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Ebrima Darboe un mese dopo
27 mag 2021
Abbiamo parlato con il giovane centrocampista gambiano della Roma.
(articolo)
11 min
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Il 6 maggio la Roma di Paulo Fonseca deve affrontare il Manchester United nella semifinale di ritorno di Europa League, dopo che quella di andata era finita 6-2. Due giorni prima di giocare, cogliendo tutti di sorpresa, la società ha ufficialmente annunciato l’arrivo di José Mourinho in panchina, per la stagione successiva. Che ci fossero sentimenti contrastanti quella sera sembra scontato – la paura di perdere nuovamente con un punteggio pesante, la vaga speranza di una rimonta impossibile, l’entusiasmo per l’arrivo di uno degli allenatori che hanno fatto la storia del calcio degli ultimi decenni, il dispiacere per l’addio di un allenatore a cui in due anni si possono rimproverare poche cose – e non possiamo sapere quanto l’aspetto emotivo abbia influenzato Fonseca nella decisione che ha preso dopo mezz’ora di gioco, quando Chris Smalling, infortunato, ha chiesto il cambio.

La scelta più naturale, forse persino quella più sensata, sarebbe stata inserire un altro difensore centrale: in panchina c’era Kumbulla e, negli attimi precedenti al cambio, viene inquadrato pronto per entrare, senza pettorina, in movimento. All’ultimo momento, però, Fonseca cambia idea e in campo fa entrare Ebrima Darboe, centrocampista, arretrando Gianluca Mancini in difesa. Nel suo esordio assoluto, in campionato con la Sampdoria, aveva giocato dieci minuti e non aveva sbagliato niente: abbastanza per spingere l’allenatore a farlo giocare più di un’ora in una partita così delicata?

I tifosi della Roma conoscevano già la storia di Darboe, il lungo viaggio dal Gambia, quando era appena adolescente, ma pochi sapevano come giocava prima di quella partita contro il Manchester United. Per capirlo sono bastati quattro minuti. Che tipo di giocatore è Ebrima Darboe? Quello che, su una palla lunga all’indietro di Pellegrini, che rimbalza pericolosamente nella metà campo difensiva in cui ci sono solo Ibanez e Mancini, resta lucido e con una calma glaciale evita l’intervento di Cavani con il controllo di interno destro, e poi, visto che alla sua sinistra c’era Mason Greenwood che stringeva, si ferma e gira su se stesso usando l’esterno del piede.

Quando intervisto Darboe le sensazioni di quella semifinale di Europa League (con cui è diventato il più giovane gambiano di sempre a giocare una coppa europea) sono ancora fresche. Darboe ricorda che a Bakoteh guardava molto calcio. «Un po’ di tutto: la Serie A, la Premier, la Liga, la Champions League. Il Barça era la mia squadra preferita».

La Roma la conosceva «per Totti e De Rossi», ovviamente, «guardavo sempre le loro partite». Anche lui, come altri giocatori africani cresciuti giocando in strada, aveva un soprannome. L’attaccante dello Zurigo e della nazionale gambiana, Assan Ceesay, ad esempio, ancora oggi è chiamato “Torres”, come il suo giocatore preferito. Darboe ha riferimenti diversi: «Alcuni mi chiamavano Xavi, altri Messi».

Pochi minuti dopo l’azione descritta sopra, Darboe fa movimento simile per evitare la pressione di Bruno Fernandes, girando sempre su se stesso con l’esterno del piede. Era per giocate di questo tipo che lo chiamavano Xavi? «Sì, perché lui faceva sempre quel movimento. E poi anche io giocavo a due o tre tocchi. Questo è il mio stile di gioco».

Quel gesto tecnico, con cui ruotando sul posto, verso l’esterno ma anche verso l’esterno, in Spagna è chiamato pelopina, proprio in onore di Xavi (il cui soprannome era pelopo, una parola catalana che ripeteva spesso da piccolo, e che voleva dire “peli pubici”...).

Prima di esordire con la Sampdoria e giocare contro il Manchester United, Darboe aveva fatto appena qualche panchina. Un mese dopo (deve ancora compiere vent’anni, lo farà il primo giugno) Fonseca ha detto che la squadra è cambiata con il suo ingresso tra i titolari. Lo ha fatto partire dall’inizio nelle partite restanti di campionato e ha speso belle parole nei suoi confronti: «Non è facile trovare un giocatore con questo coraggio e questa serenità. (...) E sempre giocando in avanti, sempre in verticale».

Anche se prima di partire sognava di poter diventare calciatore professionista – «lo speravo, ma non così velocemente», aggiunge lui – a Bakoteh non aveva mai giocato in una squadra, in un contesto, diciamo così, strutturato. «Giocavo con gli amici, la squadra del paese, tra amici». Una volta arrivato in Italia, quando ha cominciato ad allenarsi con lo Young Rieti, era «tutto molto diverso. In Gambia non allenavamo le basi. Andavamo in campo, undici contro undici, e giocavamo. Già a Rieti, quando ho iniziato a giocare, qualche esercizio lo facevamo, controlli, portare palla…».

