Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Va sempre cercato il talento
30 ott 2024
Intervista a Gianluca Nani, direttore tecnico del gruppo Pozzo.
(articolo)
21 min
Dark mode
(ON)

Con 16 punti in 9 partite, una delle squadre rivelazione di questa prima parte di Serie A è di sicuro l’Udinese. Dopo essersi salvata all’ultima giornata nello scorsa stagione, i friulani hanno iniziato il campionato con un progetto tecnico rivoluzionato. Oltre al nuovo allenatore Kosta Runjaić, a cambiare è stato anche parte del quadro dirigenziale, che, oltre alla costante presenza di Giampaolo e Gino Pozzo, ha visto l’ingresso di Gokhan Inler come nuovo responsabile dell’area tecnica e la nomina di Gianluca Nani come Group Technical Director dell’intero gruppo che controlla, oltre all’Udinese anche il Watford.

Proprio con Nani ho deciso di parlare per capire cosa è cambiato nell’Udinese di quest’anno. Ma anche di cosa significa guidare due squadre importanti in due Paesi diversi, dei suoi trascorsi da dirigente in altri club e di come l’Udinese è arrivata a costruire la squadra di quest’anno e a scegliere come tecnico Kosta Runjaić.

Forse non tutti ricordano che lei è stato il direttore del Brescia dei miracoli che il presidente Gino Corioni riuscì a costruire agli inizi degli anni 2000. Com’era quella squadra? Come avete fatto a portare a Brescia Roberto Baggio e Pep Guardiola?
Sì, è stato davvero il Brescia dei miracoli. Baggio è stato il mio primo acquisto nel mondo del calcio. Gino Corioni mi parlò di questa possibilità e mi mandò dal giocatore e dal suo procuratore perché gli serviva una persona non molto conosciuta per portare avanti, senza clamori, la trattativa e anche, credo, per mettermi alla prova. Così mi dette le cifre entro le quali potevo muovermi, raccomandandomi solo una cosa dato che era la mia prima trattativa, e cioè di tenerlo informato ogni mezz’ora su come stesse evolvendo. A quel punto mi mossi con l’agente, Vittorio Petrone, che mi dette appuntamento in una casa di montagna. C’era solo un problema: la casa in questione era in alta montagna, si doveva lasciare la macchina e salire a piedi, e lì il telefono non prendeva nel raggio di due chilometri!

A Roby e a Vittorio [Petrone] piaceva l’idea di venire a Brescia e questo aveva già messo la trattativa nel verso giusto. Percepivo la possibilità di poterla chiudere. Nel protrarsi dell’incontro, pur proseguendo benela trattativa, mi sono iniziato a rendere conto che era passato troppo tempo dall’ultimo contatto con Corioni, dovevo iniziare a capire come comunicare con lui.

La mia necessità di dover comunicare con il presidente, che manifestavo come volontà di andar via per poi riprendere la trattativa nei giorni a seguire, fu involontariamente una spinta per arrivare alle cifre che noi, tutto sommato, potevamo permetterci. Una volta arrivati ai numeri a cui sapevo di essere autorizzato, decidemmo di fermarci ulteriormente per discutere di tutti i punti,con conseguente ulteriore ritardo delle mie comunicazioni con Corioni. Alla fine fummo tutti contenti: Vittorio, Baggio e anch’io, che ottenni il giocatore per cifre che rientravano nel budget a disposizione. L’unico problemino fu che non ero ancora riuscito a sentire Corioni!

A trattativa conclusa, quando sono tornato in macchina (correndo fra l’altro) e il telefonino ha ripreso a funzionare, mi sono ritrovato una quantità enorme di messaggi del presidente, che chiedeva dove cavolo fossi finito. Aveva ragione, era passato veramente tanto tempo dall’ultima comunicazione…

Non ho fatto nemmeno in tempo a chiamarlo che è stato lui a contattarmi per l’ennesima volta. Mi disse di tutto [ride]. Quando ha saputo che la trattativa era stata conclusa entro il budget che mi aveva dato, cambiò subito umore e mi ha fatto i complimenti. È stato un acquisto fortunato, una coincidenza favorevole. Riconosco che una buona dose di fortuna mi ha sempre accompagnato nella vita.

