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Storia dell'Inter dei tedeschi
18 set 2018
Racconto della tradizione dei calciatori tedeschi arrivati all'Inter tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90.
(articolo)
33 min
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La stagione 1978-79, per il calcio italiano, rappresenta un punto di svolta epocale. Per la prima volta dall’entrata in vigore del girone unico, la Serie A è ai blocchi di partenza senza giocatori stranieri. Le frontiere erano state chiuse nel 1966, in seguito alla tragica débâcle contro la Corea del Nord ai Mondiali organizzati e vinti dall’Inghilterra, ma alle squadre era stata concessa la possibilità di mantenere gli stranieri già presenti in Italia. L’ultimo ad arrendersi, nel 1978, è Sergio El Gringo Clerici, arrivato nel lontano 1960 per vestire la maglia del Lecco. Dopo una vita calcistica in giro per il nostro paese, da nord a sud, lascia al termine di una stagione particolarmente opaca con la maglia della Lazio.

Nel decennio senza stranieri, il bilancio in Europa è pessimo. Due soli acuti nel corso degli anni ’70: la Coppa delle Coppe vinta dal Milan nel 1972-73 e la Coppa Uefa della Juventus quattro stagioni più tardi. E così, a cavallo tra il 1979 e il 1980, i vertici del calcio italiano iniziano a discutere della possibile riapertura delle frontiere. La Juventus è in prima fila, secondo La Stampa dell’11 gennaio 1980 avrebbe già opzionato «Zico, Maradona e Keegan». È un giorno cruciale, perché in Lega si discute della formula da adottare. Il Torino traina i club dell’opposizione: «Nel calcio italiano si va avanti con gli slogan e le mode, adesso c’è quella dello straniero che dovrebbe venire in Italia a risolvere i nostri problemi di gioco e di mentalità», sentenzia Gigi Radice. Eraldo Pecci sfocia nel sarcasmo: «Ben venga il campione straniero per dimostrare che non servirà a nulla averlo. Di assi ne verranno pochi, all’estero sono abituati a giocare in un’altra maniera e non è detto che saremo noi ad adattarci al loro ritmo di gioco e non viceversa».

Il tempo lo smentirà in maniera clamorosa, ma Pecci manterrà la sua verve anche negli anni trascorsi a supportare Bruno Pizzul in Rai, con battute del calibro di «Bruno, sai perché i portieri turchi sono molto forti? Perché sono Ottomani». Si va ai voti sul compromesso di un solo straniero per squadra e la Juventus scopre di avere al suo fianco soltanto Milan, Napoli e Udinese. Tra le società che si oppongono c’è l’Inter che però, nello stesso giorno, annuncia il primo colpo straniero: Hans-Peter Müller, per tutti “Hansi", stella dello Stoccarda. La palla passa ad Artemio Franchi, presidente della FIGC e della UEFA.

L’Inter dà per conclusa la trattativa con il tedesco, anche se non arriverà in nerazzurro con la riapertura delle frontiere ma soltanto due anni più tardi. Eppure, nella pagina de La Stampa, si riportava addirittura un virgolettato del d.s. Beltrami: «Riceverà un ingaggio quasi simile a quello che ricevono i calciatori italiani».

Le grandi trattano e con il passare dei mesi il Torino rimane l’unica società dissidente tra quelle di un certo livello. Ma il calcio italiano ha problemi ben più grandi: il 23 marzo del 1980, al termine delle partite della ventiquattresima giornata di Serie A e ventisettesima di Serie B, vengono arrestati tredici giocatori, alcuni direttamente a bordo campo. Li ha denunciati Massimo Cruciani, commerciante di frutta all’ingrosso, che aveva perso centinaia di milioni di lire in scommesse clandestine, dopo aver avuto garanzie di combine dai diretti interessati, insieme al suo “socio” Alvaro Trinca, proprietario di un ristorante di cui era fornitore. La slavina colpisce anche alcuni calciatori che lì per lì non vengono arrestati, come Paolo Rossi e Giuseppe Savoldi, uniti a una schiera che coinvolge nomi altisonanti come Bruno Giordano, Lionello Manfredonia ed Enrico Albertosi.

Il 9 maggio 1980 si riunisce a Roma il Consiglio della FIGC. Artemio Franchi, malato e prossimo a cedere lo scettro federale a Federico Sordillo, non c’è. Mentre in Procura impazzano le dichiarazioni di Trinca, il calcio italiano dà l’ok alla riapertura delle frontiere, con un’autolimitazione: uno straniero per società e soltanto in Serie A. Al via del campionato successivo, privo di Lazio e Milan, finite in B per lo scandalo Totonero, si presentano quindi undici stranieri. Alla Juve non arriva né Maradona, né Zico, né Keegan, bensì Liam Brady. La Fiorentina scommette su Bertoni, il Napoli su Krol, la Roma su Falcao. Il Torino sceglie van de Korput, l’Avellino lancia l’attaccante Juary. Completano il quadro il Bologna con Eneas, il Perugia con l’argentino Fortunato e la Pistoiese con il mitologico Luis Silvio. E all’Inter non c’è Hansi Müller, bensì l’austriaco Prohaska. Per dare il via al decennio dei tedeschi, bisogna aspettare il 1982-83.

Hansi, la sedia e un dualismo impossibile

Per far capire l’importanza di Evaristo Beccalossi nell’Inter della prima metà degli anni ’80, prendiamo in prestito l’incipit di uno storico sketch di Paolo Rossi: «Questo pezzo è dedicato a due grandi talenti della cultura mondiale, che han fatto sì che alcuni di noi, seppur perdenti, si ritenessero destinati a una vittoria futura e possibile. Questi due talenti nel campo della cultura, della musica, dell'arte, dell'evoluzione in genere, sono per me Charlie Parker ed Evaristo Beccalossi. Forse mi rendo conto che molti di voi non sanno chi era Charlie Parker, allora spiego chi era Beccalossi».