Anche lì, però, il contesto non era al suo livello: «Giocavo da solo, la mia squadra era scarsa ma io facevo 4 o 5 gol, loro giocavano tutto su di me. Io ero trequartista, prendevo palla e facevo gol. Per questo alla Roma, all’inizio, ho avuto qualche difficoltà. La tattica è stata difficile da imparare».

Ebrima “Xavi” Darboe. Sì, suona bene. Lo dichiaro ufficialmente suo soprannome.

Chi ha giocato a basso livello sa bene che, anche con un talento superiore a chi ti circonda, è difficile spiccare. Almeno al punto da attirare le attenzioni di uno scout o di un agente in grado di farti finire alla Roma. E poi Darboe, fino a qualche anno fa, pesava una cinquantina di chili. «In realtà è stato merito mio», racconta. «Miriam (Peruzzi) andava a vedere il mio migliore amico a Rieti, e quando l’ho conosciuta le ho detto: guarda che io sono forte, vieni a vedermi. Ma ero troppo piccolo, lei mi diceva: ho le gambe più grosse delle tue, ma dove vai? Io ripetevo: guarda che sono forte, vieni a vedermi. Alla fine ha detto: va bene, vengo a vederti. E quando mi ha visto ha parlato con Giorgio (Ghilardi) e gli ha detto che le sembravo forte, ma non sapeva se era perché giocavo con gente troppo scarsa o se lo ero veramente. Allora è venuto anche Giorgio a vedermi, che ha pensato potessi fare una carriera e mi ha fatto fare dei provini».

Prima della Roma hanno fatto una prova a Pescara e una con l’Entella. «Con l’Entella abbiamo giocato contro il Genoa, ho fatto due gol. Allora Giorgio ha detto a Miriam che avrebbe provato a sentire la Roma. E dopo il provino con la Roma, nella pausa, mi hanno chiesto se mi piaceva la squadra e se volevo restare. Ho chiamato subito Miriam e Giorgio e gli ho detto: il direttore mi ha detto se voglio restare!».

Come detto, però, nonostante il talento, il salto per poter giocare nella Roma non è stato così semplice. Anzitutto, da trequartista che era, ha iniziato a giocare come mezzala sinistra o mediano. «I primi anni con De Rossi infatti sono stati complicati, è stato lui a farmi capire come dovevo inserirmi. Il mister mi ha insegnato molte cose: gli inserimenti, ad esempio, che prima non facevo. Perché volevo sempre la palla sui piedi». Gli faccio notare che adesso una delle sue qualità più evidenti è la capacità di rendersi disponibile per i compagni, di smarcarsi senza palla. «Sì, anche questo l’ho imparato qui».

Nella Primavera, giocando da mezzala si vedeva spesso anche nell’ultimo terzo di campo e proprio con gli inserimenti ha segnato anche qualche gol. Con la prima squadra, invece, dei due mediani di Fonseca lui era quello che restava vicino alla difesa, a fare da playmaker, a dare «equilibrio», come ha sottolineato l’allenatore portoghese. «Per me è uguale. Dipende dal modulo, ma posso fare entrambe le cose e anche il trequartista, come all’inizio».

Francamente è sorprendente che abbia imparato in così poco tempo un ruolo così delicato. Anche in fase difensiva si nota un talento non indifferente, sia a livello posizionale che tecnico, quando c’è da togliere la palla agli avversari. Dice che quando giocava in prima squadra ha conosciuto anche De Rossi junior, Daniele: «Mi dava sempre consigli, mi ha aiutato tanto».

Di solito i calciatori africani vengono descritti in modo stereotipato insistendo sugli aspetti fisici, ma lui è a inizio carriera e può ancora prendere il controllo della sua narrazione. Tra le sue qualità principali, oltre all’intelligenza e la calma, che gli dico io, lui nomina «la visione di gioco e il coraggio». Da che si vede, in campo, il coraggio? «Nel volere sempre la palla, toccare tanti palloni. Sono uno che vuole sempre la palla, non ho paura di prenderla anche vicino alla porta». E il coraggio non è una cosa che si può imparare. «Il coraggio l’ho sempre avuto. Altrimenti alla mia età non avrei mai fatto quel viaggio».

Notare come si sposta la palla con l’interno, guardando alla sua sinistra e influenzando il comportamento del giocatore che ha davanti, e poi con un tocco di esterno si crei lo spazio per il filtrante in avanti.

A Bakoteh, Darboe ha lasciato la madre, due sorelle più grandi, sposate, e un fratello più piccolo. È partito senza dire niente a nessuno, «sennò non mi lasciavano andare», avvertendo la sua famiglia solo dopo essersi messo in viaggio. Non aveva una destinazione precisa: «Il destino… io ero partito solo per avere una vita migliore». Dalla costa occidentale (il Gambia è un piccolo rettangolo all’interno del Senegal) ha attraversato il deserto, e dalla Libia ha preso un’imbarcazione per la Sicilia.

Mentre noi parliamo, sulle homepage dei quotidiani internazionali ci sono le foto dei bambini ritrovati sulle coste libiche. Darboe non è l’unico atleta arrivato in Europa da clandestino, affrontando rischi e difficoltà per noi inimmaginabili: il campione dei pesi massimi UFC, Francis Ngannou, è arrivato in Spagna dopo un anno di viaggio. Anche Musa Juwara, gambiano come lui, è arrivato a Messina nel 2016 insieme ad altri 535 migranti. Quando gli chiedo del suo viaggio mi risponde con educazione: «Non pensavo che sarebbe stato così pericoloso… la difficoltà è stata tanta, vedi tante cose brutte». Ma non ha voglia di tornare su quella storia. Non adesso almeno: «Ora è un momento molto importante per la mia crescita, voglio concentrarmi e dare tutto sul campo».

A parte il suo diritto di raccontare come e quando vuole i dettagli, e se lo preferirà dimenticare le sofferenza e la violenza del viaggio che ha affrontato, non è difficile mettersi nei suoi panni. Nelle prime sei partite da professionista, ha già giocato contro il Manchester United, l’Inter campione d’Italia e nel derby con la Lazio. È passato da una situazione di semi-anonimato all’essere il centro delle attenzioni dei tifosi romanisti (in attesa di Mourinho, ovviamente). Il rischio di perdere la concentrazione è reale: «Ma io sono molto tranquillo. Spero che questo sia solo l’inizio. Ho tanto da fare ancora, non basta fare due partite bene per essere arrivato. Ho ancora molto da dimostrare».

I calciatori si dividono sostanzialmente in due tipi: quelli che fuori dal campo e dagli spogliatoi non vogliono saperne del calcio; e quelli che finita la partita la riguardano per studiare. Darboe fa parte di questo seconda categoria. «Mi piace rivedere le cose che ho fatto bene e quelle che potevo fare meglio. Con la squadra lo facciamo a parte, ma io lo faccio anche da solo, a casa, con il papà di Miriam, Giulio». E gli errori come li vive, ci pensa molto? «No, no. Voglio capire il motivo per cui ho sbagliato, così cerco di non farlo più. Ma solo questo».

Qualche errore in queste prime partite lo ha anche fatto: contro l’Inter, all’ottanduesimo, ha perso una palla al limite dell’area, in costruzione, ed è stato graziato da Pinamonti che ha calciato alto; contro lo Spezia, da un suo passaggio sbagliato è nato il gol di Verde. E lui stesso sa di dover migliorare sotto certi aspetti: «Fisicamente voglio migliorarmi tanto. Penso che mi serve e ci sto lavorando». In generale, però, ha mostrato una freddezza e una presenza davvero da veterano, come si dice.

Contro l’Inter è stato il giocatore in campo con più tocchi (90) insieme a Skriniar, e anche nelle altre partite è stato sempre tra i due o tre giocatori a effettuare più passaggi della Roma, con una precisione sempre superiore al 94% (a eccezione della partita con lo Spezia, in cui come tutta la squadra ha giocato meno bene del solito). Alcune azioni in particolare non sembrano merito della fortuna del principiante. Contro la Lazio ha sradicato un pallone dai piedi di Milinkovic-Savic, prima di girarsi verso il centro del campo e saltare la pressione della Lazio con un passaggio di esterno. Poi ha bloccato in modo pulito una progressione di Luis Alberto, ripartendo palla al piede e cominciando l’azione d’attacco. «Eh quello sì, riguardandolo dopo ero contento… sono stato bravo lì».

Parlandoci, come vedendolo giocare, è difficile ricordarsi quanto sia ancora giovane. E che, probabilmente, dietro la grande sicurezza che mostra ci devono essere emozioni molto comuni. Fino a cinque anni fa guardava le partite in tv e ci deve essere senz’altro un po’ d’incredulità quando va a stringere la mano a Paul Pogba, dopo la partita con lo United: «Ho fatto il tifo per lui anche durante il Mondiale. È uno dei giocatori che mi ispirano. Come De Bruyne, Bruno Fernandes, Pellegrini…».

Oltre ovviamente a Xavi e Iniesta: «Giocatori che prima che arriva la palla sanno già dove giocarla». Come loro, Darboe scandaglia il campo con lo sguardo prima di entrare in possesso del pallone, e lo porta a testa alta, toccandolo molte volte con l’interno e con l’esterno, cambiando direzione, girando su se stesso.

La famiglia Peruzzi, che lo ha aiutato molto in questi anni, sta portando avanti le pratiche per adottarlo, ma in ogni caso non cambierà nome sulla maglia: «No, resterò sempre Darboe». Gli chiedo se si è preparato all’arrivo di Mourinho: «Penso che tutti i giocatori vorrebbero essere allenati da Mourinho. Io lo guardavo da piccolo, nel clasico». Ma tifavi per l’altra squadra! Darboe ride e quando gli dico: "Hai visto la serie su Amazon? Mourinho vuole guerrieri, vuole giocatori coraggiosi"; risponde: «Lo so, lo so. Sono pronto».

Poi, come uno che a vent’anni sa già cos’è la vita, aggiunge: «Speriamo». Ed è anche l’unico calciatore che abbia intervistato che al momento dei saluti mi dice: «È stato un piacere».

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