Per quanto riguarda Guardiola: appena è arrivato, ha trovato Mazzone che gli ha detto: «Io non ti volevo». Cosa era successo? Io inizio la trattativa con Pep e, a un certo punto, vado a parlare con Mazzone perché, con un giocatore così (un campione, non un ragazzino), per forza devi parlarne con l’allenatore. Solo che Mazzone mi dice: «Ora mi metti in difficoltà, perché Guardiola è un grande calciatore ma io ho speso delle parole con Federico Giunti del Milan, dicendogli che lo avrei fatto giocare se avesse accettato di venire qui. Se arriva Guardiola, Giunti non gioca più». E mi lasciò con un: «Fammece pensà». Ok mister, gli dissi. Pensaci ma non troppo, il presidente mi ha dato il via libera e si parla di un giocatore come Guardiola, per di più a parametro zero…

Intanto il tempo passava e io ero costretto a procrastinare con Guardiola. A un certo punto fu lo stesso Pep a chiedermi perché il tutto non venisse finalizzato. «Se il mister non mi vuole, dimmelo chiaramente e io non vengo». Io allora ho dovuto mentire: «Ma certo che ti vuole! È solo una questione relativa a qualche problemino burocratico…».

Ne parlo con Corioni, avvisandolo che o chiudevamo oppure sarebbe saltato. A quel punto il presidente del Brescia mi dice di stringere i tempi e di portarlo. «E con Mazzone come facciamo?», ho chiesto. «Tu portalo», mi disse il presidente. Così alla fine abbiamo firmato Pep anche senza avere la autorizzazione finale del tecnico.

Mazzone non l’ha presa benissimo [sorride]. Ad un certo punto il mister ha preso me e Guardiola e ci ha fatto sedere a un tavolino del bar. Quando gli ha detto: «Io non ti volevo» avrei voluto sotterrarmi pensando a cosa stesse passando per la mente di Pep.

Ma poi, quando Mazzone si è reso conto dell’uomo che aveva davanti, non solo del calciatore, ha cambiato subito atteggiamento. Tanto è vero che entrò nello spogliatoio e, presentandolo alla squadra, disse a tutti di accoglierlo come si conveniva ad un grande giocatore, un ex capitano del Barcellona. Ovviamente, appena pronto fisicamente, ha giocato sempre.

A Brescia abbiamo fatto un buon lavoro. Io ho avuto una grande fortuna, ho fatto una grande scuola potendo contare, in quel momento, su due dei più grandi giocatori del mondo, su Carletto Mazzone, il veterano degli allenatori, e su Corioni, che aveva fatto il presidente praticamente in tutte le categorie. Per me è stata una palestra incredibile, ho imparato tantissimo. Sono stati degli anni bellissimi.

Siamo arrivati ad un punto in cui avevamo una squadra con un centrocampo formato da Guardiola, Andrea Pirlo, Matuzalém, Stephen Appiah e con, in attacco, Roberto Baggio e Luca Toni, Tare e Andrea Caracciolo insieme a gente come Aimo Diana, Andrea Bonera, Jonathan Bachini, Martinez, Markus Schopp i gemelli Filippini e tanti altri. Era una grande squadra, ci siamo veramente divertiti. Mazzone ci faceva giocare bene, siamo arrivati ad una finale di Intertoto, ci siamo piazzati bene in Serie A e abbiamo lanciato tanti giocatori giovani, una delle caratteristiche del club.


Cosa ci può dire di Baggio e di Guardiola come persone? Come si sono calati in una realtà provinciale del nostro calcio?

Sono straordinari, dei campioni in campo e fuori. Roby è un ragazzo straordinario, brillante, compagnone, generoso, sempre pronto a fare del bene agli altri. E così anche Pep.

