Arrivo al centro sportivo della Salernitana all’ora di pranzo. Due campi regolamentari e un terzo più piccolo, usato per lavori specifici, sono vuoti. Da un fabbricato arrivano voci che si alzano sopra lo scroscio delle docce. È una giornata calda e solo il lavorio dei giardinieri intorno agli alberi ingialliti mi ricorda che non è più estate.
Nel ristorante c’è quel che resta del gruppo squadra – undici calciatori sono via con le Nazionali. Alcuni sono riuniti intorno ad Antonio Candreva, che parla con voce calma e bassa mentre indica qualcosa sul suo cellulare. Più in là, in un altro tavolo, vedo Davide Nicola con il suo staff. Ascolta tutti, sentenzia alla fine.
Quando lo incontro mi stringe la mano. Nicola mi riconosce – scherza sulla nostra precedente intervista – anche se non ricorda il mio nome.
L’intervista inizia mentre ancora camminiamo verso la sala stampa, quasi non servono le mie domande.
Sei arrivato alla Salernitana a febbraio. Cosa cambia per un allenatore quando arriva da subentrato rispetto a quando comincia la stagione dall’inizio?
Cambiano le priorità. Quando subentri, erediti una squadra che non hai avuto tempo di conoscere. Nella prima settimana di full immersion bisogna capire le caratteristiche della squadra, la metodologia di allenamento a cui era abituata. Un’idea dell’impostazione tecnico-tattica che tu avresti dato, guardando da fuori quel tipo di squadra, ce l’hai; poi, allenandola, ti rendi conto di quanto tempo ci vuole per cambiare dalla vecchia impostazione. Bisogna conoscere le caratteristiche di tutti i giocatori, classificare le problematiche nelle varie aree, riconoscere i propri punti di forza, con un'analisi il più dettagliata possibile servendosi anche dei big data. E a quel punto: iniziare ad allenare, scegliere i principi di gioco che sono inderogabili, capire se c’è qualcosa da adattare in base alle caratteristiche dei giocatori a disposizione.
Fammi degli esempi concreti: anche quando le caratteristiche della squadra sono molto lontane della tua idea di calcio quali sono i principi a cui non puoi rinunciare?
Un gioco organizzato nella valutazione e nella comprensione degli spazi, nelle relazioni tra giocatori. Un movimento deve obbligare un altro movimento. Ti faccio un esempio: in qualsiasi zona del campo, di solito i giocatori che partecipano alla costruzione di un’azione non sono mai più di quattro. Per me è importante che capiscano quale relazione devono avere tra di loro, quali sono i compiti che hanno l’uno rispetto all’altro.
Altri elementi sono: i tempi di smarcamento, la conoscenza dei movimenti di reparto, una forte aggressività con e senza palla. Io mi annoio a vedere squadre troppo lente, che ragionano troppo. Anch’io voglio giocatori pensanti, ma è qualcosa che devi costruire negli allenamenti. In partita deve andare la parte inconscia della mente. Un giocatore in campo porta il suo bagaglio di conoscenze e di abitudini, e per costruirlo ci vuole tanto lavoro.
Queste cose sono inderogabili, tutto il resto è adattabile. Per situazioni, momenti, caratteristiche dei giocatori, esigenze della piazza, storia del club. Io e il mio staff ci mettiamo sempre in discussione, ma siamo convinti che il nostro approccio metodologico ci abbia portato benefici sia subentrando che iniziando una stagione.
L’anno scorso avevi Milan Djuric, e quindi avevate un certo modo di risalire il campo, con palla addosso o palla alta, e contestando le seconde palle. Quest’anno hai attaccanti diversi e state muovendo di più la palla a terra. Il principio è lo stesso – la verticalità – è cambiato il modo di fare le cose. E l’efficacia in attacco è aumentata: oggi siete settimi per Expected Goals, l’anno scorso eravate terzultimi. È qualcosa che hai voluto tu, in accordo con la società, cambiare il tipo di attaccante per giocare un calcio diverso?
