Fabio Fognini ha trentacinque anni e non troppo tennis davanti a sé. Prima di ritirarsi vorrebbe vincere un ultimo torneo, ed eguagliare così Adriano Panatta e i suoi dieci titoli diventando, almeno per ora, l’italiano più decorato nella storia dell’ATP.
Di Fognini si è parlato tanto negli anni, e forse i meno attenti lo conoscono più per le sue sfuriate e per un carattere definito difficile che per i suoi meriti tennistici. Eppure Fabio è stato l’unico tennista italiano, uomo, capace di vincere un torneo Master 1000 (Montecarlo 2019) e ha regalato al nostro tennis alcune delle più memorabili vittorie di tutti i tempi, certamente dell’epoca moderna. Quella in rimonta da sotto due set a zero contro Nadal allo US Open 2015, forse la più importante in assoluto.
Fognini è, ed è stato, uno dei tennisti più talentuosi della sua generazione secondo tutti gli addetti ai lavori, e spesso è stato accompagnato dal ritornello che recita “con un’altra testa avrebbe potuto vincere di più”.
L’inizio della sua stagione tennistica è stato senza mezzi termini negativo, e noi abbiamo avuto l’opportunità di parlarci in un momento della sua vita sportiva che lui stesso non ha esitato a definire buio. Fabio si trovava a Lisbona, dove stava preparando il torneo di Estoril, il primo della stagione europea sul rosso.
Come ti senti, come stai fisicamente?
Bene, dai. Mi alleno per raddrizzare questa annata per il momento negativa, vediamo se la terra mi aiuterà, ma fisicamente sto bene. Mi sono dedicato ai miei acciacchi, che si sentono sempre di più ma su cui abbiamo fatto un lavoro molto solido. Dopo l’Australia ho recuperato bene dal dito del piede rotto, poi però ci sono le caviglie che ovviamente vanno sempre tenute d’occhio. Anche dopo l’operazione rimangono il mio tallone d’Achille, però adesso spero che mi daranno meno fastidio giocando sulla terra.
[In Portogallo, Fabio avrebbe poi perso negli ottavi di finale in un derby italiano contro Cecchinato, portato a termine nonostante un infortunio alla caviglia che l’ha pesantemente condizionato. Infortunio che, purtroppo, lo costringerà a saltare Montecarlo.]
Io scivolo anche sul cemento e tutto questo scivolare e ripartire, scivolare e ripartire, gli appoggi…le articolazioni ne risentono. Sono sempre stato uno che a livello fisico deve stare in una certa maniera, quando è in campo. Non sono alto un metro e novanta, non posso scendere in campo non al meglio e cavarmela col servizio e la potenza. Stare bene fisicamente è fondamentale per me, e sotto questo punto di vista l’ultimo periodo non è stato dei migliori. Ora però sto bene, mi sto allenando bene. Ho fatto una preparazione mirata con un occhio di riguardo per questa parte di stagione che per me è sempre stata importante.
Sono molto autocritico e di indole abbastanza negativo, ma ora devo essere positivo. A livello di risultati c’è già tanta negatività, devo cercare di invertire la rotta e tirarmi fuori da questa situazione il prima possibile.
Due settimane fa eri in Sudamerica, la scorsa a Miami, ora in Portogallo. Com’è questa vita?
È una vita bella, ma è anche difficile. L’ho sempre detto, anche se può suonare male: spero che mio figlio non giochi a tennis. Perché so quello che ho fatto io, i sacrifici che ha fatto mio papà… non che io non sia disposto a farli per i miei figli, ci mancherebbe, però allo stesso tempo è dura, perché se vuoi provare ad eccellere, nel nostro sport ci devi mettere tanta dedizione. Magari è un aggettivo che può sembrare forte: “duro” è svegliarsi alle 4 del mattino e andare a lavorare. La nostra è una vita molto bella, ma ci sono mille difficoltà. Stare da soli, lontano da casa e dagli amici, i viaggi, la stanchezza, il fuso orario: ci sono tantissimi momenti che gli appassionati non vedono. Lo sanno quelli che ci stanno vicino, chi ci segue, quanto sia duro. E a queste cose ti devi abituare già da quando sei piccolo.
Poi per carità, mi auguro che i miei figli facciano quello che vogliono e non li forzerò in nessuna direzione, ma questa è una vita dura. Allo stesso tempo so che siamo molto fortunati. Io, alla fine, nella vita ho fatto di uno sport un lavoro, e riuscire a guadagnarsi da vivere in questo modo non è da tutti ed è un privilegio.
Tu da giovane hai lasciato casa presto e sei andato in Spagna. Come mai?