Pep, a parte le capacità tecniche e l’intelligenza, è straordinario per il suo modo di rapportarsi col gruppo. Una persona semplicissima, sempre disponibile. Ricordo che quando veniva al campo di allenamento, con la macchina passava spesso a prendere qualche giovane della primavera che si stava allenando con la prima squadra ma che magari non aveva ancora la patente. Anche oggi, nonostante tutto quello che di grande sta facendo, è l’esatto opposto di una persona arrogante e presuntuosa. È un uomo da dieci e lode.

Pep, tra l’altro, l’ho ritrovato circa un mese fa, quando col Watford abbiamo affrontato il Manchester City in Carabao Cup. È rimasto molto legato all’ambiente. Quando può, viene a Brescia e ci riuniamo con la vecchia squadra.

Un altro allenatore famoso legato a Brescia è Roberto De Zerbi, nato proprio nella città lombarda. Lei lo conosce. Da fuori sembra molto metodico, quasi “ossessionato” dal lavoro. È veramente così come appare?
Roberto è stato un mio giocatore. È sempre stato una persona di talento e lo è ancora di più oggi come allenatore. In questo momento è già, senza dubbio, uno dei migliori allenatori in circolazione. Ossessionato può sembrare una parola brutta, io direi una persona attenta e scrupolosa, che cura ogni dettaglio. Un grande studioso di calcio con anche una grande personalità, un tecnico che ha idee e una grande passione.

Ha tutte le qualità per diventare il primo erede di Pep. È già un top ma diventerà ancora più bravo. Ho visto molto spesso come giocano le sue squadre, come le allena, come le gestisce. Essendo un allenatore vincente e di grande personalità è uno che pretende tanto, oltre che da se stesso, dal suo staff e dai suoi calciatori. Non posso che augurargli il meglio e parlarne molto bene.

Fra le altre cose, lei è stato il primo italiano ad essere direttore tecnico in Premier. Col West Ham: fra il 2008 e il 2010. Cosa può raccontarci di quella esperienza? Di cosa si occupava esattamente? Durante l’esperienza con gli “Hammers" ha avuto modo di lavorare fianco a fianco con Gianfranco Zola, allora tecnico dei londinesi. Com’è stato il rapporto con Zola?
Anche il West Ham è stata una grandissima esperienza. Il proprietario di allora, l’imprenditore islandese Björgólfur Guðmundsson, era una delle persone più ricche del mondo. Il progetto prevedeva di costruire una squadra vincente, che potesse competere ad alti livelli in Premier League.

Tuttavia, un paio di mesi prima del mio ingresso in carica (previsto per giugno, luglio), Gundmundsson è stato coinvolto nella crisi finanziaria islandese del 2008. Di conseguenza non solo sono venuti a mancare i fondi per rinforzare la squadra, ma siamo stati costretti a vendere i migliori giocatori. Il presidente è stato molto chiaro e mi disse che, se avessi voluto, lui non avrebbe avuto problemi a rescindere il mio contratto per liberami. Io che vengo dalla terza categoria, però, non ci pensavo minimamente a lasciare.

Ero il primo direttore sportivo italiano della Premier, fra l’altro in un campionato dove c’era allora la figura dell’allenatore-manager che decideva tutto. Inoltre ero abituato a costruire squadre in società che dovevano stare attente al bilancio. Per me è stata una grande sfida.

Ero incaricato di gestire gli aspetti tecnici, quindi facevo quello che avevo sempre fatto. Fra l’altro ricordo che, dopo un po', la banca che aveva in carica il club lasciò la gestione completamente all’amministratore delegato e quindi alla fine ci siamo ritrovati da soli. Lui guidava la società ed io, con il mio inglese maccheronico, tentavo di aiutarlo nell’area tecnica, ma con alle spalle soltanto l’esperienza nel campionato italiano. Una situazione non facile, ma ne siamo usciti bene.

Poco dopo, a settembre, quando l’allenatore Alan Curbishley (una bravissima persona) si è dimesso perché la squadra era stata smembrata sul mercato e ricostruita con molti prestiti, ho chiamato Zola, un tecnico italiano che non aveva ancora allenato ma che conosceva la mentalità inglese col suo passato da giocatore e idolo dei tifosi nel Chelsea.

