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Voglio portarmi a casa l’oro
13 dic 2024
Intervista a Diego Lenzi, uno dei migliori supermassimi del mondo.
(articolo)
12 min
(copertina)
IMAGO / Icon Sportswire
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Siamo a marzo 2024, al Palazzo dello Sport di Busto Arsizio, in provincia di Varese, e sta andando in scena il torneo pre-olimpico di boxe, con in palio le qualificazioni alle Olimpiadi di Parigi dell’estate. A un certo punto, come da programma, viene chiamato sul ring l’italiano Diego Lenzi, 23 anni, impegnato nella finale dei pesi supermassimi.

Nonostante l’altezza di 185 centimetri sia sotto la media della categoria, Lenzi sfoggia 112 chili di muscoli scolpiti in un fisico statuario, impressionante. E benché la stazza sia imponente, quando il match comincia, il pugile italiano si dimostra veloce di braccia e gambe, mobile, intenso perché capace di sferrare un gran volume di colpi. Alla fine della sfida, prima dell’annuncio del verdetto, Lenzi, sfinito, incita il pubblico e si copre il viso con una mano, commosso, intuendo il risultato.

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Quando lo speaker finalmente lo nomina vincitore, Lenzi viene sopraffatto dall’emozione, si inginocchia sul tappeto del ring piegandosi in avanti, fino a trovarsi quasi sdraiato, con la faccia al suolo. Sta piangendo a dirotto.

«In quel pianto liberatorio c’era la gioia per aver raggiunto il mio obiettivo dopo anni di sacrifici e delusioni», racconta «Per un periodo avevo messo in pausa la boxe, mi ero lasciato con la mia ex, ero stanco, stressato. Quando ho deciso di riprendere ad allenarmi sono andato ai piedi del monte Cimone, la montagna più alta dell’Emilia-Romagna [supera i 2mila metri d'altezza, ndr]. Mi sono detto: voglio raggiungere la cima correndo e arrampicandomi, senza fermarmi».

«Una sfida rischiosa, che non consiglio a nessuno. Parto e, arrivato a metà scalata, sono sfinito, non ho neanche una bottiglietta d’acqua dietro, sto per rinunciare. Non so perché, ma ho continuato. Avevo la sensazione che potesse essere un momento di svolta. Allora conquisto la cima e sto per svenire, ed ecco che sento una voce che mi fa i complimenti. Mi giro e vedo Vasco Rossi, incredulo, che mi sta filmando con il telefono».

«Vasco Rossi dice: Questo ragazzo si è fatto il Cimone di corsa. Ho il video, ho le prove. E poi mi chiede: Qual è il tuo obiettivo? Io gli rispondo, di getto: Ci vediamo alle Olimpiadi di Parigi, tra due anni».

Lenzi non solo si qualifica davvero alle Olimpiadi, ma si classifica come quinto miglior peso supermassimo al mondo. Risulterà il miglior pugile italiano della spedizione. Chissà se Vasco Rossi si ricorda di quel giorno sul Cimone e ha controllato poi se quel ragazzo ce l’aveva fatta davvero ad arrivare a Parigi…

Il match con cui Lenzi si è assicurato un posto a Parigi 2024.

La solitudine è una risorsa

Il pretesto per intervistarlo è il suo esordio da professionista. Combatterà nel main event della serata Road to TAF, nuovo circuito lanciato dalla promotion The Art of Fighting per crescere giovani talenti, prevista per domenica 15 dicembre, a Milano. Lenzi è rientrato da poco dalle World Boxing Cup Finals di Sheffield, in cui era impegnato con la Nazionale. È tornato a casa con la medaglia d’argento al collo.

«Vivo ad Assisi, dove c’è il Centro Nazionale di Pugilato, ma in vista del debutto da pro ho fatto buona parte del camp alla Scuola di Pugilato Testudo di Alessio Taverniti, appena fuori Milano, con l’obiettivo di trasferirmi in città in pianta stabile a breve, salvo per i ritrovi della Nazionale», precisa.

Lo avviso che sto registrando la nostra conversazione ma che gliela farò rileggere se vorrà correggere o precisare qualcosa. Lui risponde: «Io dico sempre la verità, quindi non ci sarà niente da modificare». Lenzi si rivela un ottimo interlocutore, anche se le domande lo spiazzano non si scompone, né si tira indietro. Riflette un attimo e risponde con una parlantina sciolta, sicura, sa bene come esprimersi. E si conferma schietto, sincero.

La nostra chiacchierata parte da lontano: «Sono nato a Porretta Terme, paese da 4mila abitanti a sud di Bologna. Ho cominciato con il calcio da bambino e l’ho lasciato da adolescente, a 13 anni, dopo una lite con l’allenatore: non mi faceva giocare perché fisicamente ero infelice [corsivo mio]. Ero un attaccante basso e sovrappeso ma forte sul piano tecnico, quindi per me era un’ingiustizia finire sempre in panchina».

«Così mi sono iscritto in palestra sulle orme di mio padre, ex bodybuilder che mi ha insegnato l’importanza della cultura fisica; ancora oggi si allena tutti i giorni e rispetta la dieta. E ho iniziato a costruire il corpo tonico e muscolare che mi contraddistingue. Il pugilato l’ho scoperto verso i 17 anni: allenandomi con i pesi mi mancava il momento della competizione, della gara, del confronto con un avversario».

«Papà è stato anche un fighter dilettante di Muay thai, quindi mi ha trasmesso l’interesse per gli sport da combattimento. Ed ecco che ho mosso i primi passi in una palestra di boxe e ho scoperto di essere portato».

«Mio padre è metalmeccanico, ha una dedizione al lavoro unica. Suda in fabbrica da quando ha diciott’anni, per dieci ore al giorno e con pochissimo riposo, e non l’ho mai sentito lamentarsi. Sotto questo aspetto, è stato un esempio per me, mi ha trasmesso un forte senso del dovere. Mamma fa la barista, sono separati. Ho un fratello minore e una sorella maggiore».

Gli chiedo che rapporto abbia con i genitori. «Oddio… Né brutto né bello. Sin da piccolino sono stato tanto in giro, fuori casa, al campetto, sono portato per il basket. O altrove. A casa c’era una situazione economica difficile e credo di aver avuto bisogno di evadere. Poi, c’è sempre chi sta peggio, non voglio fare la vittima. Comunque, in famiglia non mi hanno né ostacolato, né aiutato in quello che volevo fare».

«Non abbiamo un grande rapporto affettivo, soprattutto con mio padre, che è un uomo serio, duro. Ancora oggi sono un ragazzo solitario. Non lo faccio con cattiveria o per antipatia, è la mia indole. Sono estroverso sul lavoro, quando ho i riflettori addosso, altrimenti sono riservato, preferisco stare da solo, non ho amici».

E i suoi genitori come stanno vivendo le prime avvisaglie di successo del figlio? «Quale successo? Non ho ancora fatto niente, ne riparliamo tra un paio d’anni. Comunque non saprei, penso siano contenti… Ma li vedo indifferenti, più che altro. L’altro giorno mio padre mi ha mandato la foto di una Lamborghini Urus esposta in un concessionario. Come didascalia mi ha scritto: "ce la puoi fare"».

Un’ascesa da predestinato

Gli chiedo perché o per cosa combatte, ammesso che serva una motivazione originale. «Fino a una certa età, sono stato quello basso, bruttino, sovrappeso, timido, che non considerava nessuno», replica «La boxe mi ha riscattato perché mi ha trasformato: sono diventato il ragazzo grosso, con un bel fisico, che fa a pugni e dimostra così di essere forte. Il pugilato mi fa sentire un figo, te lo dico senza ipocrisia, ed è quello che mi piace. Dopo il mio passato da ragazzino ai margini, oggi voglio essere bello, muscoloso e famoso».

«Potrebbe sembrare un discorso superficiale, ma in realtà è una presa di coscienza di me stesso, di chi ero e di chi sono adesso. So cosa ho sofferto da piccolo, ho trovato il modo di curarmi. C’è ancora qualcosa su cui lavorare, qualche debolezza o errore che potrei evitare perché sono umano, ma in futuro voglio diventare una macchina. Una macchina da guerra. I campioni e le persone di successo sono impeccabili. Si distinguono dall’uomo comune».

Come dicevamo all’inizio dell’intervista: «A 19 anni ho lasciato la boxe per un periodo, stavo con una ragazza a cui non interessava e non mi andava più di sacrificarmi, ho voluto vivere la mia età con svaghi e tempo libero. Pensavo che il pugilato non fosse la mia strada, nonostante fossi già stato convocato per qualche raduno in Nazionale. Anche perché mi sono diplomato al liceo delle Scienze Umane, ma per via della situazione economica a casa di cui ti parlavo, ho sempre lavorato, sin da ragazzino, con la legna e in fattoria».

Gli highlights della vittoria di Lenzi agli ottavi di finale delle Olimpiadi di Parigi.

«Quello che ho avuto me lo sono dovuto guadagnare, sono cresciuto in fretta, con tanta responsabilità sulle spalle. Ho 23 anni ma come vissuto mi sembra di averne il doppio. Ho poco da spartire con la maggior parte dei miei coetanei. Finito il liceo e lasciata la boxe, la mattina andavo in fabbrica, e la sera in un ristorante. Finché ho cominciato a vedere i ragazzi che avevo conosciuto in Nazionale che raccoglievano risultati importanti, e allora mi sono chiesto: loro ce la stanno facendo, perché io non posso riprovarci?».

«Così mi sono buttato a capofitto nel pugilato; per me l’ossessione batte il talento, quanto ti alleni conta di più di quanto sei portato. Ho ripreso i guantoni in mano a febbraio 2022, e non ero nessuno. Ho vinto i campionati italiani da dilettante e sono entrato nel gruppo sportivo dell’Esercito, da quel momento ho potuto dedicarmi esclusivamente alla boxe. A marzo 2024 ho strappato il pass olimpico. Oggi sono forse il pugile più conosciuto e promettente d’Italia».

«Ho svoltato la mia vita, ma sono all’1% di quello che voglio fare. Mi piace che ci siano persone sui social che mi seguono e che posso ispirare, è quello che mi è mancato da piccolo. Vorrei aiutare tanti ragazzini e contribuire alla crescita del movimento pugilistico italiano, motivo per cui ho scelto di restare qui per proseguire la mia carriera, scartando l’ipotesi di andare in America e firmando con Edoardo Germani di The Art of Fighting. Voglio essere un portabandiera e riportare questo sport ai fasti di un tempo».

Lo provoco chiedendogli se il fatto di combattere nella categoria più pesante in assoluto, che in Italia conta meno pugili rispetto alle altre, lo abbia agevolato nella sua ascesa fenomenale: «Sì, mi ha aiutato. Oggettivamente, in Italia il livello dei pesi massimi non è altissimo, quindi è più facile emergere. Credo però che ce l’avrei fatta lo stesso, ero troppo motivato a riscattarmi, la fame ha fatto la differenza. Conosco tanti pugili forti, ma nessuno ha la mia mentalità, che è quello che conta a lungo termine».

Gli domando se questa determinazione è una dote con cui è nato, o se ha dovuto coltivarla. «Sono sempre stato disciplinato, maniacale in allenamento, sin da bambino ero il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarmene dal campo, quando perdevamo le partite litigavo con i compagni di squadra».

L’importante è distinguersi

«Crescendo ho capito cosa significa essere un atleta, è uno stile di vita, non solo un lavoro. Ma per me non è un sacrificio, perché non so farne a meno. Ad esempio, adesso che si avvicinano le festività mi sento male, è un periodo che non mi piace, perché le palestre chiudono e allenarsi è più difficile. Sono sempre attivo, pure di domenica, il giorno di riposo non esiste. Non ho bisogno di ferie o di staccare la testa, anzi, se lo faccio poi perdo motivazione e mi distraggo».

«Mi sento a mio agio in palestra o a cucinare il riso con il petto di pollo; al ristorante, in pubblico o in mezzo alla gente, no. La mia fidanzata, Jennifer, è una santa a sopportarmi. È una malattia? Non lo so, e anche se fosse, mi sta portando dove voglio andare. Io sto bene così».

Se anche voi siete tra quelli che pensano che i pesi massimi non rispettano una dieta, Lenzi ha qualcosa da dirvi: «Devo stare attento a cosa mangio, ancora più di tanti colleghi di categorie di peso leggere, anche per via della mia corporatura. Sono brevilineo e ho una boxe fatta di riflessi, movimento, che ho sviluppato lavorando molto sulla mobilità, sulla forza e sul condizionamento, oltre che sulla prevenzione degli infortuni. Insomma, non posso essere troppo pesante».

«Per questo e per altri motivi, sono un peso massimo atipico: il mio stile sul ring è camaleontico, mi piace andare contro i classici dogmi della boxe. Colpisco, poi schivo a braccia basse, gioco di rimessa, scambio a viso aperto, faccio come mi sento, dipende dalla situazione, dall’avversario e dalla strategia. La varietà del mio repertorio è un’altra caratteristica che mi dà una marcia in più. Un grande gap da colmare, invece, è quello dell’esperienza. Credo sia l’unica lacuna, il tassello mancante».

«Ho 42 incontri da dilettante, alle Olimpiadi trovi gente che ne ha due o trecento, se non di più. Ecco perché debutto da professionista, voglio combattere il più possibile. Ma mantengo il focus anche su Los Angeles 2028, perché voglio portarmi a casa l’oro. A qualunque costo».

Anche su YouTube, Lenzi è piuttosto sicuro di sé.

Presente e futuro

Gli chiedo delucidazioni su come sia possibile dedicarsi a due carriere così diverse in contemporanea: «Non conosco i dettagli, ma il regolamento lo consente. Alle Olimpiadi partecipano e vincono pugili che hanno dieci o quindici match da professionista, e contratti con management importanti».

A proposito di Olimpiadi, gli chiedo come ha vissuto la vicenda tra Angela Carini e Imane Khelif, e quella degli ultimi giorni tra Carini e Irma Testa. «Come ti dicevo prima, sono un ragazzo solitario, anche in Nazionale. Non ho antipatie verso nessuno, anzi, vado d’accordo con tutti e partecipo a raduni, cene, eccetera. Ma resto fuori da certi temi superficiali, compresa la questione di Khelif. Non ho un’opinione in merito, non mi interessa, penso solo al mio percorso. Mi dispiace ci sia stato questo botta e risposta tra compagne di squadra ma, ripeto, sono concentrato su altro».

In chiusura passiamo all’appuntamento che lo attende al Road to TAF, contro Georgija Stanisavljev, collaudatore serbo che però cercherà il colpaccio; i primi match da professionista si disputano sempre contro pugili abbordabili, anche se sul ring nulla è scontato. «Combattere da pro sarà la mia dimensione ideale, con guantoni più piccoli e più round a disposizione: sono un diesel, ci metto sempre un po’ a carburare. Per questo ho scelto di debuttare sulle sei riprese, al posto delle canoniche quattro. Le mie doti risalteranno, soprattutto velocità e potenza. L’avversario è uno tosto, viene per vincere, non lo sottovaluto».

«Vi divertirete. Il mio pronostico è una vittoria per KO con un montante destro al mento, alla Mike Tyson. E presto vado a prendermi il titolo italiano».

L’ultimissima domanda è sui suoi colleghi: «Pugili italiani che mi piacciono… non saprei, non ne seguo molti… Dario Morello per l’intelligenza e la dialettica, Jonathan Kogasso per lo stile di boxe preciso e composto, Akrem Aouina, spettacolare e bello da vedere, e Momo Elmaghraby per la cattiveria e determinazione. Nel mondo, Gervonta Davis come personaggio, e Canelo Alvarez come pugile. E fra qualche anno, penso che l’uomo da battere per me sarà Daniel Dubois, che nel frattempo mi aspetto avrà conquistato il trono dei pesi massimi».

Come Vasco Rossi quel giorno sul Cimone, anche a noi non resta che aspettare e vedere se le ambizioni di Lenzi si concretizzeranno. Per il momento non c’è ragione per non credergli.

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