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Giuliana Lorenzo

Come partecipare alle Olimpiadi quando non si ha niente

Intervista Hadi Tiranvalipour, atleta iraniano che si allena in Italia, e che andrà a Parigi…

Hadi Tiranvalipour è iraniano, pratica taekwondo, ed è un rifugiato che vive in Italia dal 2019. Per capire la sua storia bisogna fare un passo indietro. Più precisamente a ottobre del 2015, quando il Presidente del CIO, Thomas Bach, annuncia la formazione della prima squadra olimpica dei rifugiati durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. 

 

Non è stata una cosa scontata, in primo luogo da un punto di vista logistica. Nel 2017 è stata istituita la Fondazione Rifugio Olimpico (ORF) a sostegno di rifugiati e popolazioni sfollate, un organo che, come mi hanno spiegato dall’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), certifica e determina la condizione di rifugiato, oltre a svolgere quelle che normalmente sarebbero le funzioni del Comitato Olimpico Nazionale (che per i rifugiati inevitabilmente non può esistere). L’ORF dà sostegni economici, attribuendo borse di studi agli atleti che entrano a far parte del programma, ed è nata per rispondere a una esigenza. Bisognava infatti mettere in grado gli sportivi, fuggiti dai propri Paesi, di potersi iscrivere alle competizioni, pur non avendo una bandiera per cui competere e una Nazione da rappresentare. Entrare a far parte del programma permette di regolarizzare la situazione a livello agonistico ma non comporta la qualificazione automatica ai Giochi Olimpici. 

 

Per arrivare a una qualsiasi edizione dei Giochi ci si deve qualificare, come fanno normalmente tutti, oppure essere invitati per meriti sportivi a entrare a far parte del team.

 

Per la prima volta a Parigi, alle Olimpiadi ci saranno tre atleti rifugiati residenti in Italia, ovvero Iman Mahdavi nella lotta libera, Amelio Castro, atleta paralimpico colombiano della scherma e, come detto, Hadi Tiranvalipour nel taekwondo. In teoria in Italia ci sarebbe anche Mahdia Sharifi, atleta afgana nel takwondoo, che però non è stata ritenuta idonea per prendere parte né ai tornei di qualificazione né al team.

 

D’altra parte quello della squadra olimpica dei rifugiati è un sistema semplice e complesso allo stesso tempo, che sta iniziando a funzionare solo da un paio di anni – da quando cioè UNHCR è riuscita a comunicare con le Federazioni e ad istaurare con loro una certa sinergia, informando gli atleti sul loro territorio dell’esistenza del programma. È successo sia con Mahdavi che con Sharifi, mentre nel caso di Tiranvalipour è stata la stessa Federazione a segnalare l’atleta al CONI e al CIO. La procedura è stata nuova per tutti: al centro Federale Olimpico di Roma sono stati accolti gli atleti ucraini, ma quest’ultimi hanno deciso di gareggiare con la loro bandiera.

 

La squadra olimpica dei rifugiati competerà a Parigi con un proprio emblema di squadra e con uniformi realizzate da Nike (che singolarmente sponsorizza la pugile rifugiata camerunense Cindy Ngamba). Un team composto da 36 atleti provenienti da 11 Paesi diversi, ospitati da 15 Comitati Olimpici Nazionali gareggiando in 12 sport diversi.

 

Tutti loro hanno alle spalle dolori diversi, situazioni differenti. Tutti, però, hanno in comune di essere stati guidati da un amore profondo per il proprio sport, che li ha portati ad allenarsi nonostante tutto, anche quando non riuscivano a mettere un pasto dietro l’altro. Me ne rendo conto parlando proprio con Tiranvalipour, che ho intervistato per guardare più da vicino questa realtà.

 

Sei entrato a far parte della squadra olimpica dei rifugiati, che valore ha per te?