Ricordo il suo grande entusiasmo, è stata una delle persone migliori che io abbia mai conosciuto dal punto di vista umano. Quando gli ho proposto l’idea mi ha preso per matto! E invece è stato un connubio perfetto: abbiamo giocato un grande calcio e siamo finiti ottavi, noni per differenza reti, sfiorando l’Europa con una squadra considerata alla vigilia come tra le candidate alla retrocessione. Avevamo comunque ottimi giocatori come Carlton Cole, Scott Parker, Matthew Upson, il portiere, Robert Green…

Si parla spesso delle differenze fra il calcio italiano e quello inglese. Ci può aiutare a capirle meglio, senza andare per luoghi comuni?
Le differenze sono abissali. La questione è culturale, anche se ora in Premier si stanno uniformando molto al calcio continentale con l’arrivo di tanti allenatori e calciatori stranieri. Prima le differenze erano maggiori tanto è vero che, al mio arrivo, sono rimasto stupito di diverse cose.

Anche il modo di allenarsi è diverso. In Italia si fanno spesso allenamenti tattici, un po' statici. Qui [Nani mi parla dal suo ufficio che dà sui campi da gioco del centro di allenamento del Watford] le sedute di allenamento sono molto dinamiche, svolte a grande intensità. Le partitelle sono veloci, con grande agonismo e fisicità. I calciatori in Inghilterra poi sono mediamente più forti fisicamente di quelli che giocano in Italia ed hanno tutti una grande qualità tecnica.

Prima il gioco era diverso. Molti degli sport inglesi sono in qualche modo influenzati dal rugby e il rugby è conquista di campo. Nel calcio è lo stesso, non c’era il fraseggio di oggi, le partite erano spesso finalizzate a raggiungere più velocemente possibile l’area di rigore avversaria. Era un giocare uomo contro uomo, con cross e duelli fisici nell’area di rigore. Un calcio comunque di alta intensità e di grandissimo fascino (per quanto tatticamente possa anche non piacere).

E infatti anni fa non era facile per i calciatori italiani venire in Inghilterra e fare bene, anche se alcuni ci sono riusciti - i vari Zola, Gianluca Vialli, Paolo Di Canio…

Oggi penso che se uno ha la possibilità di poter fare un’esperienza all’estero, di poter conoscere altre culture, dovrebbe coglierla al volo. Ti arricchisce come persona e come professionista, ti apre gli orizzonti e ti permette di vedere al di là del tuo giardino. Un errore che noi spesso facciamo in queste circostanze è quello di andare fuori, vedere le diversità rispetto alla nostra cultura calcistica e volerle cambiare pensando, magari, che noi siamo depositari della verità.

Ho sempre cercato di non commettere questo errore, cercando di capire la loro cultura, le loro abitudini e poi, se possibile, aggiungendo qualcosa successivamente.

Nel dicembre del 2023 lei è tornato a lavorare in Inghilterra come direttore sportivo del Watford, squadra di Championship di proprietà della famiglia Pozzo e club nel quale aveva già lavorato dal 2012 al 2014. A giugno è stato nominato Group technical director dell'Udinese. Cosa ci può dire di questo doppio ruolo? Non dev’essere facile gestire due società appartenenti a due campionati diversi.
Ho avuto una grande fortuna (e non lo dico per piaggeria) ed è quella di poter lavorare accanto a Gino Pozzo. Basti pensare a quanto lui, suo padre, tutta la sua famiglia han fatto e stan facendo nel mondo del calcio con l’Udinese, la squadra di una città di centomila abitanti che è in Serie A da trent’anni.

Lavorando vicino a lui ho imparato tanto, così come imparai tanto da Corioni. Ho detto in un’intervista che lavorare con Pozzo è come fare un master all’università. Ogni giorno “rubo” qualcosa dal suo modo di agire, cerco di migliorare me stesso avendolo come esempio. Il presidente lavora nella stanza accanto alla mia e quindi lo scambio di opinioni è costante.

