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Continuo ancora, intervista ad Assunta Legnante
30 ago 2024
30 ago 2024
L'atleta paralimpica di getto del peso è pronta per un'altra Olimpiade.
(copertina)
IMAGO / ZUMA Press Wire
(copertina) IMAGO / ZUMA Press Wire
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Dal 2009, per via di un glaucoma, Assunta Legnante non vede più, ma questo non le ha impedito nel tempo di trovare il positivo in questo evento drammatico. Oggi la atleta campana di getto del peso è un vulcano di emozioni, parole difficile da contenere, tanto da non aver mai accettato di rinunciare al suo sport.

Legnante non era disposta a perdere una parte di sé, dopo aver già rinunciato alla carriera pallavolistica, agli studi di Scienze Motorie, fino alle Olimpiadi di Atene 2004. Quella era la sua prima vita, diremmo: da normodotata, «un termine che non mi piace», come mi dirà a fine intervista «ma va usato, che dobbiamo farci?». Ho provato con lei a ricostruire la sua storia.

Hai iniziato con il volley, cosa hai provato quando sei stata costretta a smettere?

Era amore. Un amore nato grazie ai cartoni animati, mi allenavo come Mimì Aiwara, da sola con il muro, come lei… poi ci sono stati Mila & Shiro. Da piccola, era un sogno, volevo giocare: era un centrale atipico che poteva fare pure l'opposto. È stata una bella esperienza: alla fine è andata bene, stile sliding doors: si è chiusa una porta, si è aperto un portone e lo sport ha cominciato a far parte della mia vita.

Come è stato il primo impatto con l'atletica e poi con il getto del peso?

Non buono, non mi piaceva, mi piacevano tutte le altre specialità dell'atletica. Facevo un po' tutto, il salto in alto, la corsa, la velocità soprattutto. Poi, c’era il getto del peso: alle comunali arrivavo seconda e già quello mi dava fastidio. Ai tempi, con i Giochi della Gioventù c’era la fase comunale, provinciale, regionale e se vincevi queste fasi, andavi alle nazionali. Mi ricordo che chiedevo come potessi battere le altre e mi spiegavano la tecnica, per me era una cosa nuova. Alla fine ho trovato una squadra, un allenatore a Frattamaggiore, dove vivevo. Non mi allenavo in una vera pedana di peso, perché la più vicina era a più di 25 chilometri, quindi andavo una volta ogni due settimane a Villa Literno. Di solito mi allenavo per strada, dietro il cimitero di Frattamaggiore, sul cemento normale.

Per allenarsi per strada però qualcosa deve essere scattato…

Sì, iniziavano ad arrivare i primi risultati a livello nazionale. Tutti cominciavano a dire che ero una promessa dell'atletica, del getto del peso. In realtà c’è voluta una batosta per far sì che diventasse la mia aspirazione più grande e un sogno olimpico. Ho preso il diploma da ragionere e avevo un altro sogno che purtroppo non si è mai avverato. Volevo iscrivermi all'ISEF, adesso Scienze Motorie. A Napoli mi avevano scartato per il mio problema agli occhi, all’epoca si facevano le visite mediche. Sul treno, di ritorno verso casa, ho chiamato la Federazione chiedendo se mi trovassero un allenatore. Volevo andare via e diventare una atleta a tutti gli effetti. Mi hanno trovato un coach ad Ascoli Piceno, era il tecnico dei lanci in quel periodo della Nazionale e da lì è nato tutto. Adesso vivo da 24 anni nelle Marche. È diventato il mio lavoro anche nel periodo più buio, quando sono diventata non vedente.

A proposito: tu hai partecipato a una edizione dei Giochi Olimpici e poi hai fatto le Paralimpiadi. Secondo te ci sono delle differenze?

No, non ci sono, c’è la stessa professionalità e tensione alla gara. Nel villaggio paralimpico, che poi è lo stesso che prima è stato olimpico, forse c'è un'aria un po' più frizzantina, un po' più ridanciana. Ho visto, tra virgolette, cose un po' strane: quattro non vedenti che giocano a calcio balilla e ridono con il sottofondo del rumore della pallina, oppure una squadra straniera di non vedenti che si allena a calcio a cinque, a mezzanotte, al buio… tanto a loro che cambia?! Ci sono queste cose particolari.

Ad Atene i medici non ti diedero l’ok per competere e poi ti sei rifatta a Pechino. Come hai vissuto queste due situazioni?

