagna di protesta online contro la federazione, e ha realizzato un video molto particolare, contattando ex giocatori stranieri del club, che hanno aderito al suo appello chiedendo alla federazione di non rimuovere il nome Teda. Per quanto la finalità della riforma possa essere comprensibile, magari la federazione si sarebbe in primo luogo dovuta chiedere perché le aziende avrebbero dovuto continuare a investire nei club, in assenza di un contesto sostenibile in cui prevedere dei profitti in futuro e senza nemmeno poter usare il nome del club come vetrina.

Oltre ai club già detti, il 31 dicembre l’Henan Jianye, di proprietà del fondo immobiliare omonimo, ha annunciato la vendita di parte delle proprie quote a un gruppo di investitori rinominando il club in Luoyang Longmen rendendo implicito il passaggio dalla capitale della provincia di Henan, Zhengzhou, alla città di Luoyang (sempre nella stessa provincia) a 100 chilometri di distanza. La reazione dei tifosi è stata immediata, con l’annuncio dello scioglimento del gruppo ultras “Red Devils" e una protesta di fronte allo stadio contro la proprietà.

Il fondo immobiliare Jianye non è stato l’unico a prendere la palla al balzo per svincolarsi da questo business: lo Shijiazhuang Everbright (di proprietà del fondo immobiliare Everbright), retrocesso proprio alla fine di questa stagione, ha anch’esso cambiato città e nome vendendo quote del club al governo della città di Cangzhou (ora si chiama Cangzhou Mighty Lions). Stessa storia per l’Hebei Fortune (club nel quale hanno militato Lavezzi, Mascherano e Gervinho) che si sposta da Langfan a Tangshan (cambiando nome in Hebei FC), con la proprietà che sta cerca di sbarazzarsi del club - in profonda crisi finanziaria.

L’orizzonte per il calcio cinese, insomma, non sembra propriamente roseo. Lo hanno confermato anche diversi giornalisti cinesi come l’analista Yan Qiang e il giornalista Ma Daxing, secondo cui “le fondamenta del calcio cinese sono troppo deboli”.

Non è tanto una mancanza di volontà politica. La Cina, infatti, continua a costruire infrastrutture e a investire nella formazione scolastica. Il “Dragone" si appresta a ospitare importanti eventi come la Coppa d’Asia del 2023 e il nuovo Mondiale per Club a 24 squadre (ancora da determinare la data), e ha ancora l’ambizione di organizzare il Mondiale per nazionali. Per questi grandi eventi si stanno costruendo nuovi immensi stadi, di cui però non si conosce il destino una volta che questi eventi saranno passati, a parte quello di breve termine di aggiustare il PIL locale e di mantenere alto il tasso di occupazione.

Non vi è strategia nemmeno per quel che riguarda il calcio giovanile come esposto in questo lungo articolo su wildeastfootball: le scuole e le società ricevono fondi governativi in base ai risultati ottenuti e dunque si crea una strategia sul breve termine per vincere i tornei giovanili (spesso barando anche sull’età dei giocatori) per sperare di ottenere maggiori fondi l’anno successivo. Il radicamento della cultura calcistica però rimane ancora un miraggio: non è un caso che la Cina dunque negli ultimi dieci anni non abbia prodotto alcun talento rilevante (fatta eccezione per Wu Lei) e che nelle Coppe d’Asia di categoria le selezioni giovanili non abbia mai passato la fase a gironi.

E oggi, dopo 10 anni di investimenti incontrollati, la Cina con la riforma dei nomi dei club sembra aver chiuso definitivamente la porta allo sviluppo di un vero e proprio movimento. Che forse rimarrà nient’altro che un ricordo nostalgico del decennio appena passato.

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