Quando mi ha offerto il doppio incarico ero un po' titubante, non sarebbe stato facile. Io poi dedico al lavoro tutto me stesso, sono impegnato full-time, sempre alla ricerca degli aspetti dove possiamo migliorare: nella gestione della quotidianità, degli allenamenti, nel rapporto con gli allenatori. Non si tratta solo di costruire la squadra, c’è molto di più da fare. Già adesso stiamo lavorando tantissimo per la costruzione della squadra dell’anno prossimo.

Alla fine, considerando la richiesta anche come una gratificazione per il lavoro che stavo facendo a Watford, ho accettato. Per svolgere il doppio incarico serve una grande organizzazione e un grande staff di persone. In questo senso sia l’Udinese che il Watford sono una macchina perfetta.

A Udine ci sono persone come Gökhan Inler, che svolge una gran parte del lavoro vicino al mister, e Franco Colavino che, oltre a svolgere il ruolo di direttore generale, è un manuale vivente di regolamenti e procedure. Tutte le persone che lavorano a Udine sono bravissime.

E così è al Watford. Il Watford, in termini di acquisizione, è una realtà più giovane rispetto all’Udinese, cosi come lo sono anche il bravissimo tecnico [Tom Cleverly] e lo staff, e quindi mi fermo un po' di più da queste parti. Anche qui siamo fortunati ad avere un grandissimo team di persone ed io lo sono particolarmente a lavorare vicino a Scott Duxbury, amministratore delegato estremamente capace, dotato di grande leadership e che conosce tutti gli aspetti del calcio inglese.

Per gestire tutto, lo ripeto, è fondamentale lo staff. Io sono sempre partito da un principio: un grande staff di persone, ben amalgamato, con la stessa mentalità vincente, con la stessa etica lavorativa, vale più di un top player. E noi abbiamo un grande staff sia a Udine che a Watford. Questo facilita il lavoro.

Prima di tornare al Watford è stato anche direttore sportivo dell'Al-Jazira negli Emirati Arabi Uniti. Anche se gli Emirati non sono l’Arabia Saudita, cosa pensa dell’esplosione del fenomeno Saudi Pro League? Ritiene sia un fenomeno passeggero o qualcosa di più duraturo?
C’è grande passione e forse il tutto porterà ad un cambiamento culturale, ma mancano i giovani calciatori locali. Devono produrre il loro Ronaldo. Vanno bene gli stranieri però da noi, per esempio, gli italiani sono cresciuti vicino ai grandi stranieri, ai Platini, agli Zidane. Giannini è cresciuto vicino a Falcão. Alla fine devi mantenere un’identità locale, altrimenti diventa uno show fine a se stesso. Devi creare una situazione che permetta di esaltare i giocatori sauditi, in qualche modo approfittare della grande ventata di entusiasmo che portano i nuovi grandi campioni stranieri per far crescere vicino a loro i giovani calciatori locali.

Anche da noi ci si lamenta spesso che i giocatori italiani non trovano spazio, però poi hanno la possibilità di andare all’estero e giocare in Premier League o in tornei importanti. Mi ricordo che all’Al-Jazira c’era l’attaccante Ali Mabkhout, che per me avrebbe potuto giocare in qualsiasi squadra europea. Il fatto è che lì guadagnano tanto e quindi non hanno necessità di venire a giocare nei più competitivi campionati europei.


Un aspetto sul quale lei ha inciso molto nei due club è quello legato allo scouting. Che situazione ha trovato e come ha riorganizzato questo dipartimento al Watford e all’Udinese? Che ruolo hanno i dati nel suo lavoro di scouting?
Non ho avuto bisogno di riorganizzare nulla perché Udinese e Watford sono già super organizzate. La famiglia Pozzo, con le sue squadre, è famosa per lo scouting. Per me è stato facile inserirmi da questo punto di vista nella nuova realtà, in quanto lo scouting è sempre stato un elemento importantissimo nella gestione dell’attività. Anche a Brescia, in effetti, abbiamo fatto un buon lavoro pescando tanti giovani talenti nei vari angoli del mondo, creando plusvalenze per il club.