Nel 2004 male, avevo fatto il record italiano, quasi 19 metri e con quella misura avrei potuto vivere un'Olimpiade stratosferica, sarei potuta arrivare tra le prime cinque. Era l'Olimpiade di Atene, quella dove tutto è nato. Il getto del peso lo facevano nell’impianto dove tutto è cominciato e dove è nato lo sport. Non mi spiegavo come potessi gareggiare per la mia federazione, ma non per l’Italia: avevo già gareggiato per il CONI, vincendo i Giorni del Mediterraneo nel 2001, facendo le stesse visite fatte nel 2004, quando mi hanno detto di no, era una cosa inconcepibile per me. C'è stata una lotta con molte visite mediche che mi hanno portato nel 2008 ad avere il pass per Pechino. Ti lascio immaginare come ci sono arrivata: ho avuto la carta olimpica, due - tre settimane prima. Entrare in quello stadio con la fiamma olimpica era un emozione che covavo dentro e mi ha portato a fare malissimo in gara.

Il vero riscatto è arrivato con le Paralimpiadi, quali sono i ricordi più belli?

Londra è il più bello perché era l'inizio di una nuova vita, ho ricominciato a fare ciò che ho sempre fatto e che mi riusciva bene. Allo stesso tempo anche quello più brutto, perché pochi mesi prima avevo perso mia madre, quella medaglia fu sua, non mia.

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A Rio ho tirato fuori quello non avevo. Nel 2015 e 2016 sono stata abbastanza male, con problemi gravi alla schiena e sono arrivata a Rio con pochissimi allenamenti. In quella gara la mia attuale rivale nel peso, l’atleta uzbeka [Safiya Burkhanova, nda], tirò fuori 15 metri, una misura in quel momento per me proibitiva. Sono arrivata in gara, mi sono messa in pedana: ho spento il dolore, ho acceso il cuore e ho vinto soltanto con quello, con la voglia di voler trionfare in quella Paralimpiade. Tokyo è stato un po' strano: mi sono resa conto dell'impresa che avevo fatto vincendo i due argenti [anche nel lancio del disco, nda] soltanto dopo, perché otto mesi prima mi ero rotta il tendine d’Achille… non mi rendo mai le cose semplici, non mi piace vincere facile. Ho preparato una Paralimpiade in quattro mesi e adesso c’è Parigi. Tra il 2012 e oggi ci sono anche sei Mondiali vinti: un bel curriculum, anche se poi servono a poco.

Come si arriva all’ennesima Paralimpiade?

Non è la mia prima volta e non so nemmeno se sarà l'ultima, sinceramente. Ho ancora molti obiettivi, ma purtroppo anche quest'anno uno di questi non verrà realizzato. Ho il sogno di fare da portabandiera, prima o poi. Il curriculum, come dicevo prima, non serve. Devo sperare di poter esserci a Los Angeles o comunque più in là, ma non so se ce la farò. Sono molto amica di chi è stato scelto [Ambra Sabatini e Luca Mazzone, nda], non è una critica a loro. Mi sarebbe piaciuto che fosse riconosciuta mia storia. Parigi… bello! Quest’anno ci sono stati i Mondiali: non ho gareggiato, è stata una scelta di tutta la federazione, per tutti gli atleti già qualificati, abbiamo lasciato il posto ai giovani o a chi potesse conquistare i pass.

Non dico tu sia favorita, ma comunque hai un percorso che parla per te: quanto fatto da atleta normodotata prima ti ha aiutata?

Sì ma non scende in gara il curriculum, magari l'esperienza, ma non il curriculum. All'inizio sì, i primi anni, dal 2012 al 2014, quando ho fatto grosse misure, come 17 metri, da non vedente che è il record del mondo, ero la più forte in Italia in quel periodo. Ho vissuto un po' di rendita degli allenamenti che avevo fatto in passato. Adesso no, il corpo si è adeguato alla non-visione, l’età avanza: ho 46 anni, sono più vicino ai 50 che ai 40. Mi sveglio ancora al mattino con la voglia di allenarmi, ho sempre il sorriso sul viso, ma il corpo è usurato, le mie povere ossa ne risentono. I risultati non possono essere quelli di anni fa. Se nel 2012-2014 vincevo con 3-4 metri di distacco nel peso, adesso se vinco già di mezzo metro o un metro è tanto.

E quindi quando perdi come reagisci?

