Maggio 2018. Carlo Pedersoli Jr è al centro dell’ottagono di UFC, l’organizzazione di arti marziali miste più importante del mondo. Sta aspettando il verdetto dei giudici dopo aver disputato tre round contro l’inglese Bradley Scott, che combatte in UFC dal 2012 e ha un record di 11 vittorie e 5 sconfitte. L’incontro è stata dominato dal fighter italiano, nipote di Bud Spencer, come ormai sanno tutti, perché il passaggio dalle botte cinematografiche del nonno a quelle vere del nipote è un aneddoto troppo affascinante per essere tralasciato in qualsiasi articolo di giornale. Pedersoli Jr è apparso più concreto e preciso in diversi frangenti del match: infatti i giudici lo premiano, assegnandogli la vittoria ai punti. Nonostante l’incontro gli fosse stato proposto con pochissimo preavviso, l’atleta romano ha ottenuto il suo primo successo in UFC, coronando un percorso iniziato tra le organizzazioni italiane, proseguito in Europa, e impreziosito da 7 vittorie consecutive. È un fighter giovane, promettente, che ha firmato da poco un contratto per più match: non solo sembra aver trovato la sua dimensione, ma si direbbe pronto per confrontarsi con i top 15 della sua categoria.
Tre anni e mezzo dopo, a luglio 2021, Carlo Pedersoli Jr invece combatte a Manduria, comune di quasi 30 mila abitanti della provincia di Taranto, in Puglia: un’organizzazione locale gli ha offerto un match contro lo spagnolo Cristian Corujo, fighter poco esperto e con un record negativo (2 successi e 3 sconfitte). Pedersoli Jr ha il triplo degli incontri del suo avversario, sei volte le sue vittorie. L’esito del confronto appare scontato, ma il gancio sinistro che manda KO Corujo al primo round è spettacolare: è un manifesto delle sue capacità, utile a ricordare - soprattutto a sé stesso - le potenzialità di Carlo.
Cosa è successo in questi ultimi anni, cosa ha fermato il percorso di un fighter così sicuro dei propri mezzi da puntare non solo a vincere ma anche a «essere bello da veder combattere»? Come è potuto finire così velocemente dalla cima della piramide alimentare del mondo delle MMA a un evento nazionale, per quanto ben organizzato (in mezzo alle mille difficoltà che ci sono in Italia per chi fa quel mestiere)?
Visualizza questo post su Instagram
Un post condiviso da Carlo “Semento” Pedersoli Jr (@carlopedersolijr)
Le foto non raccontano l’intera storia, ma certo sono significative anche da sole. In questa Carlo Pedersoli Jr sembra guardare negli occhi i fantasmi del suo passato.
Nei tre anni in mezzo che separano l’incontro con Scott da quello con Corujo, Pedersoli Jr ha raccolto due sconfitte in UFC, dopo le quali l’organizzazione lo ha “rilasciato” (liberato dal contratto, cioè), a cui va aggiunta la sconfitta all’esordio in Bellator (un’altra organizzazione internazionale di prima fascia) che gli è costata la rescissione anche di quel contratto - dovuta anche, va detto, alla crisi economica scatenata dalla pandemia. Così Carlo Pedersoli Jr è tornato alle origini, alla ricerca di quel terreno familiare in grado di ridargli la spinta giusta per tornare in vetta.
Questa è la storia di un atleta che a soli 28 anni ha già vissuto il dolce e l’amaro di uno sport affascinante ma spietato, con tutte le ripercussioni del caso sul piano personale e psicologico. Un ragazzo romano che ha saputo far tesoro delle esperienze vissute, utilizzandole per creare le fondamenta di una possibile rinascita. Che, si spera, è cominciata proprio da un KO che ha rotto l’aria calda di serata estiva a Manduria. «Quello che mi piace di più di questa disciplina è che ti mette davanti a tutti i problemi della vita» ha detto Carlo in un’intervista recente.
«Hai le delusioni, la felicità, un cocktail di emozioni quando entri ed esci dalla gabbia. Non c’è niente di più vero, di più reale del combattere».
Durante la tua scalata in UFC tutti i tasselli si incastravano alla perfezione, sembrava uno di quei momenti che pochissimi atleti riescono a vivere.