Continuo a dire a tutti che io e gli altri, non rappresentiamo solo gli atleti rifugiati, ma tutti i rifugiati. È quasi un obbligo dar voce a loro, essere da esempio. Se si hanno sogni o degli obiettivi, bisogna perseguirli a tutti i costi. Non bisogna arrendersi mai. Noi, ripeto, possiamo essere un buon esempio, non ci sono scuse, è necessario concentrarsi sui propri desideri e continuare a sognare.

 

Come funziona il processo di selezione?

Ci sono molti criteri di selezione. Spesso dipende dal curriculum delle persone. Io avevo una buona base, perché in Iran sono stato per otto anni nella Nazionale e ho vinto una medaglia d’oro in Coppa del Mondo, nel Campionato Asiatico e all’Universiade. Poi, vengono prese in considerazione anche le prestazioni degli ultimi anni e i tornei di qualificazione olimpica. Dal CIO [la scelta definitiva spetta al Consiglio Esecutivo, nda] mi hanno detto che avevo alle spalle un bel percorso e buoni risultati, anche per questo mi hanno accettato.

 

Una seconda chance visto che non sei riuscito a qualificarti attraverso il canonico torneo di qualificazione. Hai mai pensato di rinunciare al tuo sogno?

Dopo le qualificazioni ero molto deluso, per un mese non mi sono allenato. Ero al 100% nel periodo pre. Ho ridotto di 10 chili il mio peso e ho cercato di essere molto ligio in tutto, ma il risultato non è arrivato. Ero davvero arrabbiato con me stesso. Non voglio dire che mi sono arreso, perché alcuni membri del CIO mi avevano accennato che c’era una chance per Parigi. Non era una cosa sicura, però, e io volevo qualificarmi con i miei risultati, non essere “invitato”. Per un bel po’ non ho avuto né energia, né motivazione. Quando mi hanno fatto sapere che sarei entrato in squadra e sarei andato all’Olimpiade è cambiato tutto. Mi sono detto che forse era un’opportunità che mi è stata data da Dio per cambiare la mia vita e la mia carriera sportiva.

 

Ora che hai il pass olimpico in tasca ti sei fatto un’idea di come possa essere un’Olimpiade?

Per me è davvero un sogno che si realizza. Da bambino quando mi chiedevano cosa volessi fare rispondevo che volevo essere un campione olimpico. Adesso il mio desiderio è realtà. Voglio rimanere focalizzato su questo. Nella mia categoria, i 58 chili, sono 16 gli atleti in gara e con me siamo diventati 17: tutti vogliono vincere una medaglia d’oro. Non voglio pensare solo al risultato, giorno per giorno cerco di migliorare me stesso, la mia tecnica e la mia tattica. Non ho intenzione di focalizzarmi solo sull’idea di una medaglia, perché pensare a quello può mettere sotto pressione. Il piano è cercare di rimanere calmo e concentrato sull’allenamento e sono sicuro che i risultati arriveranno. Inoltre il CIO ci ha mandato una email e ci ha fatto sapere che dovremmo essere presenti alla cerimonia inaugurale, è obbligatorio, nonostante si terrà a luglio e le nostre gare siano in programma dal 7 al 10 agosto. Sarà bello: se qualcuno un anno fa mi avesse chiesto se sarei stato a Parigi non ci avrei creduto e invece sarò lì. Sarebbe interessante incontrare alcuni dei campioni che partecipano ai Giochi ma ora non voglio distrarmi pensando ad altre cose. Dopo le gare ci sarà tempo.

 

Parlavi dell’allenamento. Sei stato “adottato” dalla Nazionale italiana: ti alleni al centro Centro Sportivo Olimpico di Roma e con Vito dell’Aquila, campione olimpico in carica.

È un’opportunità unica. La Federazione Italiana di Taekwondo è perfetta, mi ha regalato una vita nuova, devo dire grazie. Ringrazio tutto lo staff tecnico e gli allenatori perché sono stati molto gentili. Anche Vito, perché durante gli allenamenti, quando sono stanco, lo guardo: per me è un modello. Penso spesso: “Hadi, se vuoi essere campione olimpico, devi seguire l’esempio di Vito”. Dall’allenamento allo stile di vita fino alla nutrizione. È una buona opportunità per entrambi, per migliorarci e vincere alle Olimpiadi. Spero di combattere con lui in finale, non prima.

 

Come hai iniziato con il taekwondo?

È una storia lunga. Quando avevo sei anni, ho visto alle Olimpiadi un incontro di taekwondo tra un atleta iraniano e uno coreano. Dopo che l’atleta iraniano, Hadi Saei [ex membro della federazione iraniana, vincitore di tre medaglie olimpiche, nda], è salito sul podio ho detto a mia madre che volevo andare anche io alle Olimpiadi. Sembrava un segno del destino: abbiamo anche lo stesso nome. Questo è il motivo principale per cui ho iniziato. Da un punto di vista fisico avevo anche una buona flessibilità nelle gambe.

 

Hai cominciato in Iran, dove sei nato. Com’era la tua vita lì?

Era davvero una bella vita. Facevo anche il presentatore televisivo, ogni giorno conducevo un programma TV in diretta. Cercavo di incoraggiare le persone a vivere una vita sana e insegnavo taekwondo agli studenti. La situazione dal punto di vista economico era buona ma avevo problemi di natura politica, per questo ho deciso di emigrare in un altro paese.

 

Qual era la situazione?

Da un punto di vista sportivo per gli atleti in Iran non ci sono garanzie. Ci sono molte persone che praticano il taekwondo e c’è tanta competizione. Il processo di selezione che determina chi saranno gli atleti nella Nazionale spesso non è meritocratico. Molte volte sono gli allenatori a decidere in maniera autonoma senza seguire un vero metodo o i risultati. In Iran, poi, non è permesso combattere contro atleti di Israele, non so perché. Ho sempre sostenuto che noi atleti siamo qui per realizzare i nostri sogni, non per questioni politiche. La federazione ci ha detto di non parlarne perché era pericoloso per noi e le nostre famiglie. Questi sono alcuni dei motivi per cui ho deciso di lasciare la mia terra. Ora voglio pensare solo al mio futuro, non al passato e quanto successo.

 

C’è stato un momento in cui hai capito che non potevi gestire più la situazione e che dovevi scappare?

Quando ero in televisione sostenevo le donne iraniane e le esortavo a cercare di essere libere in tutto. Per questa ragione sono stato licenziato ed è diventato tutto troppo complesso. Io, un atleta olimpico con un obiettivo ben definito, sono stato “fermato”. Ho deciso di scappare dal mio Paese, ma non ho detto che sarei venuto in Italia. Ho detto che sarei andato in Turchia, lì possiamo andare liberamente, altrove no. Il servizio militare è obbligatorio e se non partecipi non hai il permesso di andare via. Sono stato furbo e ho fatto domanda all’Università di Tor Vergata di Roma, visto che per me lo studio è importantissimo: mi hanno accettato, grazie alla mia carriera sportiva, per una laurea magistrale e mi hanno fatto avere una lettera che mi invitava in Italia. Non l’ho confidato a nessuno. Una volta in Turchia, ho preso un biglietto per l’Italia: così sono fuggito. Mi spiace che ora non possa tornare nel mio Paese, mi spiace soprattutto per la mia famiglia, a cui sono molto legato.

 

La tua famiglia può raggiungerti a Roma o Parigi?

Non hanno nessun problema lì, per adesso, ma la situazione è comunque difficile. Quando sono arrivato in Italia, per esempio, ho messo su Instagram un post a sostegno delle donne iraniane che non è stato gradito e da allora evito. Per questo motivo, ho deciso di non postare più nulla sulla situazione politica, perché la cosa più importante per me è che la mia famiglia sia al sicuro. Loro possono venire in Italia, ma non c’è nessun viaggio in programma, non so se sia una buona idea venire qui o a Parigi. Vedremo cosa succede nei prossimi mesi.

 

Quali sono le cose che ti mancano di più del tuo Paese?

Mi manca solo la mia famiglia e i miei amici, loro sono la mia motivazione più grande. Vorrei prendere una medaglia per dedicarla ai miei cari. Quando sono arrivato qui è stato tutto molto difficile. Venivo da un periodo complesso. Ho vissuto dieci giorni in un parco, perché in Italia, specialmente a Roma, è molto difficile trovare una casa. Quando sono arrivato non conoscevo nessuno, non sapevo una parola della lingua, ero sotto stress. Prima, quindi, ho vissuto al parco con alcuni amici iraniani, poi ho trovato casa. I problemi sono continuati: vivevo con dieci persone, che venivano da Paesi diversi, come Africa e Afghanistan. Avevo una stanza molto piccola.

 

Era tutto molto difficoltoso. Dopo tre mesi, ho vissuto sul divano con alcune persone iraniane. Ci tengo a dire una cosa: pure nei momenti più neri non ho mai smesso di allenarmi. Ogni giorno correvo al parco e l’ho fatto fino a quando non ho trovato un club e ho iniziato a parlare con la federazione Italiana. Dopo otto mesi mi sono deciso e mi sono rivolto a loro.

 

Com’è andata con la Federazione (FITA)? Loro ti hanno aiutato per la prassi burocratica e per entrare nel programma? E, scusami se lo chiedo, ma come ti mantenevi?

Sono andato di persona in federazione e ho parlato con il presidente Angelo Cito, gli ho detto qual era la mia situazione. Mi ha subito promesso che avrebbe fatto qualcosa e così è stato. Si è messo in contatto con il Ministro dello Sport, Andrea Abodi, e in meno di due mesi hanno sistemato la questione burocratica. Sono grato ad Abodi: mi ha aiutato a ottenere i vari documenti, dal permesso di soggiorno fino alla carta d’identità. Dopo che il mio status di rifugiato è stato riconosciuto, ho fatto domanda con il sostegno della federazione per entrare a far parte del programma del CIO. Loro mi hanno dato seimila euro per quattro mesi [la cifra varia in base a quando si entra a far parte, nda]. Da un anno e mezzo vivo con la Nazionale italiana e per questo il CIO mi dà la metà di questo “stipendio”. In sostanza l’alloggio e il cibo li ottengo allenandomi con l’Italia, che si occupa anche dei viaggi e dei test medici.

 

Com’è la vita qui?

Devo dire che mi trovo molto bene con gli italiani, mi piacciono. Quando sono arrivato ho capito che la cultura è simile al mio Paese. Mi sono detto: questo è il Paese dei miei sogni. In realtà avevo anche altre soluzioni; potevo andare in Canada, Stati Uniti o Germania o Svizzera. In Turchia mi hanno spiegato che potevo richiedere lo status rifugiato in vari posti. Ho sempre detto che volevo l’Italia. Amo questo Paese, perché ci sono persone buone. Poi mi piace la cultura, la storia di Roma, la gentilezza di tutti.

 

Hai qualche altro interesse?

Sto continuando con gli studi. È davvero importante per me. Mio padre mi ha sempre detto che spera che un giorno tutti mi possano chiamare “Dottore”. Questo è un altro grande desiderio: un giorno la carriera sportiva finirà e devo pensare ora al futuro. Mi piacerebbe davvero dopo la laurea magistrale continuare con il dottorato di ricerca. Vorrei proseguire con i miei studi, perché un giorno mi piacerebbe essere un allenatore non solo con l’esperienza del taekwondo, voglio essere un allenatore con conoscenza e esperienza insieme, vorrei aiutare gli studenti italiani o anche di altri Paesi.

 

E come va con l’italiano?

All’inizio ero troppo pigro per imparare. Adesso capisco tutte le parole italiane legate al mondo del taekwondo, ma parlare italiano è un più difficile.

 

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Giuliana Lorenzo è nata a Messina, ma occasionalmente è veneta e lombarda d’adozione. Ex pallavolista, scrive su Il Giorno.