Spesso, quando parlo con i ragazzi dico che la cultura della sconfitta va insegnata da piccoli, a scuola e va insegnata dai genitori, perché tanti ragazzi mollano uno sport proprio perché non sanno perdere. Ho un buon rapporto con la sconfitta, non ho sempre vinto, né nel mondo paralimpico né in quello olimpico. Ho perso gare anche in Italia, spesso e volentieri. Me ne ricordo, diventa uno stimolo, so che posso fare meglio. Se mi alleno di più in una certa cosa magari posso colmare quel gap che mi ha fatto perdere quella gara”

Sono diventate iconiche le tue mascherine, a Parigi cosa indosserai?

Le mie mascherine sono state fatte con un progetto con altri atleti che andranno a Parigi nelle dall'Accademia delle Belle Arti di Bologna. Ho sempre fatto fare mascherine che si adeguassero al Paese dove sono stata, spesso le do in dono. Quella di Londra di Diabolik l’ho regalata a Papa Francesco, magari dorme con quella mascherina, ne sono convinta [ride, nda]. Quella dell'Uomo Tigre, il manga più famoso del Giappone, Tiger Mask, l'ho regalata al sindaco di Sendai, la città che ci ha ospitato prima delle Paralimpiadi.

Voi avete una guida in gara, come si trova il giusto feeling?

Sono fortunata perché la mia guida, da un paio d'anni, è il mio allenatore, mi segue tutti i giorni negli allenamenti e quindi il feeling è normale che si crei. Prima avevo un’altra guida, Nadia Checchini che mi ha seguito fino a Tokyo: deve essere un rapporto comunque consolidato nel tempo e soprattutto di fiducia. Quando viene a mancare quello poi è un po' un casino. Mi devo fidare di come mi posiziona in pedana. Il resto lo fai tutto tu, come uscire dalla pedana da sola. Non può toccarti fin quando non sei fuori dalla pedana, altrimenti il lancio viene considerato nullo.

Sarà la tua quarta Paralimpide. Pensi mai al momento in cui volevi smettere di gareggiare dopo la perdita della vista?

Ero tornata a Napoli, a Frattamaggione dai miei genitori e stavamo cercando di risolvere il problema perché non ho perso la vista subito. Ho perso molte diottrie, ero diventata molto ipovedente, portavo ancora gli occhiali, ero miope. A un certo punto la situazione è peggiorata, è caduta la retina un paio di volte, alcuni interventi non sono andati come dovevano. Purtroppo, sono stata costretta ad allontanarmi completamente dallo sport: mi faceva male vivere quel mondo, in quella situazione. Sono sempre stata autonoma fin da giovane, sono partita, sono andata a vivere ad Ascoli e quindi faceva molto male. Per mia fortuna sono stata circondata da persone che, anche a distanza, mi sono state vicine: i miei colleghi, i miei vecchi amici atleti. Hanno tenuto le distanze nel modo giusto, senza opprimermi e senza pietismo soprattutto, perché è stata la cosa migliore. Quando sono tornata li ho ritrovati lì a riabbracciarmi, più contenti di me che fossi tornata a lanciare. Poi, senza una spinta da parte della FISPES [la Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali, nda] e quindi della Federazione Paralimpica e del Comitato Italiano Paralimpico sarebbe stato difficile che io di mia spontanea volontà dicessi: mi metto a lanciare il peso da non vedente. Non conoscevo proprio questo mondo quindi è stato tutto un concatenarsi di eventi da brutti a belli.

Sapevi che prima o poi avresti perso totalmente la vista?

Sono andata incontro al mio destino. Nel 2004, l'oculista mi disse: al massimo puoi andare al circolo a giocare a carte. Ho detto no, voglio fare sport, voglio lanciare il peso, questa è la mia vita. Consapevole di quello che sarebbe potuto essere, come non poteva essere. Tanti hanno il glaucoma e continuano a fare una vita normalissima, con qualche privazione in più. Io non volevo privarmi di nulla: ho vissuto tutto a 360°, quello che dovevo vivere e adesso lo faccio. Sono andata incontro alla cecità senza paura.

Come si arriva a questo grado di accettazione?

Se non l’accetti che fai? Vai a finire in un mondo ancora più oscuro, della depressione, dei pensieri brutti, tanto vale accettare quello che ti è stato dato, anzi quello che ti è stato tolto ma allo stesso tempo a me è stato dato. Mi è stata regalata la possibilità di continuare a fare sport.