La promotion mi ha contattato subito dopo la mia settima vittoria consecutiva, avvenuta in un duro match in Cage Warriors, che in Europa è considerata l’anticamera di UFC. A un mese esatto di distanza, con ancora i segni sul volto, entravo nell’ottagono più famoso del mondo per affrontare Scott. In quei trenta giorni tanto intensi, magici e frenetici ho rivoluzionato la mia carriera, era un sogno ad occhi aperti. Ricorderò sempre il 2018 come l’anno che mi ha cambiato la vita.
In che modo si riesce ad attraversare un turbinìo di eventi così importanti mantenendo la testa sulle spalle? Soprattutto se il tuo mestiere è combattere, e anche una singola distrazione può costare cara.
È una questione di mentalità. Sono nato con i piedi per terra, e ci sono sempre rimasto, perché mi hanno educato in un certo modo. Un atleta che non è in grado di gestire l’aspetto emotivo di questo sport ne soffre subito, oppure ha atteggiamenti sopra le righe sin da quando disputa i primi incontri in eventi minori. Per me invece in UFC non era cambiato niente rispetto agli inizi del mio percorso. Non l’ho mai visto come un punto di arrivo, anzi, quando ho firmato mi sono detto: «Sono solo all’inizio». Ero consapevole che esserci sarebbe contato poco, vincere e restarci avrebbe fatto la differenza.
Quanto ha influito il rapporto della tua famiglia con lo sport?
Parecchio. Mio nonno Bud raccontava sempre, quasi vantandosi, di essere arrivato in semifinale nei 100 metri stile libero in due edizioni delle Olimpiadi negli anni Cinquanta senza essersi praticamente mai allenato. Erano tempi diversi, considera che il titolo italiano di nuoto si svolgeva nel Tevere. E lui ricordava di come, prima di entrare in acqua, era abituato a fumarsi una sigaretta, come una sorta di trash talking nei confronti degli avversari. Voleva far vedere a tutti che era talmente rilassato e sicuro di sé prima della gara, da concedersi uno sgarro plateale. Anche se poi ammetteva di essersi pentito per la sua poca propensione ad allenarsi, perché se lo avesse fatto avrebbe raggiunto risultati ancora più notevoli. Ma la vita da sportivo non faceva per lui.
Io ovviamente sono un atleta moderno, quindi ho tutt’altre abitudini e mentalità, ho un’attenzione maniacale per i dettagli, dalla dieta fino al sonno. Mio nonno sotto questo aspetto mi ha insegnato a non ripetere i suoi errori, quindi mi ha trasmesso comunque un messaggio istruttivo.
Tuo nonno che ne pensava della tua scelta di diventare un fighter?
Inizialmente non capiva esattamente che sport fosse. Quando gli ho spiegato meglio in cosa consistono le arti marziali miste, facendogli vedere alcuni incontri, è rimasto affascinato. Lui ricordava il match tra Muhammad Ali e il wrestler Antonio Inoki del 1976, come esempio di una sfida “interstile”. Capì che dietro le MMA c’era un business e che stavo realizzando qualcosa di importante, per cui mi ha sempre sostenuto. Era felice di avere uno sportivo in famiglia, e che il nipote stesse seguendo le sue orme.
Che rapporto avevi con lui?
Era un nonno particolare, molto indipendente, non di quelli con cui ti vai a fare la passeggiata al parco o che ti viene a prendere a scuola. Mi permetteva di entrare nella sua vita in occasioni semplici, ad esempio chiedendomi se volessi accompagnarlo a fare qualche commissione. Per me era già tanto, sono piccole cose che ho sempre ritenuto importanti. Ma in ogni caso lo vedevo quasi quotidianamente, perché abitava nello stesso palazzo in cui vivo con la mia famiglia, ed è stata una grande fortuna.
Tornando alle MMA, riesci a spiegare a parole cosa significa esordire in UFC per un fighter?
Non lo realizzi nel momento in cui accade, ma in seguito. Mi sono davvero reso conto dell’esperienza che ho vissuto solamente guardando i video realizzati da UFC sul mio match, qualche giorno dopo. Mi sono visto dall’esterno e ho pensato: «Caspita, quello sono io». È stato toccante. Quando ero nell’ottagono invece l’ho vissuta come fosse uno show, con una buona dose di sana incoscienza, che però serve a far sì che un atleta riesca ad esprimersi al meglio. Altrimenti si rischia di avvertire troppa pressione, e la performance ne risente.
Visualizza questo post su Instagram
Un post condiviso da Carlo “Semento” Pedersoli Jr (@carlopedersolijr)
L’amicizia tra Pedersoli Jr e Di Chirico, così diversi tra loro, è ribadita in ogni intervista di entrambi.