Il Beck è l’idolo della Milano nerazzurra di quel tempo. Fantasista mancino, indolente e irresistibile, con la sua andatura ciondolante scalda i cuori dei tifosi. Meno quelli dei compagni di squadra, che lo beccano spesso e volentieri. «Mi sopportavano con cristiana rassegnazione. Dicevano, guardandomi e sapendo la mia volubilità: “Oggi giochiamo in dieci o in dodici?”. Quelli a cui sono più riconoscente sono quelli che correvano anche per me. Oriali, un campione, ogni tanto mi passava vicino e mi sibilava “Ci stiamo facendo il culo per te, vedi di inventarti qualcosa e di farci vincere”. E poi Beppe Baresi, che correva per tre, e Marini. Io ho avuto da loro più di quanto sia riuscito a dare. Loro facevano i sacrifici durante la settimana, compresa la domenica, e io, quel giorno santificato, li dovevo ricompensare». Quando arriva all’Inter, Hansi Müller deve inevitabilmente dividere il proscenio con Beccalossi. È stato parte della spedizione tedesca a Spagna ’82, in finale è entrato in campo quando tutto era praticamente finito, dopo il gol di Tardelli. Al Mondiale, con gli azzurri, Beck non c’era. Per uno che a San Siro era abituato a leggere striscioni tipo «Evaristo, sei meglio di Cristo», è un oltraggio. La sua esclusione, insieme a quella di Pruzzo, aveva fatto insorgere l’opinione pubblica italiana. Insurrezione sedata da Paolo Rossi e dalla vittoria finale.

All’Inter c’è un nuovo allenatore: è Rino Marchesi, che nel suo biennio a Napoli ha addirittura sfiorato il primo Scudetto della storia partenopea. Il tecnico pretende grande sforzo dai suoi nella fase di preparazione estiva, e Müller ne pare sconvolto. Sulle pagine de La Stampa, il 10 agosto, si legge: «Il tour de force, oltre a stupire Fraizzoli, ha prostrato più di un giocatore. Hansi Müller ha detto a qualche compagno di non aver mai sostenuto allenamenti così duri. Per parte sua, il tedesco non dice niente. Si è chiuso da giorni in un inspiegabile silenzio-stampa, a imitazione degli azzurri al Mundial. Fraizzoli l’ha scusato affermando che il tedesco, oltre a essere spaesato, è addirittura terrorizzato da quello che è successo a Castel Del Piano e a Viareggio, dove l’Inter ha giocato con centinaia di persone ai bordi del campo».

Sul tedesco pesa anche un grande punto interrogativo relativo alle condizioni del suo ginocchio, operato nella stagione precedente. Dubbi confermati da Marchesi, intervistato alla vigilia di un’amichevole con lo Stoccarda: «Mi sono raccomandato con lui perché non cerchi di strafare, meglio che non rischi e giochi in scioltezza. Gli manca ancora il giusto tono muscolare. Dopo un intervento chirurgico come quello che gli è stato fatto al ginocchio occorrono almeno sette mesi perché una gamba sia a posto. Gli manca ancora un mesetto». Eppure, il biglietto da visita in Serie A è strepitoso. Un assist per Altobelli e una punizione dipinta sotto l’incrocio a Verona, Hansi sembrerebbe avere tutte le carte in regola per diventare un idolo interista.

L’illusione del Bentegodi.

Un’entrataccia di Oddi lo mette fuori causa dopo solo un tempo, il ginocchio è lo stesso già operato. «Non dovrebbe essere nulla di grave, proverò a correre dopo una notte di riposo e di ghiaccio, poi vedremo. A differenza di quanto avvenne un anno fa, non ho avuto paura. Quando mi infortunai, allora, capii subito che si trattava di una cosa grave». Le altre domande sono sul dualismo con Beccalossi: «Non ci sono problemi, abbiamo avuto soltanto un malinteso ma io, per dimostrargli che non sono egoista, gli ho passato subito la palla». Il Beck non c’è sette giorni più tardi, quando la Sampdoria sbanca San Siro. Müller segna ancora, ma in casa Inter non c’è un bel clima. Scatta un tutti contro tutti e Hansi è in prima fila: «I miei compagni non hanno ancora capito una cosa: quando sono marcato, devono darmi ugualmente la palla, altrimenti non posso fare gioco. Per non parlare poi del caldo afoso che mi ha distrutto, dopo un’ora di gioco non ce la facevo più. Oltre a me ci sono altri interisti a corto di preparazione, in particolare Juary, che si è mosso molto poco». Il tedesco si intristisce. Mentre cerca casa a Milano, vive alla Pinetina. E il ginocchio gli fa male. Lo dice ai medici, cerca di tenere duro, poi alza bandiera bianca a inizio ottobre. Non deve essere operato, ma ha bisogno di almeno un mese di stop.

L’Inter si ritrova con le spalle al muro, accusata di aver comprato un giocatore già rotto. Accuse respinte: la dirigenza, con Beltrami e Mazzola in prima fila, aveva spedito un paio di medici in Germania prima di chiudere l’affare. I borbottii sul conto di Müller aumentano, anche perché inizia a girare con insistenza una leggenda metropolitana. Non lo è quella sulla firma di Michel Platini su un precontratto interista, avvenuta ormai cinque anni prima, quando l’odore della riapertura delle frontiere aveva ingannato i dirigenti. Lo è invece quella su un presunto incontro tra il d.s. nerazzurro, Giancarlo Beltrami, e Le Roi nella primavera del 1982.

