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Il cazzotto è il premio
15 ott 2024
Intervista ad Emiliano Marsili, ritiratosi poche settimane fa.
(articolo)
15 min
(copertina)
IMAGO / Pacific Press Agency
(copertina) IMAGO / Pacific Press Agency
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Quando ci incontriamo in un bar nel centro di Civitavecchia, la mia ma anche la sua città, sta piovendo tutto il cielo, ed Emiliano Marsili non è già più un pugile da una settimana, ammesso che si possa mai smettere, di essere un pugile. Nel locale risuona una cumbia, Emiliano sembra scrutarmi come fossimo sul quadrato: ascolta le domande, studia la situazione. Ha idealmente la guardia alta, saltella. Poi scarica una gragnuola di parole.

«Disputare l’ultimo incontro a casa mia, con quella tifoseria, al porto, il posto in cui vado tutti i giorni a lavorare… embè, è stata una sensazione bellissima». Una settimana prima del nostro incontro Marsili è salito per l’ultima volta sul ring, allestito a Piazza della Vita, lo slargo che domina il lungomare di Civitavecchia, giusto alle spalle di Forte Michelangelo, per un incontro che è stato, innanzitutto, una celebrazione della sua carriera incredibile: 44 incontri, quasi da imbattuto (42 vittorie, un pareggio e l’unica sconfitta avvenuta, di fatto, per ritiro - un ritiro dettato da un infortunio all’ottava ripresa di un incontro che si stava aggiudicando ai punti).

Al suo ingresso sul ring hanno sfilato tutte le corone conquistate. Poi Marsili ha fatto il suo ingresso, con un’espressione effettivamente un po’ nervosa, abbracciato a Federico Zampaglione, l’ex frontman dei Tiromancino, suo grande amico. «Io do consigli a lui sulla musica e lui a me sul pugilato, sta a rota di pugilato [cioè, in romanesco: è fissato], sempre sul computer a studiare pugili, io neppure li conosco e lui ti dice che stile c’ha e che stile non c’ha». Ad accompagnare l’ingresso – premonitoria, didascalica – suona “Molo 4”, la canzone dei Tiromancino che dice «la nave parte per un altro viaggio / urla la bufera come un’anima in pena / anima di chi parte, anima di chi resta / se ci sarà un ritorno si farà una festa».

Ritorno. Festa. Il presentatore della serata è Maurizio Mattioli. A bordoring, per commentare il match, Patrizio Oliva. Tutto intorno, molti, moltissimi civitavecchiesi, a restituire al pugile l’affetto per aver portato il nome della città in giro per il mondo.

«Ero teso, certo: ma solo fino a quando è suonato il gong del primo round. Lì ho visto l’avversario, ho capito subito che potevo controllarlo e gestirlo. Che le reti le tiravo io. Che avrei potuto decidere se chiuderla subito, o portare l’incontro fino alla fine, al decimo round». L’avversario, nella fattispecie, era il colombiano Eber Tobar, di trent’anni più giovane di lui. Gli chiedo se lo conoscesse. «A me non interessa guardare l’avversario. Mi basta un minuto, quando sono sul ring, per inquadrarlo, per capire cosa fare e cosa non fare». E che hai capito?, gli chiedo. «Che era un ragazzo giovane, con una sola sconfitta nello score, mica da sottovalutare. Poteva pure provarci, giocarsi, che ne so, cinque round con un minimo di rischio. Però l’ho tenuto subito a bada, gli ho fatto capì che comannavo io».