In un podcast hai detto che ogni tanto ti scordi di essere cieca, come è possibile?

Faccio sempre l'esempio dei ragazzi amputati che hanno l'arto fantasma e io ho la vista fantasma. Se sono seduta sul divano e magari metto l'acqua sul fuoco per cucinare e mi suona il timer, prendo e parto: non faccio attenzione, scordandomi di quello che ho davanti, travolgo tutto… le mie tibie ne sanno qualcosa perché prendo botte a destra e a manca.

Qual è stata secondo te la forza più grande che hai avuto nel reagire a questa situazione? A parte credo l'ironia…

Quello sicuramente, anzi io stessa dico che sarei voluta diventare cieca prima. In questa difficoltà ho trovato un lato forte, sono molto più forte adesso mentalmente che prima. La forza la trovi da dentro. Devi avere persone accanto, la famiglia, gli amici, che ti fanno forza, però la devi trovare dentro di te. Devi imparare a dare fiducia agli altri. Questa è la cosa più difficile, soprattutto essendo sempre stato autonoma.

A proposito di autonomia, nella vita di tutti i giorni, non hai né un cane guida né un bastone…

No, il bastone non è una cosa che mi attira. Il cane sì, ma al momento viaggio ancora troppo per le gare, perché non mi va di lasciarlo a casa. Ho visto atlete non vedenti che si sono portate il cane in giro per le gare e non mi piace come vengono trattati lì. Preferirei farlo quando smetterò di fare l'atleta e quando potrò stare 365 giorni con il mio cane guida, quello sicuramente. Mi piace affidarmi alle persone, dare un po' di responsabilità a chi mi porta in giro. Vivo da sola dal 2019: dal 2012 al 2018 ho vissuto sempre con qualcuno. Ho avuto un compagno per sei anni, ma alla fine le cose finiscono e trovi il coraggio di fare questa esperienza, di vivere da sola. Ho scoperto che posso fare tantissime cose che prima non mi facevano fare, come semplicemente cucinare. O ancora, andare da casa fino a giù per buttare l'immondizia la mattina. Mi so gestire ed è bellissimo, ho ritrovato l’indipendenza che ho sempre avuto. Poi, è logico, esco di casa e posso arrivare al marciapiede senza bastone ma dopo ho bisogno degli altri.

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Nel 2019 hai vinto il tuo quarto Mondiale e, dopo averlo fatto, ti sei fatta questa dedica: “Perché ho ricominciato ad amarmi”. Che era successo?

Davo molto più agli altri che a me e alle fine sono rimasta, come si dice, a mani vuote. Da quando ho fatto questa scelta di liberarmi del passato, pur ricordandolo, prendendomi cura di me e andando a vivere da sola, ho cominciato ad amarmi di più e ora ancora di più. Sono più libera, più matura di quanto lo ero prima, ed è una bella cosa.

Nella narrazione spesso voi atleti paralimpici siete definiti straordinari: che ne pensi?

Io più che straordinaria agli occhi degli altri vorrei essere nemmeno un esempio, ma uno stimolo. Faccio molti incontri con le scuole. Non sono un esempio, perché non sono la prima disabile non vedente che fa uno sport. Se la mia storia può essere da stimolo per dei ragazzi ben venga. La cosa bella, che comunque è cambiata in questi anni, è che adesso ci considerano degli atleti, non dei disabili, che praticano un'attività extra...

Cosa sono per te i limiti? Che sia un limite fisico, un limite di tempo, un limite di misura?

Di tempo ne vorrei a bizzeffe, ne vorrei di notte per esempio. Non esistono i limiti, li mettiamo noi, li impone la società, soprattutto adesso nel mondo dei social. Faccio un esempio semplicissimo: quando ci vedevo, avevo degli sponsor. Mi mandavano le scarpe, le tute, gli integratori. E cosa valeva lì? Valeva la mia misura, valeva le gare che andavo a fare in giro. Ora, quali sono i limiti per essere considerata da uno sponsor? I follower sui social. Hai pochi follower? Non fai per noi.

A livello paralimpico è difficile trovare degli sponsor?

Se hai molti follower li trovi. Non sono una influencer. Non si trovano proprio, la prima cosa che vanno a vedere è quanti seguaci hai.

Qual è la cosa che ti rende oggi più fiera di te stessa?

Io sono un moto perpetuo, continuo ancora, sono qua. È come la canzone di Vasco Rossi: non vi libererete di me ancora per un po'.

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