Per il mio carattere, ho sempre fatto fatica a crescere in Italia. La Federazione qui mi ha sempre aiutato - economicamente, come opportunità e sotto tanti punti di vista - ma a un certo punto sentivo che la mia mentalità era diversa, che non venivo capito. A 18 anni ho detto: “mamma, papà, vado via, vado in Spagna”. E la Spagna è diventata la mia seconda casa. C’è gente che vuole rimanere in Italia, ma non era il mio caso e col senno di poi lo rifarei altre dieci volte. Non perché non volessi stare in Italia, anzi. Fino a 16/17 anni mi sono allenato a casa mia, però quando ho voluto fare il passo successivo, sentivo di doverlo fare all’estero. E in Spagna, ai tempi almeno, si lavorava in modo diverso a livello sportivo. La Federazione da noi ha sempre supportato tutti i giocatori, ma mancava una base tecnica che invece adesso è presente. Si è investito molto sotto questo punto di vista, e credo che i risultati lo dimostrino. I risultati adesso ci sono, perché si fa quello che mancava ai tempi.
C’è qualcuno in particolare tra i giovani emergenti in cui ti rivedi? Ti piace la nuova generazione di tennisti?
Mi piace e mi rivedo in alcune cose in Lorenzo [Musetti], con lui ho un bel rapporto e un feeling speciale, ci alleniamo spesso insieme. Lorenzo ha molta facilità e tante soluzioni di gioco, ma capita anche che si ingarbugli da solo, come me. A volte entrambi facciamo fatica a tornare alla base, alle nostre sicurezze, e a essere solidi. Avere tante soluzioni può essere un qualcosa che diventa difficile gestire.
Sulla nuova generazione che dire, quando sono entrato nel circuito 15 anni fa, c’era più umiltà. Si portava più rispetto. Tanti giovani adesso mi sembrano… aggallati. Questo rispetto se lo sono guadagnati in campo, ma fuori dal campo mi sembra che si sentano talmente in una bolla di sapone, che mi verrebbe da prenderli per le orecchie e dirgli: ciccio, stai calmo! Ci sono tanti giovani un po’ sbruffoni, ecco. I pischelli di oggi, che dopo due game ti fanno “c’mon” e ti mostrano il pugno in faccia… è una cosa che odio, con tutto il mio cuore. Non la concepisco.
Quanto tennis guardi? Recentemente hai detto “il tennis di oggi non mi piace, non lo guarderei, se non giocassi”.
Quando sono a casa guardo tennis, sì, ma non in maniera eccessiva. Ne guardano molto di più mia moglie, mio papà e mio cognato, ad esempio. Io sono uno che, quando non è in campo, “stacca”. So i risultati, sono sempre aggiornato, ma non guardo tante partite in ogni torneo, ecco. Ho altro da fare e mi piace fare altro. Vorrei avere più tempo per i miei figli, per me stesso e per mia moglie, visto che nel giro di sei anni la nostra vita è cambiata in maniera totale.
Le mie parole credo che siano state prese un’altra volta in modo forte. Dico che “non mi piace” perché io, che sono di un’altra scuola, non mi diverto molto a vedere la nuova generazione e come gioca a tennis. Può darsi però che il problema sia io, che per vari motivi mi sento un po’ distante da questi ragazzi, e forse non li capisco. Era questo che volevo dire, sono stato frainteso.
E in campo, senti di essere stato frainteso tante volte dal pubblico?
Sono consapevole che non posso piacere a tutti. Ma la cosa più importante, l’ho sempre detto e lo ripeto, è che il giorno in cui Fabio Fognini chiuderà la carriera, magari avrà qualche recriminazione, sì, ma ne uscirà a testa alta. Per la splendida carriera che ha avuto, e perché non è mai cambiato.
A cosa ti riferisci?
Sono sempre rimasto me stesso, a prescindere dai risultati, dalla popolarità, dalle notizie, da tutto quello che avevo intorno. E di questo sono orgoglioso, perché secondo me è importante. Penso che puoi essere Valentino Rossi, il numero uno al Mondo sulle moto, oppure Michael Jordan, Tiger Woods… ma se queste cose ti cambiano, mi scadi un po’ come persona. Fare dei nomi non sarebbe giusto, ma penso che molti miei colleghi siano cambiati col successo, ed è una cosa molto triste.
Dicevi: “avrò qualche recriminazione”.
Devo essere sincero, rifarei tutto quello che ho fatto, non ho rimpianti. Ho fatto i miei sbagli, come chiunque, e ne sono consapevole. In alcuni casi, certo, alcune cose forse le farei in maniera diversa, come penso chiunque potendo tornare indietro, ed eviterei qualche comportamento sopra le righe. Ma sono stati tutti motivi di crescita interiore ed esperienze di vita. Credo che gli errori facciano parte della vita. Senza errori non si cresce.