Emiliano condivide il cognome con un vulcano sommerso ritenuto, potenzialmente, tra i più pericolosi d’Europa. Il Marsili, per l'appunto, chiamato così in onore dello scienziato italiano del diciottesimo secolo Luigi Ferdinando Marsili. Un colosso di tremilametri che giace sepolto al largo della costa tirrenica, e che se decidesse di eruttare, semplicemente, provocherebbe un disastro. Mi sembra una metafora interessante, che racchiude il senso di potenzialità inespressa del pugile che ho di fronte. Vulcano, in fondo, ci si nasce. Ma come si acquisisce la consapevolezza di poter (di voler?) deflagrare? «Ho sempre sentito che era questo il mio destino», mi dice Emiliano. In un documentario del 2017 di Alessio Di Cosimo, che si chiama Tizzo: storia di un grande campione, c’è una scena in cui la madre racconta di quando, da ragazzino, un amichetto gli ha proposto di fare la lotta. Hanno lottato, ed Emiliano ha vinto. Erano gli inizi degli anni Novanta, il momento in cui per la prima volta si è affacciato in una palestra e ha conosciuto l’odore del sudore, dei sacchi, della fatica, del sacrificio. «Ho sempre avuto una dote: sapermi muovere con le gambe. Mi muovo tantissimo, è istintivo. Tu fai una mossa, e io con le gambe già sono entrato, ti ho fatto una mossa e sono uscito. Poi mi hanno insegnato a tirarci i colpi sopra, ma questa dote della rapidità ce l’ho sempre avuta innata».

Marsili si è sempre sentito un predestinato. «Quando ero un ragazzino sono andato, come andavo sempre, alla Befana del Portuale», mi dice. Il padre di Emiliano lavorava alla Compagnia Portuale cittadina, lo chiamavano “Tizzo”, come il carbone ardente, per via della carnagione scura. Un soprannome che sarebbe rimasto. «E c’era quest’uomo che distribuiva i numeretti da estrarre a sorte per ricevere un regaletto. Prendo il numero e cosa mi tocca? Un paio di guantoni con un sacchetto. “Ma guarda che era solo ‘na prova”, mi dice questo. Ci resto malissimo. Allora l’uomo inguatta sto regalo [cioè: lo mette da parte], estrae tutti gli altri numeretti e alla fine me li dà a me, sti guantoni».

(Devo aprire un inciso, perché questo racconto di Emiliano mi ha sbloccato un ricordo personale. Anche mio nonno, che si chiamava Pietro, negli anni Cinquanta lavorava alla Compagnia Portuale. Poi si è preso il Parkinson, pian piano ha smesso di lavorare. Ma la Compagnia ha sempre avuto una politica assistenzialista molto forte. È stato operato più volte al cervello, una di queste sotto le feste natalizie. E ascoltare le parole di Emiliano mi ha fatto ricordare una storia che mi raccontava sempre mia madre, e cioè che a una di queste Befane del Portuale, immagino a ridosso dell’operazione, le era capitato di vincere un fucile, ed era tutta contenta perché con quell’arma avrebbe sparato ai dottori che avevano operato il suo papà).

Alla predestinazione non ci si abitua mai: al primo combattimento la madre si è sentita male. Voleva che perdesse, così non avrebbe combattuto più. E invece ha vinto, perché in fondo Emiliano è sempre stato un bravo pugile, capace di bruciare le tappe: in rapida successione è diventato campione regionale, interregionale, nazionale.

In una scena del documentario il maestro Peris dice all’Emiliano ragazzino «guarda che è un sacrificio, tutta la vita a pijà cazzotti. Ma va a giocà a pallone». Emiliano gli risponde «la mia vita è sul ring, e non la cambierò per niente al mondo». «Per me questo sport è vita, è amore, è tutto», mi dice. La faccia con cui me lo dice è di chi ci crede davvero. Ma Emiliano Marsili, poi, la sua vita, se l’era immaginata così? «Sono passato tardissimo ai professionisti», mi dice. «A ventisette anni. Il maestro [Mario Massai] si occupava dei professionisti, mi aveva messo da parte, mi sentivo in ombra. Avevo pure lasciato, per due anni, dopo la morte di Peris. Era una vita che facevo la seconda serie, mi stavo stufando». I professionisti cui si riferisce Marsili erano i fratelli Branco, Silvio e Gianluca: Silvio, “Il Barbaro”, è stato campione del mondo WBA e Silver WBC per la categoria dei mediomassimi; Gianluca, il fratello di Silvio, è stato due volte campione d’Europa per i superleggeri. «Mi sono trovato abbandonato, da solo, per dieci anni. Sarei potuto tranquillamente diventare professionista a vent’anni. Di magone ne ho avuto tanto». La svolta nella sua carriera è avvenuta quando il promoter Franco Cherchi l’ha preso sotto la sua ala, inserendolo nella sua scuderia, organizzando gli incontri che sarebbero serviti per il passaggio di categoria. «Se non ci fosse stato lui avrei mollato».