Dopo la vittoria con Scott hai registrato due sconfitte al primo round. Cosa credi che non abbia funzionato quelle occasioni?
È difficile auto-psicanalizzarsi. Parlando in generale, da una parte ero ancora immaturo a livello mentale e dell’altra l’istinto mi ha tradito. Mi comportavo come il ragazzetto che stava facendo l’esperienza della vita, non ero consapevole che in gioco c’era la mia carriera. E ammetto che dopo la vittoria con Scott mi sono sentito intoccabile, troppo sicuro di me. Ho fatto una serie di errori di valutazione, sia nell’accettare incontri che avrei dovuto rifiutare sia quando si è passati all’azione in gabbia, e nelle MMA i passi falsi si pagano cari.
Cosa hai pensato quando hai saputo di essere stato rilasciato?
È stata una grande delusione, soprattutto perché non me lo aspettavo. Stavamo negoziando il mio quarto incontro, mi avevano proposto diversi avversari e io ne avevo già accettato uno. Quindi sono passato dal pensare di dover combattere di lì a poco, al ricevere l’email che mi comunicava il licenziamento, firmata da Dana White, senza che il mio manager mi avesse avvisato. Diceva: «Grazie di tutto, è stato un piacere averti con noi, ma pensiamo tu debba fare esperienza altrove, anche a causa delle due sconfitte consecutive». È stato surreale, ci ho messo un po' a rendermene conto, sono rimasto incredulo a guardare lo schermo del computer per qualche minuto.
Effettivamente è una dinamica insolita.
Non ho ancora ben capito perché mi abbiano rilasciato (Alex Dandi, manager, promoter e telecronista di MMA, ne aveva ipotizzato il motivo quando l’ho intervistato). Penso che UFC abbia un database in cui registra i risultati degli atleti, per capire chi licenziare. Io sono contrario a metodi simili, nella stessa UFC ci sono tanti fighter che all’inizio erano partiti male e poi hanno avuto carriere di alto livello. Anche Marvin Vettori dopo i primi 5 match aveva 2 vittorie, 2 sconfitte e 1 pareggio, e guarda dov’è adesso. Non siamo macchine, o numeri, siamo combattenti: in un percorso sportivo è fisiologico avere alti e bassi, e le top promotion spesso non li perdonano. Ecco, mi sono sentito vittima di questo meccanismo, anche se quei match li ho pur sempre persi.
I fan giudicano i risultati, gli addetti ai lavori dovrebbero saper valutare anche le performance.
UFC ha sbagliato nel corso degli anni nel voler promuovere il modello del fighter imbattuto. È passato un messaggio ingannevole sia al pubblico che agli atleti giovani. Le sconfitte fanno parte del gioco, soprattutto in una disciplina imprevedibile come le MMA, dove è quasi assicurato che prima o poi perdi. Chiunque si affronti ha pari opportunità di vincere, basta un pugno o una ghigliottina per finire un match. È uno sport crudele nella sconfitta, che però può essere istruttiva e rappresentare uno step di maturazione per un fighter. Per fortuna la moda dei record immacolati sta scemando, ora sta tornando in voga il combattente che è caduto ma è stato capace di rialzarsi. Lo trovo molto affascinante: c’è sostanza, profondità, perché le persone sono colpite dalle storie di rivalsa, che trasudano umanità, insegnamenti, valori. Sanno di vita vera.
Dopo la rescissione contrattuale da UFC si è scatenata la pandemia. A ottobre 2020 hai esordito in Bellator, in un match che non è andato bene, e pochi mesi fa sei stato rilasciato dall’organizzazione, con solo quella sconfitta all’attivo. Come hai affrontato la situazione?
È stato come quando vieni lasciato dalla fidanzata e poi ti ricapita subito dopo con un’altra ragazza. È un’esperienza che hai già vissuto, e la seconda volta ti scalfisce molto meno. Ho reagito razionalmente, ci ho messo una pietra sopra perché me n’è importato poco. Sono concentrato sul tornare in UFC, volevo utilizzare Bellator per questo scopo. A dirla tutta un po' mi spaventava il fatto di vincere e poi magari ritrovarmi vincolato all’organizzazione. Per questo ero quasi sollevato del licenziamento, anche perché l’attività della promotion in Europa è ancora bloccata per la pandemia, e adesso essendo free agent se mi vengono fatte buone offerte sono libero di accettarle, prima ero vincolato dal contratto.
È vero che c’è stato un momento in cui hai pensato di ritirarti dall’attività agonistica?
L’ho detto mosso dalla rabbia, come sfogo. Ma non l’ho mai pensato realmente. Dopo le due sconfitte in UFC, a caldo mi sono ripromesso che se ce ne fosse stata una terza mi sarei ritirato. Bisogna anche capire quando si deve dire basta, e quindi decidere di abbandonare una strada per percorrerne un’altra. Se un atleta perde tanti incontri di seguito si deve fare qualche domanda: forse quella non è la sua dimensione, per un motivo o per l’altro.
Poi le tre sconfitte consecutive sono arrivate, e ci ho riflettuto, ma ho concluso di essere bravo in quello che faccio, sono portato per questo sport, è la mia vita. Farò il fighter ancora per tanto tempo, sperando che la salute mi assista, perché le MMA sono uno sport usurante. È una decisione che ho preso grazie al supporto costante del mio coach Lorenzo Borgomeo, a cui sarò sempre riconoscente. Per me è importantissima la dimensione umana del team, perché vengo da sport di squadra come il calcio e il football americano. In una disciplina complessa come le Mixed Martial Arts è fondamentale percepire un’armonia profonda con le persone che ho al mio fianco in questo viaggio.
Nell’ultimo periodo ho avuto diversi infortuni gravi, e per quelli sì che ho rischiato il ritiro. Non ho mollato neanche davanti a questa nuova difficoltà, ho recuperato, ma sono acciacchi e disturbi che mi porterò dietro, e che mi fanno allenare con una certa attenzione. Ma è tipico del nostro lavoro, le MMA sgretolano i corpi di chi le pratica.
Non nascondi di provenire da una situazione sociale agiata, e che saresti potuto diventare un medico o un avvocato. Come si compensa il fatto di combattere per passione e non per necessità, anche nel mantenere costanti fame e motivazione?
Se lo fai per passione, non sono tre sconfitte consecutive a farti smettere con le MMA. Al contrario, un fighter che ha bisogno di guadagnare potrebbe pensare: “Sto perdendo, le borse si abbassano, gli sponsor mi abbandonano, devo trovare qualcos’altro con cui vivere”. Invece nella mia condizione mi sento molto libero mentalmente, e se non ho ancora smesso dopo tutto quello che mi è capitato è perché ho un fuoco dentro che mi spinge a continuare a farlo, e che prescinde dai risultati. Per me è stato uguale combattere in una card UFC in Brasile davanti a 30 mila persone, e farlo a Manduria, con cento o duecento spettatori in piazza, perché non è il denaro a motivarmi. Combatto per appagare un mio bisogno interiore, una sorta di vocazione.
Cosa ti ha lasciato a livello di consapevolezza il KO ai danni di Corujo? È la tua rinascita?
È stato un bel gesto tecnico, anche esteticamente. Avrei potuto farlo contro qualsiasi altro avversario, ho sempre saputo di avere le mani pesanti. In questo sport raggiungi la maturità quando calchi l’ottagono in tante occasioni, ci vuole tempo. Ecco perché può capitare che i knockout ci mettano diversi incontri ad arrivare. Quel risultato ha rinforzato la mia autostima, mi ha dato certezze, è stato terapeutico. Ed è un punto di partenza.
Dopo tutte queste vicende, che atleta e persona ti senti oggi?
Sono cresciuto come uomo, al di là della dimensione da fighter. Sono arrivato in UFC, mi hanno licenziato, e allora ecco Bellator, per poi trovarmi di nuovo svincolato senza tanti complimenti o spiegazioni. Ma ho capito i miei errori. Il passato è scritto, è inutile ripensarci rodendosi il fegato, ma almeno deve servire a imparare la lezione.
Resta il fatto che mi hanno tolto il mio sogno. Ho provato rabbia, delusione, sconforto, trovando finalmente la voglia di reagire, e il mio obiettivo oggi è riprendermi UFC. Però deve andare come dico io, altrimenti ho già avuto una carriera degna di nota, e va bene così.
Se mi guardo alle spalle vedo un percorso impervio, ma che mi ha fatto raggiungere una maturità maggiore. Adesso so gestire meglio alcune circostanze, sia a livello sportivo che personale. Le MMA sono una disciplina che ti fa toccare il fondo, perché quando perdi sei devastato nel fisico e nella mente. Però aver conosciuto il fallimento in quello che amo, nelle arti marziali miste, mi ha fatto capire che posso cadere cento volte, ma mi rialzerò sempre. Questo sport è una palestra di vita.