Fare scouting non riguarda soltanto l’andare a vedere le partite. Il primo concetto dello scouting è quello di anticipare la concorrenza e rendere il processo di acquisizione più snello, che è quello che possono fare le piccole squadre, mentre le grandi hanno magari un controllo più capillare ma più lento. Lo ripeto: a Brescia eravamo solo in tre e abbiamo fatto un buon lavoro.

Per me lo scouting è linfa vitale, ci ho sempre puntato in tutte le squadre in cui sono stato. L’Udinese e il Watford sono da anni campioni nello scouting, riconosciuti per questo in tutto il mondo. In questo senso, come diceva Bernardo di Chartres, mi sento “un nano sulle spalle di giganti“.

Avendo il vantaggio di poter contare su due club è poi necessario creare un sistema di coordinamento e di controllo tra entrambe le realtà che ti dia dei vantaggi anche per quanto riguarda la gestione delle informazioni.

Per quanto concerne i dati ritengo che non debbano essere loro a comandare. I dati aiutano e sono ormai un elemento essenziale e imprescindibile, ma non sono l’unico strumento di valutazione. È come rifiutare di andare in treno preferendo la carrozza. Non bisogna però esagerare.

Oggi c’è la tendenza a far fare lo scout a qualsiasi persona, basta che sappia leggere i dati. No, non è così facile. Anche nell’osservare ci vuole talento, è necessario che chi svolge il lavoro sappia leggere al di là dei dati e che sia in grado di individuare anche quelle qualità non misurabili, come ad esempio la personalità o come il giocatore si relaziona in campo con i compagni e con l’arbitro, come gestisce la partita. Questo i dati non sempre te lo possono dire.

I dati, quindi, sono un elemento che completa un lavoro, non ciò che lo guida. Se avessimo guardato solo i dati Hamsik non lo avremmo mai preso perché aveva totalizzato zero minuti e Caracciolo lo stesso, perché non giocava con continuità in C2. E invece lo abbiamo chiamato per portarlo nel Brescia di Baggio e Guardiola.

A proposito di scouting: voi lo fate anche per gli allenatori, cosa non comune in un mondo dove spesso il tecnico viene scelto perché proposto da questo o da quel procuratore. Sotto questo punto di vista, si dice che siate arrivati a Kosta Runjaić dopo aver visto una partita del suo Legia Varsavia contro l’Aston Villa di Unai Emery. Cosa vi ha colpito del tecnico austriaco?
Confermo il “si dice”. Noi facciamo scouting non soltanto sui calciatori ma anche sugli allenatori e su chiunque abbia talento e lavori nel mondo del calcio, dal segretario al team manager al direttore sportivo. Va sempre cercato il talento, nei calciatori, nei dirigenti, in tutte le persone che gravitano intorno alla squadra, alla fine è così che si crea un gruppo. Io cerco sempre di prendere scout con cui non abbiamo mai lavorato prima o che abbiano comunque poca esperienza, perché così puoi forgiarli creando un gruppo con un grande entusiasmo.

Quando sei colpito da qualche tecnico cominci a seguirlo, vai a vedere come allena, fai ricerca su di lui, magari parlando con i giocatori che ha allenato, ti informi sul suo carattere. Così è successo con Runjaić. Vedendo la sfida con l’Aston Villa siamo rimasti particolarmente colpiti da quello che la sua squadra faceva: era corta, aggressiva, propositiva, votata all’attacco, e giocava così anche in trasferta. E così abbiamo cercato di saperne di più su di lui.

L’Udinese sta giocando bene e ottiene buoni risultati nonostante abbia perso in estate Walace e Lazar Samardžić. Come avete costruito la rosa di quest’anno e come avete sopperito a due partenze così pesanti?
Avevamo già pronta una lista di possibili sostituti. Questa lista la devi aggiornare sempre. Abbiamo una vera e propria “squadra ombra”, con tutti i ruoli possibili coperti da vari nominativi, perché non sai in anticipo che categoria farai, chi sarà il tuo prossimo allenatore e con che schema giocherà. I nomi della lista quindi non coprono undici posizioni e basta ma molte di più, specificate per le differenti caratteristiche.