Condividere la palestra con campioni di quel calibro, per quanto possa aver ostacolato o ritardato la sua esplosione, è anche stata la sua più grande fortuna: «Sono stato fortunatissimo ad avere, in quel momento, Gianluca, Silvio, ma anche Sandrino Casamonica e Stefano Zoff che si allenavano a Civitavecchia. Con loro sono cresciuto tantissimo, facendo guanti con loro ho maturato tutta l’esperienza e la determinazione di cui avevo bisogno… Ho rubato qualcosa da ognuno e l’ho messa insieme per diventare il pugile che sono. Da Sandrino la tecnica, da Zoff il ritmo e l’incrollabilità. Oggi non ci sono più palestre con dentro campioni, questi ragazzi come fanno senza qualcuno da imitare, senza un punto di riferimento, senza poter rubare i segreti di come ci si allena o di come si porta un colpo? Come lo fanno, il salto di qualità?».

«Da Silvio, invece, ho rubato l’intelligenza, la furbizia. Il calcolo». Marsili non è mai stato un pugile irruento. Sul ring lavorava di testa, sulle distanze, sui movimenti. Una boxe, la sua, per sua stessa ammissione, «più simile alla scherma». «Nella scherma, come nel pugilato, è tutta questione di come muovi le gambe. E poi c’è un momento in cui intuisci che è l’attimo giusto per portare il colpo e tornare indietro. Non è tanto questione di sferrare il colpo nella testa prima che letteralmente, ma di capire il momento morto dell’avversario, che è poi quello giusto, per te, per affondare». «Tra i dilettanti, alla fine», mi fa notare «non conta buttare al tappeto l’avversario: basta toccarlo».

Ho come l’impressione che il pugilato, per Marsili, sia innanzitutto il suo aspetto cerebrale. Un combattimento psicologico, prima che fisico. Una questione di prendere le misure, senza farsi fagocitare dalla fretta, dalla rabbia, dall’irruenza. Parlando di Tobar, l’ultimo avversario, mi dice «potevo chiudere il match quando volevo, ma farmi vedere bello dal pubblico non sarebbe servito a niente. Potevo, però, dargli una lezione: fargli capire come funziona il pugilato, come si paga ogni errore. Ha sbagliato e l’ho mandato a terra, l’ho fatto rialzare, gli ho fatto capire tante cose: cosa significa incrociare i guantoni con un campione, cosa significa fare pugilato».

Gli chiedo se abbia mai avuto l’impressione che qualcuno, con lui, durante la sua carriera, stesse adoperando la stessa cortesia di dargli una lezione. «No», risponde secco. «Però vedi che ci sono stati incontri in cui ho dovuto tirà fuori unghie e palle per poter accappottare il match per davvero».

Uno degli incontri più iconici di Emiliano, in effetti, è stato uno di questi in cui ha dovuto tirar fuori le unghie, ribaltare i pronostici, farsi unsung hero: lo scontro per la corona mondiale IBO (International Boxing Organization, una promotion statunitense) a Liverpool, contro Derry Matthews, nel 2012.

«Siamo entrati tra i fischi, gli sputi e i lanci di monetine, la bandiera strappata», mi dice la moglie Stefania, che è anche la sua manager. Marsili era lo sfavorito per eccellenza, quotato 15:1 dai bookmaker. Dalla sua parte non aveva neppure la FPI (Federazione Pugilistica Italiana), che è affiliata all'IBA, International Boxing Association, cioè l'associazione mondiale che gestisce la boxe professionistica e amatoriale riconosciuta dal CIO. Il giorno prima dell’incontro, subito dopo la cerimonia del peso, la FPI lo ha quindi chiamato per intimargli di non combattere, pena la radiazione. «Non volevano la [cintura] IBO in Italia», mi dice. «Io gli ho risposto che mica mi potevo ritirare, non mi avrebbero neppure pagato la borsa né pagato il biglietto di ritorno. Sono in ballo, balliamo. Fai finta che non ci siamo neppure sentiti, guarda, ho detto a questo al telefono: poi, al mio rientro, vediamo che succede». In quell’occasione, attorno a lui, si erano chiusi a riccio non solo la moglie, il preparatore Gino Lauro e il maestro Mauro Massai, ma anche una quarantina di portuali che si era portato al seguito. «C’è toccato fuggì quella sera», mi dice Patrizio Scilipoti, che oggi di quella Compagnia Portuale è presidente. «Gajardo, però, no?», gli fa eco Marsili.

L’incontro, durissimo, si è protratto fino al quinto round. Marsili, con la guardia stretta, cercava di attutire come poteva i colpi di Matthews. Poi, nella ripresa successiva, «come in un film» dice Scilipoti, Marsili si è risvegliato, come un'eruzione. Ha iniziato a portare una serie di montanti che hanno fatto breccia nella guardia dell’inglese, si è insinuato sempre più violentemente, sempre più costantemente: e così lo ha mandato al tappeto, e nella settima ripresa si è aggiudicato l’incontro per KO tecnico. «Il montante al fegato è il colpo del mancino», mi dice. Riconosce che è quella, la sua signature move. «È micidiale, ti leva il fiato». A Liverpool gli ha fatto conquistare il titolo. «È finita come nessuno poteva aspettarsi: tra gli applausi», chiosa il racconto la moglie Stefania. Nelle immagini immediatamente successive alla fine del match, Marsili sembra De Niro in Toro Scatenato. Matthews gli alza il braccio. È, effettivamente, una scena da film.

Dopo quell’incontro, a Marsili è toccato scontare una squalifica di due mesi da parte della Federazione per aver combattuto nonostante la raccomandazione a non farlo. Ma Marsili non ha rimpianti: rifarebbe tutto da capo, nella stessa maniera. Anche rifiutare una partecipazione ai Giochi Olimpici. «Mi avevano concesso l’opportunità di partecipare nel 2016, ma non me la sentivo. Pensavo fosse giusto che ci andasse un giovane». All’epoca Marsili aveva trent’anni, eppure nella spedizione azzurra c’erano Clemente Russo, che di anni ne aveva 34, e Giuseppe Giordano, 42. Si sarebbe potuto giocare la sua chance di diventare il secondo civitavecchiese medagliato. Nel 1928, alle Olimpiadi passate alla storia per la prima partecipazione delle donne nell’atletica, i Giochi di Paavo Nurmi e di Johnny Weissmuller, l’oro per la categoria gallo nel pugilato se lo è aggiudicato, in effetti, Vittorio Tamagnini, detto – anche lui – “Tizzo”, diciassettenne. “L’uragano di Amsterdam”.

Nessun rimpianto, allora, nella sua carriera? «Guarda, forse l’unico errore che ho fatto nella mia carriera, l’unico di cui mi pento», mi dice «è stato rinunciare al match per il mondiale WBC contro Zlaticanin». Si sarebbe dovuto svolgere nel 2016, a New York. A quel punto Marsili aveva già conquistato la corona europea dei leggeri contro Luca Giacon, uno degli astri nascenti all’epoca, che a ventitré anni aveva disputato 23 match, 22 dei quali vinti per KO. Insieme all’incontro con Matthews, quello che lo ha visto sfidare Giacon rimane, nella memoria di Marsili, uno dei migliori. Anche in quell’occasione lo davano tutti per spacciato, qualcuno gli ha persino detto: annate a dà fòco al ring così nun pò combatte. E invece lo ha mandato al tappeto già alla prima ripresa, altre due volte al secondo round: ogni volta che Giacon si faceva sotto Marsili lo stendeva. Alla fine l’arbitro glielo ha dovuto togliere dalle mani, decretando il KO tecnico. Dopo Giacon ha difeso il titolo europeo altre due volte. Ma il Mondiale era il suo sogno.

«Però non stavo bene veramente. Ci sarei potuto andare lo stesso, però sai cos’è? Stai andando a fare un WBC, in America, mica se scherza. Avrei voluto essere al 100%, ma non ero al pieno della forma. Se avessi vinto il WBC sarei stato er supercampione, avrei vinto tutto, sarebbe stata la conferma di tutto». Per un attimo ripensa all’avversario, e torna ad affiorare il rimpianto. «Era bòno, ma non imbattibile».