Secondo Leo Turrini, che riporta questa versione in Pazza Inter, «il Beltrami aveva molte qualità ma non conosceva la lingua francese. Aveva dunque dato appuntamento a Platini per il colloquio finale “après la gare”. Nella maccheronica traduzione del diesse, significava vedersi dopo la partita che Michel doveva disputare in serata. Ma ‘gare’, nell’idioma di Molière e Depardieu, vuol dire stazione. Un disorientato Platini si era recato tra pensiline e binari: non trovando il povero Beltrami, l’asso transalpino si era poi accordato con la famiglia Agnelli, senza rimpianti, mentre l’Inter aveva ripiegato su Müller». Una versione smentita da Platini: «Quando hanno riaperto le frontiere avevo un contratto con il Saint Etienne. Quando ho potuto venire alla Juventus, per onestà ho chiamato l’Inter, dicendo che ero sul punto di firmare: «Ho dato la mia parola quattro anni fa a voi, se mi volete sono sempre disposto». Mi hanno detto che avevano già preso due giocatori e che, dunque, ero libero di fare quello che volevo».

Ma le leggende sono dure a morire, e Hansi si ritrova strangolato tra il ruolo di seconda scelta dopo Platini, quello di doppione di Beccalossi in campo e quel ginocchio che non ne vuole sapere di tornare a posto. Visto che in campo non va benissimo, Müller si gode quello che può offrire una Milano sempre più alla moda. «Gli è sempre piaciuto conoscere i posti giusti da frequentare. Non parliamo tanto di discoteche, quanto di locali dove mangiare bene. Trovava il posticino selezionato dove gustare piatti ricercati. Anche quando eravamo in trasferta, spesso ci si fermava in ristoranti buonissimi che aveva scovato lui non si sa come.

Nell’armadietto di Hansi c’era una sfilza di creme, pomate, balsami. Prima di entrare in campo non mancava mai di spruzzarsi dell’acqua di colonia», ha svelato Beccalossi, non senza un leggero gusto sadico. Sfila per Giorgio Armani, incide con l’orchestra spettacolo Raoul Casadei l’ipnotica “Calcio di rigore”, che qui potete ascoltare in tutto il suo gusto anni ’80.

È dalla copertina del vinile che si spiega il “Hmmm, ma che bel portiere” con cui Hansi ci delizia intorno a 1’01” della canzone.

La stagione dell’Inter non è esaltante e si tinge di mistero il 27 marzo, quando sbanca il campo del Genoa con una rete di Bagni a 5’ dalla fine. Al Grifone servono punti per la lotta salvezza, ai nerazzurri per difendere la zona Uefa. L’ex Perugia esulta da solo, a fine gara succede il putiferio. «I dirigenti dell’Inter devono sapere che merde sono i loro giocatori sul piano umano», tuona Giorgio Vitali, d.s. del Genoa. Claudio Pea e Paolo Ziliani, giornalisti de Il Giorno, indagano e scoprono un flusso anomalo di giocate clandestine sul pareggio tra Genoa e Inter.

A confermare tutto, secondo l’accusa, una confessione di Juary, ormai corpo estraneo nello spogliatoio interista. La vicenda scivolerà poi via nei meandri della giustizia sportiva, ma è una foto significativa delle problematiche nerazzurre, che esplodono ulteriormente nel match della giornata successiva. L’Inter batte 2-0 l’Avellino, ancora con doppietta di Bagni. Sul risultato di 1-0, Müller ignora Altobelli per calciare a rete, venendo murato da Tacconi. “Spillo”, in corsa per la classifica cannonieri, si avvicina e gli rifila una sberla, provocando l’ira di San Siro. Hansi fa spallucce a fine gara: «Abbiamo chiarito tutto, capisco il nervosismo di Spillo. Sono il primo a volere che Altobelli vinca la classifica cannonieri. Se dovessi avere una palla sulla linea di porta gliela passerei, perché a questo punto dobbiamo tutti collaborare per fargli vincere il titolo di goleador».

Non lo vincerà, trovando il gol soltanto all’ultima di campionato con il Catanzaro, scavalcato dalla doppietta di Platini e agguantato addirittura da Penzo. Hansi resta un altro anno, con un nuovo tecnico. Gigi Radice prova a reinventarlo ala destra per cancellare il dualismo con Beccalossi. «Era difficile trovare una soluzione per la squadra – ha rivelato il tedesco a distanza di anni – e in quel periodo ci provò entrambi esterni, ma non era una posizione ideale per nessuno. Abbiamo dato il massimo, però, e posso dire che non ho mai avuto nulla contro di lui». Lo stesso non si può dire di Beck, che gli disegnò addosso un ritratto così brutale da essere passato alla storia. «Giocare con Hansi è peggio che giocare con una sedia. Almeno la sedia ti rimanda indietro il pallone».

Kalle, il carroarmato

L’estate del 1984 è all’insegna delle novità. Il calcio italiano, dopo la riapertura delle frontiere, ha optato per un nuovo veto: il 29 gennaio si è deciso che sarà l’ultimo mercato buono per far arrivare stranieri in Italia, prima dell’entrata in vigore di un veto triennale, con le neopromosse come unica eccezione. È il frutto di una guerra durata mesi tra Sordillo e Matarrese, i grandi club si lanciano in una ricerca affannata del talento per cinque mesi. Boniperti va su tutte le furie: «Non sono per nulla soddisfatto, almeno avrebbero potuto concederci il terzo straniero subito». Il Napoli porta a termine il clamoroso affare Maradona, la Fiorentina porta in Italia Socrates, la Sampdoria sceglie Souness, il Milan riparte da Wilkins e Hateley, il Torino punta sulla classe innata di Junior.

Una ventina di giorni prima dell’ok alla riforma, l’Inter cambia padrone. Il nuovo proprietario è il volto sorridente di Ernesto Pellegrini, l’emblema del self-made man. Cresciuto tra gli orti di Taliedo, dopo essersi diplomato in ragioneria al Verri di Milano entra alla Bianchi come contabile. «Avevo vent’anni, una bici scassata e guadagnavo 55 mila lire al mese». Ottiene in fretta l’incarico di capocontabile ma gli va stretto. Va dal suo responsabile: «Io non voglio più soldi ma più lavoro. Vede? Sono a metà turno e ho già finito». La sua è un’ascesa incredibile, nata dalla gestione della mensa della Bianchi. E così, il figlio di due ortolani, inizia a vedere come un ricordo la sua adolescenza umile. Intuisce che nell’ambito della ristorazione all’interno di uffici e fabbriche ha margine per creare un impero. Nel 1965 fonda l’Organizzazione Mense Pellegrini, dieci anni più tardi la Pellegrini Spa. Nel 1979 si lancia nel mercato arabo e nordafricano con la Pellegrini Catering Overseas, nel 1982 tocca al Gruppo Pellegrini. Gestisce l’albergo di Villar Perosa, che ospita in ritiro la Juve dell’Avvocato. Quando l’Ernesto mette le mani sull’Inter, Agnelli commenta con Boniperti: «Hai visto Giampiero, il nostro cuoco ha comprato l’Inter». Intervistato da Gianni Brera, preannuncia il cambio di rotta. «Parliamoci chiaro: negli ultimi tempi, l’immagine dell’Inter era un tantino scaduta. Adesso vorrei rafforzarla attraverso uno stile che possa lasciare un segno».

Il quarto posto dell’anno precedente non basta a confermare Gigi Radice, alla guida dei nerazzurri arriva Ilario Castagner. Cambiano, ovviamente, gli stranieri. Müller si sposta di poco, trovando casa a Como. Al suo posto arriva un altro mancino, Liam Brady, che non trova l’ostacolo Beccalossi, finito alla Sampdoria. E in attacco, Pellegrini apre i cordoni della borsa per acquistare Kalle. È alle soglie dei 30 anni ma trasuda potenza da tutti i pori. «Non è costato tanto, e poi ci sono i ritorni. È un grosso affare. Boniperti è un amico ma ho intenzione di battermi contro la Juve come contro tutti gli altri. Non sono il cuoco di nessuno, è un lavoro, e non debbo niente a nessuno. Forse alla mia famiglia, che ho troppo sacrificato in questi anni. Ma sudditanza, suggestione, satellite? Niente. Vedrà chi è il Pellegrini», ringhia il patron a Oliviero Beha, in un’intervista senza esclusione di colpi, un miraggio per i giorni nostri.

Il Rummenigge visto a Euro ’84 non ha entusiasmato i critici. Dal ritiro di Bressanone, lancia la sfida a Platini, re della rassegna continentale. «So di aver giocato male in Francia, come del resto tutta la squadra, ma non amo voltarmi indietro. Il presidente Pellegrini non mi ha chiesto subito lo Scudetto anche se abbiamo i mezzi per puntare molto in alto. In Germania sono stato tre volte capocannoniere, mi piacerebbe fare poker, con l’aiuto dei compagni, segnando dai 15 ai 20 gol. Platini è stato il migliore agli Europei ma è stato anche fortunato». Ha un fisico di granito, le sue cosce cullano i sogni dei tifosi interisti diversi anni prima dell’approdo di Alba Parietti sullo sgabello di Galagoal. Il suo sarà un triennio di alti folgoranti e bassi deprimenti.

Nei momenti di grande condizione fisica, le doti in acrobazia di Rummenigge sembrano fuori dal tempo. Secondo alcuni, il suo gol più bello in maglia nerazzurra è quello annullato in Inter-Glasgow Rangers (da 0.35). La rapidità con cui raccoglie il corpo e prepara la girata volante stona con il calcio compassato di metà anni ’80.

La prima stagione è opaca, otto gol, tanti infortuni. Va meglio nelle coppe, con dieci reti complessive tra Coppa Italia e Coppa Uefa. Il cammino europeo è entusiasmante, l’Inter elimina l’Amburgo agli ottavi e il Colonia ai quarti. Kalle è protagonista in entrambi i match, il sorteggio per la semifinale non è dei migliori. Mentre da un lato prende forma l’improbabile semifinale Videoton-Zeljeznicar, con gli ungheresi capaci di eliminare il Manchester United, l’Inter pesca il Real Madrid. E sogna, almeno per una notte. A San Siro finisce 2-0, segnano Brady e Altobelli. La stellina è il giovane Enrico Cucchi, un ragazzino che Rummenigge ha scelto come suo protetto dall’arrivo in Italia.

Secondo gli addetti ai lavori, è stato Kalle a spingere per lanciarlo titolare al posto di Sabato. «Il tedesco – scrive Giorgio Gandolfi su La Stampa – avvertiva che Sabato non dava la giusta lucidità al centrocampo e ha intuito prima ancora di Castagner le doti di Cucchi, un ragazzino che percepisce 25 milioni lordi all’anno dall’Inter, non essendo ancora professionista». L’Inter sente la finale in tasca, eppure nei minuti finali del match d’andata è successo qualcosa. Juanito, uno dei pilastri del Real Madrid, ha messo in guardia i giocatori nerazzurri: «Noventa minuti en el Bernabéu son molto longos». Al Bernabeu va in scena il monologo madridista: Santillana (doppietta) e Michel ribaltano il discorso e il Real va in finale con il Videoton. A nulla serve il ricorso per la biglia che ha colpito al capo Bergomi. Rummenigge si presenta tirato a lucido per la stagione successiva, promette lo scudetto e chiude il campionato con tredici gol, sfornando alcune prestazioni scintillanti.

Franco Zuccalà ci regala un servizio di oltre quattro minuti aperto dal primo piano di una pompa di benzina. A 2.41 l’azione che porta all’acrobazia di Rummenigge, stavolta convalidata. È una delle migliori gare del tedesco, con un assist e un rigore procurato.