Solo per gli attaccanti prova a immaginare quante tipologie diverse di calciatori possano esserci: ci sono nomi per gli attaccanti esterni, per le seconde punte, nomi di chi gioca da riferimento centrale, di chi preferisce attaccare la profondità. Così creiamo il database e lo devi continuamente aggiornare, indipendentemente da quello che ti offrono gli agenti. Non puoi dipendere solo da loro. I giocatori più bravi poi continui a seguirli, è un lavoro lungo.

E questo non lo svolgi soltanto mandano gli scout in ogni Paese, perché ti costerebbe troppo, ma creando vari sistemi di fare scouting. Ma quali siano non te lo posso dire perché è il segreto della nostra fortezza [sorride].

Quali sono gli obiettivi del club nel breve, medio periodo?
Lo chiarisco con grande determinazione: a Udine dobbiamo salvarci. Punto. Ma non lo dico per scaramanzia. Quando ero a Brescia mi ricordo il Verona di Alberto Malesani, a dicembre in zona UEFA e poi retrocesso a fine anno. Bisogna stare attenti. Io faccio il conto alla rovescia. Mi sono messo l’obiettivo ai quaranta punti e ogni vittoria calcolo che ne mancano tre in meno al raggiungimento del traguardo.

Ora guardo la classifica e siamo terzi. Mi fa piacere per il mister, per i tifosi, per i ragazzi ma il mio obiettivo non cambia. E non cambierà mai fino ai quaranta punti. Se poi dovessimo arrivare a quota 40 a dieci giornate dalla fine allora ok, metteremo un altro obiettivo. Ma io in testa ho solo l’idea di salvarmi. Certo, magari non all’ultimo minuto dell’ultima giornata, come successo l’anno scorso. Una realtà come l’Udinese non può prescindere dalla Serie A, per continuare a fare il lavoro che fa.

Al Watford invece l’obiettivo deve essere quello di lottare per il vertice. Ora siamo in zona playoff, a tre punti dalla prima. Anche qui, comunque, devi essere sempre attento e guardarti anche indietro, la Championship è una maratona lunghissima dove ci sono tantissime squadre competitive e quindi molte insidie.
Se me lo chiedi ti dico che mi piacerebbe concludere il mio mandato avendo entrambi i club come realtà solide in Serie A e in Premier.

Infine una curiosità: che ruolo avrà Simone Pafundi (attualmente in prestito al Losanna) nel progetto tecnico dell’Udinese?
Pafundi dovrà avere un ruolo. Sta facendo un percorso di crescita, è un giocatore forte, di qualità, che deve trovare ancora la sua collocazione specifica e non soltanto in campo. Forse è stato chiamato in Nazionale troppo presto e ha vissuto così un certo tipo di esperienze quando non era ancora pronto, non aveva fatto una gavetta in grado di preparalo.

È come quando chiami un Primavera in prima squadra, lo fai allenare due settimane, lo fai esordire e poi lo rimandi nella Primavera. Quasi sempre subisce un contraccolpo che magari per un periodo lo fa rendere di meno. Pafundi ha sicuramente delle qualità importanti e può diventare un giocatore importante, ma deve fare il suo percorso con pazienza, sacrificio e dedizione. A dicembre rientrerà dal prestito in Svizzera, verrà ad allenarsi con noi e insieme sceglieremo il percorso migliore, dopo che il mister lo avrà visto da vicino. A Pafundi devi creare un percorso verso il successo e anche lui deve contribuire.

Perché proprio Losanna?

Ce lo avevano chiesto fortemente e poi il club fa parte del gruppo INEOS [lo stesso che controlla la parte sportiva del Manchester United e che possiede il Nizza], per questo hanno un diritto di riscatto altissimo sul giocatore. Quando la gente ci dice che, in virtù di questo diritto concesso agli svizzeri, noi non crediamo nel ragazzo, mi fa sorridere. Se domani il Losanna venisse pagandolo la cifra pattuita, Pafundi finirebbe per essere ceduto ad un ottimo prezzo e avrebbe così fatto del bene ad una società come l’Udinese. Quindi, per rispondere alla domanda: ti confermo che l’Udinese crede molto in Pafundi.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura