
Iliass Aouani e io abbiamo più o meno la stessa età, ci sono appena due giorni di discrepanza tra il giorno del mio e del suo compleanno, e abbiamo corso la nostra prima maratona ufficiale a distanza di una settimana l’uno dall’altro (tra marzo e aprile del 2022). Il suo esordio sui 42 chilometri, alla Maratona di Milano, è stato il più veloce di sempre per un atleta italiano (2:08’34”).
Nella sua prima foto da miglior esordiente di sempre mostra due bicipiti scolpiti, gli stessi che a distanza di tre anni da quell’esordio si notano nelle foto già iconiche dei suoi urli liberatori dopo la vittoria agli europei di maratona del 13 aprile 2025, e dopo il bronzo al mondiale di Tokyo 2025. Delle sette medaglie che hanno fatto della spedizione azzurra a Tokyo la più vincente di sempre, la sua è stata una di quelle accolte con il plauso maggiore, un po’ in controtendenza rispetto a quello che ci saremmo aspettati dai gusti del pubblico italiano in fatto di atletica. Anche lui ne è stupito in positivo, mi confessa.
Ho avuto l’opportunità di chiacchierare con Iliass Aouani in un’intervista, in cui abbiamo affrontato (tra gli altri) i temi della delusione, delle promesse da mantenere, della fede, dei trend interni al mondo della corsa e dell’impegno sociale degli atleti.
Raccontami di questi due mesi dopo il tuo bronzo mondiale. Il tuo nome è uscito dalla bolla degli appassionati dell’atletica, come ti fa sentire? Come la vivi?
La mia personalità è molto pacata, forse anche zen. Non posso dire di viverla in maniera diversa da come ho sempre fatto. Semmai mi accorgessi di viverla in maniera diversa, mi sforzerei per far sì che non sia comunque troppo diversa dal solito, perché sento che questo mio modo di fare è uno degli elementi che mi hanno portato al successo, e quindi non ha senso cambiarlo. Non voglio che questo mio successo ai Mondiali cambi qualcosa di come sono. Magari ora sono più ricercato, che sia per fare interviste o altro, ma so che forse è solo un momento che passerà.
Partiamo dalla genesi stessa di quest’ultima stagione vincente, che è anche una stagione di riscatto dopo una dolorosa esclusione dalle Olimpiadi di Parigi - alle quali saresti arrivato al picco della forma fisica. Come e perché nasce l’idea di impostare la stagione del riscatto a partire da due gare come la maratona europea e mondiale, così difficili, incerte, tattiche, relativamente “lente” (alla maratona di Tokyo il caldo e l’umidità sono stati un fattore), quando tutti invece inseguono crono pazzeschi e i cachet milionari delle major? Visto che in un’intervista dopo la gara di Tokyo hai detto che sei un atleta da 2 ore e 04, forse sarebbe stato non dico più facile, ma sicuramente meno rischioso provare un tempo assurdo in una grande maratona
Sicuramente sarebbe stato meno rischioso. Le gare con la Nazionale sono, non dico un terno al lotto, ma sicuramente rappresentano degli investimenti che rischiano di non rendere quanto sperato. Intanto sono a ingaggio zero. Poi, sono gare che si fanno per accrescere il tuo valore di mercato qualora dovessi andare medaglia. Con la competizione degli ultimi anni, oggi vincere una medaglia ai Mondiali, o agli Europei ha un valore maggiore rispetto a venti o trenta anni fa - con tutto il rispetto per i nostri predecessori italiani che hanno vinto tante medaglie, e che sono stati una grandissima ispirazione.
E poi c’è stata anche la necessità, il bisogno di dimostrare che io potevo vincere con la Nazionale azzurra. Io con la Nazionale non ho mai fatto una gara importante fatta bene: ho sempre fatto gare terribili, sotto tono, come se il pettorale attaccato alla maglia azzurra mi pesasse cinque volte tanto. Insomma, c’era questa idea che per la Nazionale io non fossi affidabile.
L’esclusione dalle Olimpiadi di Parigi è stato il fondo che ho dovuto toccare per riemergere in una versione più forte di me stesso: è coincisa con un periodo difficile, travagliato - in cui ho cambiato allenatore due volte. L’ho percepita come una profonda ingiustizia: sentivo di meritare la linea di partenza - e lo dico da persona che non crede che tutto gli sia dovuto. Quello che ho subito è stato un trauma così grande che ho sentito la necessità di isolarmi dal mondo, scendere scavando in un luogo buio e freddo in cui c’ero soltanto io, per concentrarmi su me stesso in modo viscerale. È stato un dolore così forte che mi sono detto che non lo avrei mai più voluto provare, che avrei investito il 100% di quello che valgo e che avrei fatto tutte quelle cose che prima non facevo, con un grande senso di urgenza.
Alla fine questo trauma è stato positivo, costruttivo: è stata una delusione preparatoria a questa stagione vincente. Ogni tanto abbiamo bisogno di questi traumi per risvegliare in noi certe consapevolezze. A saper leggere bene le gare, già qualcosa era cambiato alla Maratona di Valencia [a dicembre 2024, ndr], dove sono stato insieme al gruppo delle 2:04’ fino al chilometro 37 prima di scoppiare [chiude la gara in 2:06’06”, il suo personal best, ndr]. Già lì, senza fermarmi ai numeri, avevo capito che qualcosa era cambiato in meglio. Poi ho vinto gli Europei in un contesto molto qualificato, battendo gente che vale 2:04’, e in quel momento sono andato in panico: volevo fare in modo che questa vittoria non spegnesse il fuoco di rivalsa che ancora bruciava. Dovevo confermarmi ai Mondiali, anche perché c’era già gente che aveva cominciato a sminuire il mio oro europeo. I Mondiali erano il palcoscenico giusto: c’erano tutti i migliori d’Europa e tanti dei top a livello globale. Nessuno si aspettava che io potessi andare a medaglia, noi addirittura puntavamo all’oro. È incredibile se penso a dove fossi anche solo un anno fa.
Parliamo proprio del periodo che ha portato ai Mondiali: perché un atleta del tuo livello, che ha sempre fatto dell’estrema disciplina uno dei propri punti di forza, ha sentito il bisogno di scrivere e sottoscrivere una lettera-contratto con il proprio team a maggio, prima del periodo di costruzione della maratona mondiale?
Ho scritto quella lettera su incoraggiamento del mental coach, che mi ha chiesto di mettere i miei obiettivi per iscritto - io poi l’ho fatto a modo mio, ho approfondito ed esteso. Gli impegni riportati nella lettera erano già stati discussi e concordati [con il team, ndr], metterli per iscritto gli ha conferito un valore solenne. O meglio, la solennità vera e propria è stata nel momento in cui io e il team ci siamo riuniti tutti allo stesso tavolo e abbiamo stretto questo patto che ci ha vincolato per i mesi successivi [tutti i membri del team sono firmatari della lettera, ndr].
Di per sé, gli impegni sono davvero scontati: tutti sapevamo esattamente cosa avremmo dovuto fare. Scriverli, però, gli dà un valore diverso: in tutti i momenti in cui la mia disciplina ha vacillato - perché ci sono stati tantissimi momenti in cui sono stato messo a dura prova - riprendevo la lettera e guardavo la mia firma in fondo alla pagina, e questo mi dava forza, perché io credo veramente che tu vali quanto la parola che dai.
Poi, se dare il massimo significa comunque non c’entrare l’obiettivo, è un volere che non rientra nel tuo controllo e devi comunque accettarlo. Devi sempre metterti nella posizione di non avere rimorsi: e quella lettera rappresenta un po’ questo.
Oltre al tuo talento nel mantenerti disciplinato, quali sono stati i punti fermi che ti hanno aiutato ad attenerti in maniera così ligia alla promessa che fai nella lettera? Si sa del tuo rapporto con la fede, del supporto della tua famiglia…
Per sottopormi alla vita estrema dell’atleta, ho dovuto sacrificare l’equilibrio. Per sopportare la mancanza di equilibrio servono dei perché grandi, un obiettivo che vada al di là di te stesso. Inseguire solo il successo è come provare a dissetarsi con l’acqua salata: più ne bevi e più ne vuoi, ma non ti leva veramente la sete.
Quando senti di avere una missione viscerale, la ricompensa non è proporzionale al risultato, ma è proporzionale all’intenzione e allo sforzo che investi, quindi sei sempre nella posizione di una vittoria garantita.