Lo Scudetto non arriva e la terza stagione di Rummenigge in nerazzurro, la prima agli ordini di Giovanni Trapattoni è malinconica. Tre gol in quattordici presenze, ma nel cuore dei tifosi è sempre Kalle, l’uomo bionico. Eppure i tendini non gli danno tregua, il Trap conta su di lui per lo sprint di fine stagione ma Rummenigge deve alzare bandiera bianca. «Non voglio andare in squadre impegnate nella retrocessione, non voglio fare la fine del mio amico Brady. Pellegrini non sa ancora cosa fare di me e Passarella, non mi resta che sperare. Non posso fare altro, non posso mettere fretta a nessuno. Una cosa è sicura: in Germania non ci torno». È di parola, perché finisce al Servette. «All’Inter ho trascorso due anni belli, il terzo purtroppo è stato da dimenticare. Pago per tutti, e questo è il ruolo scomodo, l’altra faccia della medaglia, che voi italiani offrite a noi stranieri. Sul mio conto se ne sono dette di tutti i colori, tutto falso. Non ho ricevuto offerte dal Cesena, né dal Como, né dal Pescara. E non le avrei accettate. Ho tredici anni di grande calcio alle spalle, in provincia non ci andrei mai. Non è superbia, è semplicemente un modo di pensare».

Andy e Lothar, per lo Scudetto dei record

Le frontiere si riaprono alla vigilia della stagione 1987-88 e la scommessa interista naufraga miseramente: Vincenzo Scifo, talentino belga, non si dimostra all’altezza dei vertici della Serie A. Per l’annata successiva, la terza alla guida dell’Inter, Trapattoni chiede i fuochi di artificio, anche perché c’è da sostituire Spillo Altobelli, passato alla Juventus. La scelta, già in primavera, è caduta su Rabah Madjer, il tacco di Allah.

Il suo gol nella finale di Coppa dei Campioni contro il Bayern Monaco ha stregato tutti, eppure al Valencia non è andata bene. Gli spettri di Müller e Rummenigge turbano i pensieri di Pellegrini, che non si fida dello strappo al retto femorale che ha costretto ai box per diversi mesi l’algerino. Le visite mediche mandano a monte l’affare, l’Inter recupera cinque miliardi. La suggestione Lineker dura poco, il nuovo centravanti nerazzurro è Ramon Diaz. La Serie A ha dato l’ok al terzo straniero, e Pellegrini si aggiudica due tedeschi in un colpo solo. Dal Bayern Monaco, per circa 8 miliardi di lire, arrivano Andreas Brehme e Lothar Matthäus.

Andy ha segnato all’Italia durante l’Europeo, nella partita passata alla storia per l’esultanza di Roberto Mancini contro la tribuna stampa, entusiasmando Beppe Bergomi, suo futuro compagno di squadra: «Mi pare un giocatore assai utile e incisivo, anche quando riesce ad andare al traversone. Lothar non è un regista, gli piace molto tenere la palla, inserirsi e tentare la soluzione personale. Si tratta di due ottimi acquisti, su questo non sussistono dubbi». Riccardo Ferri si associa ai complimenti: «Mi ha sorpreso in positivo a validità tecnica di Brehme, è un cursore di fascia che viene impiegato dietro, ha quantità e un grosso carattere». Eppure, secondo alcuni, il vero obiettivo nerazzurro era Matthäus: l’arrivo di Brehme andrebbe interpretato come una tassa da pagare al Bayern Monaco per arrivare all’altra stella. Niente di più falso.

Il ritiro di Varese non è il massimo per Matthäus: «C’è un clima tremendo, lavorare nello stadio di Masnago è una tortura. Negli occhi ho ancora la folla festosa che ci ha accolti al raduno di Milano, non avevo mai visto una cosa del genere. Mi ha emozionato e fatto venire la pelle d’oca, non posso fare altro che promettere il massimo impegno per portare l’Inter a ridosso di Milan e Napoli, anche se sono convinto che possiamo lottare per lo scudetto». Il doppio acquisto tedesco viene visto come una sorta di reazione al Milan degli olandesi, fresco campione d’Italia con Gullit e van Basten e ora pronto a mettere nel motore anche Rijkaard. Gullit, sempre pronto a stuzzicare gli avversari, si presenta sugli spalti per un’amichevole contro il Varese e lancia giudizi diretti sui cugini: «Si tratta della stessa squadra dello scorso anno, con gli stessi schemi. I tedeschi sono più agguerriti e determinati dei loro predecessori e questo renderà più interessante la nostra sfida. La vittoria mi permetterà di sfottere con maggior piacere alcuni interisti ai quali già l’anno scorso ho combinato parecchi scherzi». È una stoccata che alimenta l’ambizione nerazzurra, annacquata da un precampionato con più ombre che luci e da un inizio disastroso in Coppa Italia.

Con l’arrivo del campionato, la musica cambia. Dopo il successo di Ascoli all’esordio, i due tedeschi vanno entrambi a segno nella prima casalinga con il Pisa. Andy risponde a Bernazzani con un bellissimo destro al volo da fuori area, Lothar fissa il 4-1. «Grazie a Dio, Milano è tornata capitale del calcio. L’Inter è forte perché ha 16 titolari e ognuno può dare il suo contributo. Siamo soltanto all’inizio ma è già evidente chi lotterà per il titolo: Milan, Inter, Sampdoria, Juventus», afferma convinto Matthäus dopo sole due giornate.

L’Inter di inizio campionato travolge gli avversari come se nulla fosse e vola anche in Coppa Uefa, sbancando proprio Monaco di Baviera con un clamoroso 0-2 nell’andata degli ottavi di finale, trascinata da uno scintillante Nicola Berti. Nel match di ritorno, Brehme si fa male e i nerazzurri, momentaneamente in dieci, subiscono la rete dello 0-1. Nel giro di sette minuti, la qualificazione viene gettata al vento. Trapattoni finisce sul banco degli imputati per aver rinunciato a Ramon Diaz, preferendogli il giovane Morello a gara in corso dopo aver già speso il primo cambio per inserire Rocco al posto di Brehme.

Il Trap fa spallucce: «Ho sbagliato, potevo utilizzare prima Morello». Dopo una notte di Sant’Ambrogio così fosca, il calendario obbliga i nerazzurri a un doppio scontro di fuoco: prima il derby, poi la Juve. Non c’è Brehme, ai box fino all’anno nuovo. Tocca a Matthäus riportare la calma, tornando sull’inatteso scivolone. «Psicologicamente eravamo condizionati dal risultato di Monaco. Ho parlato con Rummenigge, dice che gioco troppo indietro. Lo so anch’io che gioco meglio più avanti, ma fin qui l’Inter ha vinto con Matthäus arretrato».

Lothar può giocare ovunque, e la sua personalità in campo è debordante. Nella finale del Mondiale 1986, Beckenbauer gli assegnò il compito più ingrato: francobollare Maradona. «Quella volta sbagliammo ad avere troppo rispetto di Diego. Beckenbauer mi disse di occuparmi solo di lui, lo stesso ct riconobbe che si trattò di un errore, anche perché non potevo essere in due posti contemporaneamente. Quando andammo sotto di due gol, mi spostai in avanti e riuscimmo a pareggiare. Poi però Diego indovinò uno splendido corridoio per Burruchaga».

Proprio Maradona aveva cercato di portare il tedesco in Italia, ovviamente al Napoli: «Era il 1987, Diego spedì tre-quattro persone a casa mia, a Monaco. Questi signori mi portarono una valigetta piena di denaro, un milione di marchi, perché io firmassi con il Napoli. Non erano i soldi dello stipendio, ma una specie di premio perché accettassi il trasferimento. Ci sarebbero voluti molti anni affinché io potessi guadagnare quella cifra in Germania, eppure riuscii a dire di no». E ora che è all’Inter, vuole portarla verso il tricolore. I nerazzurri escono indenni dal duo Milan-Juventus, vincendo il derby e pareggiando con la Vecchia Signora, in entrambi i casi con gol di Serena. La prima sconfitta arriva all’ultima del girone d’andata, un rocambolesco 4-3 deciso da una doppietta in extremis di Borgonovo. Bergomi e compagni ripartono infilando una serie di otto vittorie consecutive e mettendo le mani sullo scudetto.

«L’Inter fa mambassa con i suoi fieri lanzichenecchi, interpreti di un calcio potente e senza fronzoli», dice Giampiero Galeazzi commentando lo 0-3 dell’Olimpico. Matthäus apre le marcature raccogliendo uno splendido filtrante di Ramon Diaz.

Basterebbe amministrare, ma l’Inter è un rullo compressore. Pareggia con Milan e Juve, batte il Lecce e asfalta il Bologna di Maifredi a domicilio. Il 28 maggio a San Siro è di scena il Napoli, aggrappato a una sola speranza per riaprire il discorso scudetto: deve vincere. Careca gioca una partita sensazionale, il gol con cui porta avanti gli azzurri è un gioiello. Nella ripresa riemerge la banda del Trap, aiutata da una deviazione di Fusi su un tiro di Berti. Quindi, a 7’ dalla fine, Matthäus. Punizione dal limite, posizione centrale. Il tedesco opta per la potenza, il suo missile è radente al suolo e fulmina Giuliani.

Nel momento dell’euforia, Lothar mischia italiano e inglese, pur di farsi capire. «Sono happy, happy! Questo scudetto vale più dei tre che ho conquistato con il Bayern Monaco». Per raggiungere l’obiettivo, ha saputo sacrificare la sua attitudine offensiva, eseguendo gli ordini del Trap. Il tecnico cede all’irresistibile tentazione di utilizzare la parola panzer: «Pensavamo a un campionato di transizione e invece eccoci qua con questa squadra da record. Cosa è successo? Semplicemente questo: due tedeschi autentici panzer, capaci di trascinare i compagni con la loro esperienza e la loro personalità. Andy e Lothar sono stati eccezionali, soprattutto nei momenti difficili quando i loro compagni avevano la faccia smorta. Loro sorridevano e dicevano: “Siamo più forti di tutti, basta crederci”». L’Inter chiude con 58 punti, una cifra stratosferica: 26 vittorie in 34 partite, soltanto 19 gol subiti. Sembra l’inizio di un grande ciclo, e per rilanciare in vista delle stagioni successive arriva un altro tedesco, il quinto del decennio. Ne fa le spese Ramon Diaz.

Jürgen, il figlio del panettiere

Già dal mese di gennaio, l’Inter ha in mano Jürgen Klinsmann. Un anno prima doveva andare alla Juventus come sostituto di Laudrup, poi non se ne fece più nulla. La Vecchia Signora ci riprova in primavera, il centravanti dello Stoccarda piace molto a Zoff ma il club tedesco mantiene la parola e lascia che sia l’Inter a far valere l’accordo. Papà Siegfried lo avrebbe voluto fornaio, ma Jürgen, che pure apprezza il mestiere, preferisce il pallone.

Nel 1974, quando entra nelle giovanili dell’SC Geislinger, riceve dal padre un quaderno in cui annotare tutti i suoi successi. C’è una dedica: «Essere un atleta di livello olimpico vuol dire rimanere onesti nella sfida, umili nella vittoria, non invidiosi nella sconfitta e chiari nelle convinzioni». Un gesto che tocca particolarmente Jürgen: «Ho ancora oggi quel libro. Me lo diede perché pensò: “Se l’unica cosa di cui parla tutto il giorno è segnare gol, forse vorrà tenere il conto”. Scrivevo ogni volta che andavo a segno, mi faceva bene tornare a casa e annotare i miei progressi».

La vita di un fornaio ha orari devastanti. Come tanti altri, Siegfried si alza alle tre del mattino per mettersi davanti al forno, aprire il suo negozio alle 6.30 e lavorare fino a sedici ore al giorno. E non vuole che il figlio insegua il sogno del calcio senza prepararsi a un futuro più umile. «Un giorno mi prese da parte e mi disse: “Lavora con me e prendi il tuo diploma da panettiere, almeno avrai qualcosa su cui contare se qualcosa dovesse andare male con il calcio”. Devo tutto alla mia famiglia, papà era un atleta, un ginnasta e un ciclista entusiasta. Da lui ho preso la passione per lo sport. Per lui era sempre una sfida venire a vedermi il sabato pomeriggio, che in Germania è il giorno più produttivo per un fornaio. Lavorava di notte e combatteva la stanchezza per esserci». Klinsmann conosce il valore della fatica e in campo è uno di quegli attaccanti pronti a dare tutto. Arriva allo Stoccarda nel 1984 e nell’ultimo anno, dopo essere stato già annunciato come nuovo centravanti dell’Inter, gioca la finale di Coppa Uefa contro il Napoli. Jürgen salta l’andata (2-1 per gli azzurri) e si prepara in vista del ritorno. «Ho sofferto a non giocare al San Paolo, ci tenevo moltissimo ma la squalifica mi ha appiedato. Sono sicuro che ce la faremo, anche se il genio di Maradona e l’organizzazione dei partenopei non vanno sottovalutati». È proprio lui a rispondere al vantaggio di Alemao con una bella incornata, ma lo Stoccarda deve arrendersi all’intuizione di Maradona, che di testa inventa l’assist per la rasoiata di Ferrara. Il gol del difensore vale mezzo trofeo, l’altra metà la confezionano ancora Diego e Careca, con un delizioso scavetto per l’1-3 (la partita finirà poi 3-3).

Dopo la gara è tempo di polemiche. L’annuncio dello Stoccarda, dato poche ore prima della partita, manda su tutte le furie Pellegrini e Trapattoni. «I patti erano chiari» replicano i tedeschi «perché avevamo un accordo di silenzio assoluto fino al 30 aprile. Se non ci fossero stati intoppi, avremmo dato l’annuncio ufficiale. E così abbiamo fatto». Per Klinsmann è l’inizio di una nuova vita. «Arrivo nel campionato in cui lo spettacolo è di casa, non temo di avere sbagliato accettando questo trasferimento. A venticinque anni credo di avere la maturità tecnica e la condizione fisica per diventare un protagonista».

Fa un giro al Processo del Lunedì, ma non gradisce più di tanto lo show di Biscardi: «Troppe domande stupide e inutili. Solo per correttezza non ho abbandonato lo studio». Già dai primi test, Trapattoni cerca di allontanare i paragoni con Ramon Diaz. «Lo ha rilevato nel migliore dei modi, e sta giocando in una squadra che deve ritrovare la forma. Gli altri già li conosco e sono certo che si riprenderanno presto, lui è la vera nota lieta». Un suo gol evita ai compagni la figuraccia di un supplementare al primo turno di Coppa Italia contro lo Spezia. «Questa stagione sarà decisiva per me, voglio ottenere un grosso successo con l’Inter, in particolare il campionato, che considero più importante delle coppe europee». Le big vanno a blocchi: al Milan degli olandesi e all’Inter dei tedeschi si affianca la Juventus dei sovietici. «Sono queste due squadre le concorrenti più temibili per il titolo. Quando sono giunto in Italia pensavo di fare più fatica a trovare l’amalgama con gli altri, invece, grazie all’amicizia dimostratami da tutti e in particolare da Andy e Lothar, ho potuto esaltare subito le mie qualità di attaccante abituato a fare gol e a manovrare».

Foto Bongarts / Getty Images.

L’avventura in Coppa dei Campioni dura un battito di ciglia, con l’Inter eliminata dal Malmö. In campionato, Klinsmann e Matthäus sono i due migliori marcatori della squadra: 13 gol per il centravanti, ben 11 per il centrocampista, liberato da compiti di copertura. Ma la squadra non va oltre il terzo posto, e la stagione che porta a Italia ’90 non può certo dirsi positiva: tra olandesi, tedeschi e russi, il titolo va al Napoli dei sudamericani Alemao, Careca e Maradona.

Il Mondiale ravviva i tre tedeschi dell’Inter. La Germania vola fino all’ultimo atto, il remake di Messico 1986 contro l’Argentina, ed è Brehme a risolvere una delle finali più noiose della storia, trasformando un generoso calcio di rigore con un destro indirizzato nell’angolino basso, vanificando il tentativo di parata di un ispiratissimo Goycoechea. Sull’onda di Italia ’90, l’Inter si presenta agguerrita alla nuova stagione. Pizzi, Paganini, Battistini e Fontolan sono i volti nuovi, col Trap che lascia andare Matteoli al Cagliari. I fronti da seguire sono due: il campionato, in una lotta testa a testa con la Sampdoria, e la Coppa Uefa.

L’avvio europeo è da dimenticare: sconfitta con il Rapid Vienna, in una notte maledetta per i tedeschi, con l’infortunio di Matthäus e un rigore sbagliato da Brehme. Nel match di ritorno li riscatta Klinsmann, autore del gol qualificazione durante i supplementari. Diventa la coppa delle rimonte. Nel turno successivo, l’Aston Villa ipoteca il passaggio del turno con un netto 2-0. A San Siro, la squadra di Trapattoni confeziona la serata perfetta. Segna ancora Klinsmann dopo soli sei minuti, con una conclusione fuori equilibrio sull’uscita del portiere che la dice lunga sulle sue qualità di coordinazione.

A perfezionare l’impresa ci pensano due delle anime italiane di quell’Inter, Berti e Bianchi, in una partita che è rimasta indelebile nella memoria del tifo nerazzurro. Matthäus è il grande protagonista dei successi con Partizan e Atalanta, in semifinale tocca allo Sporting Lisbona. Dopo lo 0-0 in Portogallo, il ritorno cade tra le due gare di campionato che ufficializzano l’addio allo scudetto: il pari a reti bianche di Firenze e il ko interno nello scontro diretto con la Sampdoria. Per l’Inter è un momento particolare, con il Trap che ha già ufficializzato il suo addio. Zenga e i tedeschi trascinano i nerazzurri alla finale tutta italiana con la Roma.

Matthäus e Klinsmann firmano i due gol decisivi nel primo tempo. Quello di Jürgen è un tap-in scomposto, il centravanti rischia il clamoroso errore ed esulta sotto traccia. «Le cose che sembrano facili sono per me difficili».

L’Inter non vince un trofeo europeo dal 1965, l’attesa è spasmodica. I due marcatori del Meazza sono Matthäus e Berti, anche se è Klinsmann a creare la seconda rete con una splendida azione personale. «La panzer-division ipoteca la Coppa», scrive La Stampa a margine di quello che ha il sapore di un derby teutonico, con Berthold e Völler dall’altra parte. Trapattoni, al passo d’addio, prepara la partita dell’Olimpico per difendere il doppio vantaggio. In un Olimpico strapieno, la spinta del pubblico romanista non basta a ribaltare il discorso: Rizzitelli lascia sul campo tutto quello che ha, segna il gol dell’1-0 a 9’ dalla fine. Troppo tardi. L’attaccante giallorosso penserà per anni al palo colpito in avvio di gara, abbinandolo al legno colpito cinque mesi più tardi con la maglia azzurra, nella sfida decisiva per andare a Euro 1992 contro l’Unione Sovietica, ultimo atto della gestione Vicini.

È la prima Coppa Uefa della storia dell’Inter, ma Pellegrini vuole qualcosa di diverso. Il calcio italiano si è fatto stregare dalla zona, il patron ci prova con Eriksson, poi sceglie Corrado Orrico. Klinsmann è uscito consumato come una candela dal periodo agli ordini del Trap. «Volevo smettere. Sono un giocatore e un professionista, il mio lavoro lo svolgo fino in fondo senza risparmiarmi, ma al di fuori del lavoro voglio i miei spazi, le mie libertà. Con il nuovo allenatore sono più tranquillo, mi ha capito e ho deciso di continuare. Prendiamo i ritiri: per me sono insopportabili. Quest'anno Orrico ha interrotto di sua iniziativa il ritiro pre-campionato. E al sabato ci si trova al pomeriggio, c'è l'allenamento, si dorme e si gioca. Finora invece, dovevamo romperci le scatole fin dal sabato mattina. E alla sera ti vedevi capitare in camera l'allenatore che controllava se c'eri davvero».

Ma Jürgen non segna più. Il primo gol in campionato arriva a dicembre, 1-1 contro il Milan. Poi il gol decisivo con il Bari, in mezzo a un San Siro in piena contestazione. A Cremona è la nebbia a fermare il match, e Orrico perde anche l’appoggio di Klinsmann, ultimo tedesco rimasto sulla barca dopo gli screzi con Brehme e Matthäus. Rassegna le dimissioni, Pellegrini le respinge ma è questione di giorni. L’Inter perde a Bergamo, Ferri e Zenga cercano di convincere il tecnico a restare ma non ci riescono. Orrico trova un alleato imprevisto in Gianni Brera, che pure ne critica duramente i concetti di gioco: «La stranezza di assumere uno zonagro va considerata sesquipedale, e spassosa rimane, inoltre, l’idea di ripetere Berlusconi e di migliorare il tentativo di Agnelli con Maifredi. Ma a Orrico non bisogna dir nulla. Con quei guaglioni erano possibili risultati meno rovinosi solo se non mandava all’aria l’unico reparto valido, la difesa. Il livello tecnico e l’impegno di quasi tutti erano molto scarsi: quale che fosse il modulo, la fine sarebbe stata purtroppo identica. Per rifare l’Inter ci vorranno 80 miliardi. Auguri».

Il decennio tedesco dell’Inter, aperto da Hansi Müller, termina così, in modo triste. Brehme va al Saragozza, Matthäus torna al Bayern Monaco e si ricicla libero per allungare la carriera, Klinsmann ha ancora tanto da dare. Monaco, Tottenham, Bayern, Sampdoria, di nuovo Tottenham. Smette dopo il Mondiale 1998, salvo poi riapparire nel 2003, come giocatore dell’Orange County Blue Star, squadra del quarto livello della struttura calcistica statunitense. Non lo riconoscono subito, perché si presenta come Jay Goppingen. «Mi interessava soltanto rimanere in forma, divertirmi e far parte di un gruppo che amava il calcio». Dei tre tedeschi dell’epoca d’oro dell’Inter, Klinsmann è quello più legato all’Italia: «Mi ricordo tutto del mio periodo milanese e sono solo cose belle. Da voi ho imparato che la vita è soprattutto un fatto di incontri e legami: sono stato travolto dal modo in cui le persone mi trattavano nei miei anni all’Inter. Quando provavo a parlare italiano, mi tiravano fuori una parola di bocca e costruivano un’intera frase per me. Avevano una pazienza incredibile. Ho imparato a prendere le persone come sono, in tre anni quello che ho imparato è rimasto dentro di me e da quel momento sono stato capace di andare ovunque. Una specie di università della vita».

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