Quest’anno mi è stato prospettato un programma, dove io potevo partecipare all’idea di gioco che volevamo proporre. Ci siamo seduti e abbiamo fatto una programmazione in funzione del tipo di gioco che volevamo fare e abbiamo individuato dei giocatori che ci potessero dare la possibilità di modificare l’arrivo sulle punte con caratteristiche diverse, più di attacco dello spazio, con giocatori che cercavano la soluzione individuale di superiorità numerica. Abbiamo cercato di mettere dentro giocatori con caratteristiche diverse, che si compensassero. Gli esterni, i quinti, li abbiamo cercati con proiezione esclusivamente offensiva. Mazzocchi aveva già fatto bene l’anno scorso. Candreva lo conoscevo da avversario, è stato una piacevole riscoperta, ha una qualità importante nella scelta delle giocate e nella partecipazione all’azione offensiva. Bradaric è un quinto perfetto, di qualità, ha avuto un infortunio, deve crescere ma avrà le sue chances, Sambia è diventato quinto nella sua carriera ma ha qualità da mezzala, aspettiamo la sua crescita.
Bisogna considerare che tutti i giocatori che prendi dall’estero te lo puoi trovare tra quattro, cinque, sei mesi. Se hai la pazienza di aspettarli… io sono convinto che sono stati presi giocatori con criterio, qualcuno doveva essere importante in questo momento, come Lovato; altri di prospettiva te li ritroverai un po’ più avanti. Questa programmazione è stata possibile perché il presidente ha una visione lungimirante e ambiziosa, i direttori sportivi conoscono i campionati esteri, io ho dato delle caratteristiche, in alcuni casi ho proposto o confermato il nome del calciatore che avrei voluto portare io.
Rispetto allo scorso anno: lo studio che facciamo per conoscere le caratteristiche di un giocatore quando arriviamo in una squadra è molto approfondito. Milan Djuric è uno dei giocatori più abili che io abbia conosciuto nell’avere quella precisione di sponda, per favorire l’inserimento del terzo uomo o anche per chiudere un uno-due. Non è un giocatore statico, sa sempre come divincolarsi in area e ha capacità di lettura per andare a prendere lo spazio dove cadrà il cross. Ma è inutile che io gli chieda una corsa box to box, o anche solo una di trenta metri. Né Milan né le altre punte avevano caratteristiche di attacco della profondità.
A me non piace il calcio verticale fine a sé stesso. La verticalità che piace a me è velocità, è capacità di riconoscere le pressioni dell’avversario per batterle. Non voglio un gioco che ristagni in orizzontale, con passaggi che non battono linee avversarie e non conquistano spazi. Quindi la capacità di appoggiarsi a Milan era dovuta al fatto che gli unici giocatori capaci di attaccare lo spazio erano i due esterni – uno più di un altro – e le due mezze ali. Poi, a rimorchio, arrivavano la seconda punta e Milan stesso. Ma non ci arrivavamo solo con quella giocata diretta su Milan [nell’ultimo terzo di campo, ndr]. Avevamo la possibilità di risalire il campo senza interessare Milan più di tanto uscendo in ampiezza, portando la palla, con magari un cambio gioco più esasperato, entrando nell’ultimo terzo per attaccare l’area con dei cross o dei traversoni dove Milan a quel punto poteva fare la differenza e noi potevamo riempire di più l’area portando più giocatori possibile.
Quest’anno, secondo me, in sette partite abbiamo già dimostrato un’identità, e raggiunto l’obiettivo di voler giocare e essere competitivi in qualsiasi contesto. Qualche punto siamo già riusciti a farlo. Anche perché ogni settimana dal quindici di agosto sono arrivati uno, due calciatori nuovi da integrare, con lingue diverse, metodologie diverse, non è semplice. Vorremmo consolidare quanto fatto e migliorare un aspetto che ha a che fare con la strategia e le letture delle scelte di gioco, che è l’aspetto secondo me più difficile. Se hai nelle corde i 10 netti sui 100 metri, con l’allenamento non ci metterai molto ad arrivarci. Ma quanto lavoro supplementare ci vuole per arrivare da 10 secondi a 9.90?
Quindi dobbiamo credere in quello che stiamo facendo e progressivamente migliorarci. Siamo al secondo anno di Serie A consecutivo, e nonostante il club abbia una storia molto lunga, non ha una storia di Serie A. Tutto può essere ancora costruito, consolidato, migliorato. Dobbiamo avere pazienza, mantenendo l’ambizione di voler crescere più che l’attenzione al singolo risultato, migliorandoci in ogni aspetto del club – portando più gente allo stadio, prendendo giocatori che qualche anno fa non avrebbero scelto la Salernitana – anche al di là dell’obiettivo sportivo conseguito.
Avete uno stadio incredibile, dalla TV non sembra nemmeno di assistere a una partita di Serie A, quanto a una finale di qualche coppa sudamericana. Il fattore campo influenza il vostro modo di stare in campo? Ti faccio un esempio: contro la Fiorentina, con tanto tifo, siete partiti molto forte e avete portato tanta pressione, forse più di quella che di solito eravate abituati a portare.