Succede spesso, però, nello sport in generale, che i tifosi fatichino a capire, in un certo senso a perdonare, gli errori e le sconfitte. Cosa ne pensi?
Parlavo di questa cosa con Bobo Vieri quando ci siamo visti a Miami. Lui mi parlava del pubblico di San Siro, di cosa voglia dire giocare davanti a 80mila persone. Se sbagli un gol, o una giocata, il pubblico inizia a fischiarti. E se non hai un carattere forte, puoi uscire da San Siro che non sai dov’è la palla, non riesci a giocare, sbagli passaggi di un metro, non riesci a fare un lancio, lisci gli stop… È difficile, è molto difficile giocare in questo tipo di palcoscenici. Devi essere pronto. Anni fa, ad esempio, io non ero pronto a capire i tifosi.
Il pubblico degli Internazionali di Roma, per esempio?
Sì, e quello di Roma è un pubblico particolare, che probabilmente il Fabio Fognini del tempo non era pronto ad accogliere, a metterselo sulle spalle e portarlo con sé. Con Roma, soprattutto da giovane, ho avuto un rapporto di amore-odio.
Io sono sempre stato uno a cui piace giocare nei grandi stadi, con giocatori forti, con il tifo. Mi ha sempre gasato. Il pubblico di Roma poi è uno dei più belli in assoluto. I tifosi che parlano la tua lingua, ti conoscono, vogliono il meglio di te…giocare a Roma non ha prezzo. D’altra parte, però, tutto questo ti può anche giocare contro. Possono ucciderti. Sei talmente teso e vuoi talmente fare bene, che puoi fare fatica, ed è una cosa che mi è successa in passato. E non capivo perché loro non mi supportassero quando ero in difficoltà, quando ne avevo realmente bisogno. Questo amore-odio c’è stato per parecchio tempo. Poi, credo che ci siamo capiti e soprattutto che mi abbiano capito. Allo stesso tempo, probabilmente anche io ho imparato ad accettare che il pubblico avesse delle aspettative, quasi delle pretese, nei miei confronti.
Io sono sempre stato uno molto irascibile, che ci mette grande passione, e questa cosa è venuta fuori soprattutto quando le cose andavano male. Mi frustravo, mi incavolavo, spaccavo una racchetta, bisticciavo con qualcuno... Ma non c’è un giusto o uno sbagliato, ognuno ha le sue maniere di esternare e di soffrire nel non riuscire.
“Soffrire nel non riuscire”: quanto ti fa star male?
In particolare in questo periodo, che sono nella parte finale della mia carriera, sto soffrendo molto il non vincere partite. Mi fa star male. Io voglio vincere il più possibile, fa parte del mio lavoro. Migliorare la classifica, guadagnare soldi, trovare più autostima e convinzione… è un po’ come a scuola, quando ti senti pronto per un compito di storia, geografia o matematica, e vuoi farlo nel miglior modo possibile.
In questo momento sento che ho tanta voglia, sono molto attaccato a quello che voglio fare, forse anche troppo: perché poi penso che dovrei lasciare andare di più le cose. Sto colpendo la palla bene e mi sto allenando altrettanto bene, mancano un po’ i risultati per farmi tornare quella confidenza che mi lascia giocare tranquillo e che soprattutto non mi fa pensare. Spesso il miglior tennis uno lo gioca quando riesce a non pensare, e ad essere totalmente presente nel momento.
Credo che se mantieni la giusta mentalità, comunque, prima o poi il risultato arriva. Chi mi conosce sa che ci provo sempre, indifferentemente nel singolo e nel doppio, anche quando non mi sento bene con me stesso. Perché, quando vai in campo, non ti senti sempre bene. Le partite belle, le giornate in cui ti senti il Federer della situazione, in un anno le puoi contare sulle dita di una mano. E per me è un valore molto, molto importante, provarci sempre, trovare il modo migliore per stare in campo anche quando non stai come vorresti.
Negli anni ho capito che nel tennis la componente psicologica è forse quella principale. C’è un enorme carico di tensione, e se si vuole eccellere, la mente fa tanto e soprattutto la mente mente, quindi devi allenarla. Come se fosse un muscolo, devi trovare la maniera. In passato pochi hanno allenato la mente come avrebbero potuto, ma secondo me è una cosa importante e oggi ci si lavora maggiormente. Io ho seguito sempre di più un certo tipo di allenamento mentale, se lo si può chiamare così, anche per l’esigenza di uscire da certe situazioni.
Ti va di parlarne?
Mi ricordo che un anno ero a Parigi, e una notte mi alzai quasi piangendo, vicino a Flavia. Pensavo di morire. Stavo sudando, tachicardia, il braccio sinistro non lo sentivo, ho pensato “aiuto, mi sta venendo un infarto”. E invece no, era un attacco di panico. Il giorno dopo sono entrato in campo e non sapevo che pesci prendere, non sapevo dove andare, non riuscivo a respirare bene. Questi attacchi di panico vanno gestiti, ci si deve lavorare, abituando la mente con degli esercizi ed essendo consapevoli che cose del genere possono succedere.
All’inizio mi sono spaventato. Ma non come giocatore di tennis che a 35 o 38 anni appende la racchetta al chiodo, come persona. Ho pensato: io così non voglio stare. Perché non si tratta di soffrire in campo, lottare, dare il meglio di me stesso, correre, vincere le partite: quella è una sofferenza che sono disposto a provare. Ma fuori dal campo non voglio soffrire in questa maniera. Quindi sono andato a fondo, ho cercato una soluzione e l’ho trovata, però ho fatto molta fatica, è stata dura. Potessi tornare indietro, ci lavorerei di più da subito. Se avessi fatto questo tipo di lavoro con la continuità con cui mi allenavo fisicamente e tennisticamente, con cui facevo fisioterapia… sicuramente sarei stato meglio, sotto tutti i punti di vista.
Tante cose ti possono aiutare. Magari a te fa bene leggere, a me ad esempio fare esercizi di meditazione, di respiro, cosa che da quel momento lì ho iniziato a fare, insieme ad un percorso in cui mi sono preso cura di me stesso. Io sono sempre stato uno che pensa così: mi fa male un dente? Vado dal dentista. Mi fa male il polso? Cerco di andare dal migliore specialista per il polso. E così anche a livello psicologico.
Come entra in campo tutto questo?
Sono uno molto emotivo. Prendo le cose esternamente in una maniera, ma internamente in un’altra. Spesso quello che faccio vedere non è quello che ho dentro: da fuori può sembrare che non penso, ma penso tanto, vado molto in là col pensiero. E invece bisogna rimanere sempre qua, sull’adesso. In passato non sempre ci sono riuscito, anzi, e ho disperso tante, ma tante energie a livello mentale.
Come curi il corpo e vuoi migliorare il servizio, il dritto e il rovescio, come vuoi metterti un fisioterapista alle spalle per sentirti bene fisicamente, anche la testa deve essere preparata e supportata in una certa maniera. Per me non sempre è stato facile durante la carriera lavorare con un professionista continuativamente su questi aspetti, perché se una persona vuole lavorare con me deve essere disposta a viaggiare e starmi vicino. Voglio che mi veda competere, giocare e allenarmi, e trovare qualcuno disposto a fare questo tipo di investimento in termini di tempo non è facile.
I momenti bui adesso sono alle spalle?
Ci sono stati e ci sono. Ora, mentre sto parlando con voi, sono in un momento buio della carriera. Ci sono ovviamente problemi legati alla parte tennistica, ma non solo. Vedo, so, noto, sento che sono quasi alla fine di questa parte della mia vita, quindi la mia mente, che non smette mai di pensare, inizia a confrontarsi anche con un altro tipo di problemi, conosce nuovi dubbi. Perché ovviamente i dubbi ci sono. Cercherò di aggrapparmi a quello che mi ha sempre dato risultati in questi anni per venirne fuori e per chiudere la mia carriera nel miglior modo possibile.
Pensi spesso al ritiro?
In alcuni momenti sì. Non è che posso pensare di giocare altri cinque anni. Ho ancora voglia di giocare? Sì. Però voglio farlo, vorrei farlo, come dico io, non come sta andando ora. Perché a livello di fisico e di tennis, secondo me qualche sassolino ancora posso togliermelo dalle scarpe, ed è per questo che ogni giorno mi alzo con dolori ovunque, dopo un 6-4 al terzo set, e mi metto lì e dico: sì, continuo a provarci.
Sul quando, sinceramente molto dipenderà dai risultati. Non devo dimostrare niente a nessuno, ma i risultati fanno la classifica, e la classifica mi aiuta a giocare un certo tipo di tornei che a me piace giocare. Non che gli altri non mi piaccia giocarli, sia chiaro, però arrivato a questo punto della carriera il mio sogno è ancora giocare i grandi tornei; e per giocarli, devo vincere determinate partite che mi aiutino a sollevare la testa dalla sabbia.
Come ti immagini la tua ultima partita?
Il desiderio è chiudere davanti ai miei figli, alla mia famiglia, e davanti a tutti i miei amici. Questo senza ombra di dubbio.