Per quanto possa averla accarezzata, l’affermazione per Emiliano Marsili non è mai stata davvero un movente. Boxare, per lui, è sempre stato l’esercizio letterale della nobile arte. «Ho sempre vissuto tutto nella posizione dello sfidante, mai da campione: eppure mi sono allenato sempre al top, considerando ogni match come se fosse un semplice match, senza starmi a fare troppi piani. Ogni match si fa ripresa per ripresa, non ci sono pianificazioni che reggano. Puoi farti i piani che ti pare, ma spesso zompano pell’aria prima di subito». Sognare, però: ha sognato. «Mi sarebbe sempre piaciuto combattere con Mayweather: per come boxa, per la presunzione che c’ho e pure pe pijà du sòrdi. Imbattuti entrambi, zero io e zero lui…».

Una volta Primo Carnera ha detto questa frase: «I pugni si danno, i pugni si prendono. Questa è la boxe. Questa è la vita. E io nella vita ne ho presi tanti di pugni, veramente tanti, ma lo rifarei: perché tutti i pugni che ho preso sono serviti a far studiare i miei figli». L’etica del sacrificio necessario per scendere a patti con la vita ammanta molte storie di boxe: quella di Emiliano Marsili, in particolare, affonda tutta la sua mistica nel profondo legame tra la nobile arte e quello che Emiliano è al di fuori del ring, cioè un portuale. «Ho avuto la grandissima fortuna di poter associare sport e lavoro, di avere il sostegno della Compagnia Portuale nei momenti opportuni: di poter accantonare una cosa per dare priorità all’altra». Emiliano Marsili ha portato alla ribalta il ruolo del camallo, dello scaricatore di porto sul ring, perpetuando la narrazione del portuale forte, fisico, rude, capace di sollevare con un solo braccio un quintale, ma allo stesso tempo con un cuore grande così. Nel documentario Marsili dice che quando stacca dal lavoro, e va in palestra ad allenarsi, in realtà non aggiunge fatica alla fatica, ma si ricarica, si «rimette al mondo». Le immagini lo vedono salire sul muletto, trasportare cassoni piene di valigie di turisti pronti a imbarcarsi per le crociere che da Civitavecchia salpano. Non è andato in America, Marsili: ma in qualche modo, l’America viene da lui tutti i giorni.

«Se guardi i film c’è sempre un pugile che fa un lavoro pesante fuori dal ring. Guarda Rocky, che prendeva a pugni i quarti di manzo. I portuali sono quel tipo di persone: pensa nelle navi di carbone, di cromo, tutto il giorno a spalà, a cosà. Ti fa le ossa. Ti fa tutto». Peppe Peris, il suo maestro storico, «il maestro di tutti, qua a Civitavecchia», sottolinea, in fondo, era un portuale. E Vittorio Tamagnini, “l’uragano di Amsterdam”, il campione olimpico del 1928: pure.

Nonostante abbia appeso i guantoni al chiodo, Emiliano Marsili sa che non riuscirà mai ad allontanarsi dalla boxe. «Come fai quando ce l’hai nel DNA?», mi dice. Ha preso i brevetti da insegnante, e Stefania ha fatto l’esame da manager. Vogliono creare una loro scuderia, ma soprattutto aprire una palestra in cui insegnare ai ragazzini che vogliono avvicinarsi alla boxe ad allenarsi e a soffrire, a faticare. Un posto in cui «il cazzotto è il premio, ci si deve arrivare con i tempi giusti. La fretta e la spavalderia non servono, sul ring. Sai quanti ne ho conosciuti, di colleghi coattini che volevano mangiarsi il mondo? Non sono mai diventati pugili. I coatti hanno fatto, e coatti sono rimasti». Una palestra che sappia portare avanti una tradizione che va da Vittorio Tamagnini a Emiliano Marsili: «Centoventi anni di storia che non possiamo permetterci di buttare via», dice.

Un posto in cui si insegni a saper aspettare, a non farsi fagocitare dal tutto e subito. D’altronde chi meglio di Marsili potrebbe impartire un insegnamento del genere?

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