Ci sono due aspetti. C’è una passione sconfinata di cui i tifosi sono coscienti, ma paradossalmente è come se sapessero di poter fare ogni domenica qualcosa di più. Perché hanno proprio la passione di vivere la Salernitana, di essere orgogliosi, di avere gioia per questo legame. Questa è una città e una società in cui i diretti interessati devono cercare il contatto con la gente del posto. Il salernitano ha bisogno di vedere il giocatore senza intermediazioni, che il professionista viva e apprezzi la città in cui abita. Questo per me è il primo concetto importante.
Secondo: al campo, l’idea che appaia come uno stadio sudamericano è assolutamente vera, c’è un tifo incredibile che ci trasmette un senso di responsabilità. Ogni volta che tu entri non vedi l’ora di renderli felici perché sai già cosa proveranno e di rimando cosa proverai tu per esserci riuscito. Ad un tempo ti aiuta quando sei in difficoltà, ma allo stesso tempo ti manda un po’ fuori giri quando dovresti essere un pochino più lucido. L’essenza del nostro sport è questa, al di là delle comodità, della visibilità, dell’aspetto economico, il valore che ci percepiamo è dato dalla gente che ci segue. Non dobbiamo dimenticarlo, è una forma di umiltà.
L’atteggiamento delle “piccole” nel campionato italiano è cambiato negli ultimi anni. Vogliono di più la palla, pressano di più. Ti sembra che stia cambiando anche il modo di pressare? Prima il pressing era sempre difensivo, orientato a distruggere il gioco avversario, mai offensivo, orientato alla riconquista del pallone per andare a fare gol.
È vero, ma questa è un’evoluzione verso una cultura sportiva che dovrà progredire sempre di più. Il confronto con l’Europa, con i vari campionati – lasciamo stare i quattro campionati più importanti – tante altre nazioni stanno acquisendo consapevolezza, competenze, programmazione per orientare la loro crescita. Favorire le competizioni europee – la Champions League tanto quanto la Conference – ha contribuito all’esportazione di una certa idea di calcio nel mondo, ha contaminato le idee. Prima noi italiani venivamo apprezzati per certe cose, e apprezzavamo gli altri per cose differenti. Metti anche che ogni anno arrivano da noi giocatori e allenatori di altri campionati.
C’è anche un’esigenza di spettacolo diverso, legato alle regole e al loro cambiamento per aumentare la produzione di gioco, per creare occasioni in più, per favorire lo spettacolo, per rendere una partita più divertente. Un tifoso si diverte di più a una partita con molte transizioni, perché aumenta il livello emotivo del seguire un’azione dopo l'altra. A me sembra che oggi è cambiato il significato di velocità, ha assunto un connotato di emotività: tutto ciò che è più veloce, più intenso, ti sembra che ti dia qualcosa in più, lo vivi meglio.
Sulle cinque sostituzioni, Dario Saltari ne ha scritto su L’Ultimo Uomo. Quando sono state introdotte si diceva che avrebbero favorito le grandi squadre, per via delle rose più profonde. Dopo due anni ancora non si capisce dove sono i vantaggi, anche perché molti allenatori ne hanno fatto un uso differente. Tu che uso ne fai?
Le cinque sostituzioni nascono dalla pandemia. Poi sono rimaste per favorire la possibilità di aumentare il livello qualitativo o fisico, per mantenere i ritmi elevati. Secondo me è anche diretta conseguenza del fatto che negli anni è aumentato il numero di giocatori che vanno in panchina. Le rose ampie ce le hanno tutte le squadre, poi è da vedere se tutti possono costruire rose di qualità. L’idea è tenere alto lo spettacolo, alto il ritmo.
Con le cinque sostituzioni un allenatore può gratificare più giocatori, nella partecipazione al progetto tecnico-tattico, perché più giocatori si sentono chiamati in causa direttamente. Io sono favorevole, non mi dispiace, l’utilizzo che ne faccio è funzionale alla partita. Se posso le faccio tutte, sempre. Se credo che la partita stia viaggiando su parametri a noi congeniali o se l’espressione di gioco in campo è adeguata, magari non le faccio tutte e cinque. C’è la possibilità di valutare – non è il nostro caso – l’andamento delle tre partite in una settimana, dove le sostituzioni ti garantiscono il 50% di turnover in campo dei giocatori di movimento durante una partita.
Sono curioso di sperimentare cosa succederà quest’anno, quando ci sarà questa macro-pausa per i Mondiali che cade prima nella stagione rispetto a quanto successe nel 2020.
La costruzione del basso è spesso bollata in TV come una moda. Tu che ne pensi?
Adesso è una moda! [Ride, ndr]. Prima non si poteva giocare al calcio se non si costruiva dal basso, adesso non si può giocare al calcio se non si lancia lungo. Il bello del calcio è che tutti possono dire tutto e il suo contrario, darai sempre l’illusione di avere in tasca una verità. Una volta che tu sai che funziona così, raccogli e rilanci solo le considerazioni che magari pensi che possano essere pubblicate. Ma l’informazione di qualità gli addetti ai lavori la riconoscono subito, la studiano, cercano di confrontarla con le proprie impressioni, di oggettivarla attraverso i dati.
A me non interessa se era una moda prima o lo è adesso. Il vero limite di chi parla di calcio, io credo, è che se esce un concetto nuovo, sembra che se tutti non parliamo di quel concetto siamo fuori dal mondo. Per me dovrebbe valere un altro approccio: esce un concetto, lo analizzo, se mi da spunti per migliorare il mio pensiero, devo poter essere libero di seguirlo. Oppure no. Ma se diventa un’imposizione perché altrimenti divento démodé se non seguo quel concetto… secondo me démodé diventa questa visione di dover andare tutti costantemente in un’unica direzione. La vera ricchezza è la differenziazione di pensiero. È la libertà di scegliere strategie diverse. Il bello del calcio è questo: tu fai una cosa, io posso farne un'altra; io cerco di mettere in difficoltà te, tu cerchi di creare difficoltà a me. Se entrambi facciamo la stessa cosa, diventa solo una questione meccanica o solo di assoluta qualità. Ma laddove la mia qualità è inferiore alla tua, se cerco di batterti sullo stesso territorio, probabilmente perderò sempre. Devo essere intelligente, devo portarti su un altro territorio dove forse sarai battibile.
Io ho mantenuto sempre la mia idea: il gioco inizia nel primo terzo di campo, ma io devo arrivare nell’ultimo terzo e ho cento minuti a disposizione per arrivarci il più alto numero di volte possibile. La costruzione dal basso è una lettura sistematica rispetto a come si posizionano gli altri, in funzione di cosa fanno. Se l’avversario mi aspetta, non mi pressa, io non costruisco dal basso, inizio velocemente e vado. Non ho bisogno di posizionare uomini, non ho nessuna linea di pressione da saltare, perché costruire? Inizio. Ma se l’avversario mi porta pressione è perché ha una strategia, e il mio scopo sarà creare due-tre situazioni perché non sappia mai quando proverò l’una o l’altra. Ma il mio obiettivo è sempre arrivare lì [nell’ultimo terzo, ndr] per creare più occasioni possibili per fare gol.
E quindi: abituare i giocatori a contare la parità numerica o a capire che se c’è superiorità numerica si può uscire velocemente. Battere linee avversarie, conquistare spazi: meno tempo ci metto, meno passaggi ci metto e meglio è. Perché vuol dire che arriverò di là più volte nel tempo che ho a disposizione.
Ti ho seguito nei giorni che hanno preceduto Salernitana-Lecce, mi sei sembrato sinceramente allarmato per l’impegno che dovevate affrontare. Poi la partita l’avete persa. Arrivavate dall’impresa sfiorata a Torino con la Juventus. Lì è più l’esperienza dell’allenatore che ti ha fatto fiutare il pericolo o hai proprio visto qualcosa che non ti è piaciuto negli allenamenti?
Non ero allarmato, ero realista. Nei compiti di un allenatore non c’è solo quello di allenare sé stesso e chi va in campo. Non sei coinvolto perché hai imparato a gestire le tue emozioni, a capire dov’è la verità per te, a riconoscerla, non è perché uno ti critica o ti esalta che tu sei preda di questi picchi. L’allenatore è colui che riesce a riportare la bilancia in equilibrio per far rendere tutti alla massima espressione possibile. Onestamente, senza piangere – non sopporto chi mette le mani avanti.
Stavo semplicemente dicendo che i numeri raccolti – che sono solo di sette partite e non fanno ancora tendenza, anche se sono già buoni – dicevano che il Lecce è una squadra costruita con un certo criterio, per esprimere un certo tipo di gioco e i numeri gli stanno dando ragione. È una squadra che ha perso senza meritare già con il Torino; ha strameritato di vincere contro il Monza; ha pareggiato a Napoli contro la miglior squadra del campionato per produzione di gioco. Arrivano a Salerno e sanno di incontrare una squadra che vuole fare un certo tipo di gioco, di aggressività. Loro sono una squadra che tende a toglierti spazi, ad avere una grande organizzazione difensiva, coprendo bene il campo, con tre-quattro giocatori davanti che ti partono con una facilità e una naturalezza, che sembrano nati per fare quello.
Mi stai dicendo che la Juve non c’entra niente? Tu quella conferenza stampa l’avresti fatta allo stesso modo anche se avessi perso a Torino? Anche se non ci avessi proprio giocato?
Assolutamente sì. Io nelle conferenze stampa parlo delle caratteristiche degli avversari che incontreremo, che è importante conoscere perché noi dobbiamo sapere dove sviluppare il nostro gioco, dove colpire. Allo stesso tempo, avendo l’umiltà di capire che siamo in Serie A e ogni avversario è qualitativo, anche loro avranno una strategia di gioco che noi dobbiamo conoscere per limitare. Il Lecce è una squadra costruita con un criterio, che ti può mettere in difficoltà. “Stavamo per vincere a Torino, vuoi che non vinciamo contro il Lecce?”, questi sono i luoghi comuni del calcio che si spostano tra due piatti di una bilancia. E tu allenatore sei la leva nel mezzo. E non alleni solo in campo, lo devi fare anche fuori. Io lo faccio con onestà, quello che penso dico. Se proprio non posso dire quello che penso, sto zitto. Dicendo le cose come stanno, poni sempre tutti nelle condizioni di non seguire dei luoghi comuni.
La partita di Torino ha dimostrato che in questo momento la Juventus è in difficoltà, ma il loro modo di stare in campo è diverso da quello del Lecce. Loro non ti tolgono spazi, loro giocano. Poi rallentano il gioco, non sono una squadra aggressiva, per cui non ti tolgono spazi. Se però ti trovano l’uno-due mortifero vanno in vantaggio, poi ti portano sui loro ritmi perché pensano già alla partita successiva. Ti cambiano le strategie di gioco perché hanno tre modi di stare in campo. Già abbassando o spostando un giocatore, ti cambiano tutte le uscite in pressione. È una difficoltà cognitiva non indifferente. È una squadra difficile perché non è riconoscibilissima, perché c’è un allenatore per cui i principi contano più degli schemi e delle posizioni, porta l’avversario a dover ragionare. Bella la partita con la Juve, abbiamo dimostrato che possiamo essere competitivi, lo avevamo già dimostrato con la Roma. Ma arriva un altro avversario che mostra delle difficoltà diverse, che devi essere bravo a riconoscere e limitare.
Se vai a vedere, con il Lecce noi siamo partiti fortissimi, aggressivi. Pressione sulla costruzione del loro portiere, che poi ti cercava la profondità direttamente, ti costringeva alla lettura di una seconda palla, a un duello aereo. Dovevi iniziare a imbastire di nuovo le tue trame, avendo meno campo da attaccare. Ci volevano capacità di riconoscere una superiorità numerica, iniziative individuali, triangolazioni più veloci e più precise, sfruttare l’ampiezza di uscita dei terzini per avere dei due contro due centrali. Destrutturarli per trovare i varchi di entrata. Ho fatto fatica a dirtelo, ma in campo come si fa tutto questo? È sempre una questione di percorso. Stiamo di nuovo parlando dei 10 secondi netti che devono diventare 9.90.
Partiti forte, ci hanno annullato un gol, abbiamo avuto un’altra occasione clamorosa davanti al portiere. Poi siamo calati, due errorini, uno di lettura, l’altro individuale, di determinazione, di un giocatore che non conosce ancora il campionato e gli avversari che va ad affrontare, e abbiamo preso lo 0-1. Tu continui a fare la tua partita, ma la fai più lenta, perché non hai gli stessi spazi di prima da attaccare, perché non sei veloce con le combinazioni, perché dovresti avere più personalità nella conduzione coi braccetti per provocare le uscite in pressione di un avversario e così creare il varco. Diventa un lavoro certosino, dove la qualità di scelta e di tecnica sono di un livello superiore. Su quello dobbiamo ancora arrivarci, con altri step di lavoro.
Nonostante tutto la partita la riprendi. Sostituisci un braccetto con un uomo che ha caratteristiche da terzino, di fatto scivoli a quattro dietro. Alzi Candreva, che ha lavorato come ala, provando a dilatarli ancora di più per provare a entrare. La partita la recuperi, dopo aver iniziato il secondo tempo nella loro metà campo. E dove loro cercano di invogliarti a giocare dentro, al centro, per riconquistare il pallone e ripartirti. Sono stati bravi, avevano una strategia impeccabile.
Tu riprendi la partita cercando di fare gioco con la tua identità. Ma lì c’è lo step migliorativo. Capire cioè che le cose possono andare anche in modo leggermente diverso. Anche quando può sembrare facile – perché ti accorgi che il tuo gioco è fluido, che gli avversari che fanno fatica a leggerti, e tu prendi vigore, puoi permetterti il lusso di non prestare troppa attenzione agli altri, ma concentrarti solo su te stesso – le cose possono sempre andare diversamente da quanto desideri. Un punto è un punto. Per il nostro obiettivo, per la nostra classifica, soprattutto perché ne togli due a loro. Essere umili non significa accontentarsi, ma riconoscere che ciò che stai guadagnando dalla produzione del tuo massimo, in quel momento ti porta a migliorare anche se non è tutto quello che ti aspettavi. Per me questo fa la differenza.
L’ultima domanda: a Crotone hai fatto l’impresa, l’anno scorso qui ne hai fatta una addirittura più grande. Non può essere una coincidenza. Pensi di aver capito qualcosa più degli altri di queste situazioni disperate o hai una skill tua, un’abilità personale, che ti torna utile?
Te lo dico senza falsa modestia. Io mi piaccio come sono, mi piace il mio modo di stare coi miei pensieri. Sono convinto che l’approccio alle cose che ho produca dei risultati. Non ho la frenesia di ottenere tutto e subito nella vita, ma mi piacciono le emozioni intensissime e pure. Lo scopo di accettare determinate sfide è proprio in funzione di questo. A me piace pensare: fin dove riesco a credere in una cosa, fin dove riesco a dimostrarmi pronto per raggiungerla? Devo mettere in conto che posso anche non raggiungere ciò che voglio. Questa è una cosa che io dico ogni giorno ai miei giocatori. Quello che abbiamo ottenuto, io so per certo che potrei non ottenerlo sempre. Quello che mi è andato bene, in una realtà parallela potrebbe essere andato male. Ma io non mi concentro sul risultato, mi concentro sulla sfida, sulla mia capacità di capire fin dove ho il mio punto di rottura, fin dove riesco a restare convinto dell’idea che io ce la possa fare.
Quindi non è la calma, non è il coraggio, non è l’empatia, non è l’esperienza, in quelle situazioni è il desiderio che ti muove?
Il desiderio e la curiosità. L’empatia cos’è? Io posso riconoscere lo stato emotivo di un altro, ma non necessariamente esserne d’accordo. Per me un motivatore spaccia sensi di colpa. Il percorso di ciascuno è individuale, devi determinare da solo la tua autoefficacia, le tue aree di sviluppo, dove sei forte davvero. Noi sprechiamo la maggior parte del nostro tempo ad ascoltare quello che gli altri vorrebbero per noi, ma nessuno impiega il proprio tempo per conoscere se stessi. Io ce l’ho l’ambizione, elevatissima, non immagini neanche quanto. Ma non la identifico con una squadra, con un livello di competizione. La identifico col mio senso di quiete, di piacere a fare quello che faccio. Nel momento in cui non provo più quel piacere sono già diretto verso un’altra meta.
Per te non è più questione del posto in cui stai.
Io ne faccio una questione di proiezione. Se tu mi chiedi qual è la mia ambizione in questo momento, ti rispondo che è crescere con questo club per dimostrare che possiamo arrivare a un certo livello. Poi, ce la farò, non ce la farò, ci arriveremo, andrò via, non lo so. Se mi chiedi qual è il mio livello più alto di ambizione, ti rispondo: dimostrare le mie idee sempre. Poi più c’è gente, più c’è casino, più c’è passione, più c’è importanza di club e di competizioni, meglio è. Ma non è che diventa una malattia. Non bisogna trasformare il desiderio in una bramosia, perché poi dopo vivi male. Io so che prima o poi ci arriverò, quella è la mia idea. Ci arriverò. Se non è oggi, è domani. Se non è domani, è dopodomani. Tra un mese, un anno, tra cinque anni. Tra dieci. Oppure non ci arriverò mai. Sono in pace.