Per questo cerco di lavorare sulla mia intenzione: sul perché. Perché lo faccio? Innanzitutto c’è la mia famiglia: rendere i miei genitori orgogliosi, essere per loro un aiuto economico. Poi, senza ricercarlo né volerlo, mi rendo conto di essere un’ispirazione per le persone. La notorietà ti mette in questa strana posizione: non sei più responsabile solo di te stesso, ma anche di tutti quelli che ti guardano da lontano, e ti idealizzano. Sono contrario all’idealizzazione, perché porta necessariamente alla delusione, visto che nessuno è perfetto. Però, il fatto di sentirmi responsabile verso alcune persone che mi vedono come un modello è una motivazione a essere all’altezza, nel mio quotidiano, di quello che dico in pubblico. Sono bravo con le parole: parlo tanto di disciplina, ma non basta. Devo essere disciplinato anche quando non voglio esserlo, mantenere parole e azioni sulla stessa lunghezza d’onda.
Anche la fede per me è importantissima. L’Islam è il filtro attraverso cui analizzo la realtà e interpreto tutto quello che mi succede. Tutto quello che faccio è una forma di adorazione volta a compiacere Dio. E quando è così, so che devo essere al meglio del mio comportamento anche nel privato, quando nessuno mi vede, ma Dio sì.
In tante interviste hai parlato dell’importanza che per te ha avuto l’esperienza di studente-atleta negli Stati Uniti, a Syracuse. Qual è il singolo aspetto di quel sistema - che sia sportivo o che sia accademico - che invidi e che porteresti in Italia? Se Iliass avesse 20 anni oggi ripartirebbe per gli USA con lo scenario attuale?
Confesso che al tempo ho sperato fino all’ultimo di non partire per gli Stati Uniti, perché mi spaventava. Con il senno di poi è un’esperienza che consiglierei al me di vent’anni e a tutti quelli che ci stanno pensando. È un’esperienza che ti mette fuori dalla comfort zone, e a quell’età devi stare fuori dalla comfort zone: sofferenza è sinonimo di crescita e a quell’età devi crescere, esplorando il mondo: se non lo fai in quel periodo quando lo fai? È stata un’esperienza incredibilmente formativa, che mi ha messo effettivamente faccia a faccia con le conseguenze delle mie azioni. Quando sei da solo, in un nuovo continente, devi rendere conto di tutto quello che fai, e inizi a maturare, non c’è più la protezione della famiglia a guardarti le spalle.
Degli Stati Uniti mi piace tantissimo la sintonia tra l’istituzione accademica e il valore dello sport. Qua in Italia lo sport viene considerato da tanti professori come una perdita di tempo, una distrazione che distoglie dall’istruzione nella sua accezione più tradizionale. Invece in America fare sport a livello universitario è motivo di prestigio: mi piacerebbe che in Italia si portasse questa cultura.
Ultimamente, si sta diffondendo tantissimo l’idea della corsa come il contrario di uno sport solitario. Nascono come funghi i running club amatoriali, e anche a livello professionale progetti come Tuscany Camp diffondono l’idea di uno sport in cui i rapporti orizzontali tra atleti sono importanti tanto quanto il rapporto verticale atleta-coach. Invece, sui social e nei tuoi vlog ti vediamo spesso macinare chilometri da solo: il team è sopravvalutato? O sei tu che sei fatto così?
Secondo me non esiste una quadra universale che va bene per tutti. L’allenamento va adattato anche sulla personalità dell’atleta. Io personalmente mi sono abituato a fare tutto da solo, sia corse tranquille - che mi tengono a contatto con i miei pensieri, visto che la corsa per me è anche un momento di meditazione - che lavori qualitativi: non siamo in Kenya, è oggettivamente difficile trovare persone che possano fare lavori specifici con me. Mi sono abituato ad allenarmi con una lepre che mi precede in bici tenendo il ritmo che desidero, mi sono trovato molto bene e non ho mai sentito l’esigenza di cambiare.
L’allenamento di gruppo è bello, ma non sempre si riesce a conciliare con il lavoro migliore possibile per la mia programmazione. A Syracuse spesso mi allenavo in gruppo, e per forza di cose l’allenamento si adattava alle caratteristiche specifiche e alla programmazione di un singolo, e tutti gli altri giravano intorno - ed è così in tutti i contesti, gli Ingebrigtsen che si allenano in gruppo adattano l’allenamento sulle esigenze di Jakob, e la squadra di Kipchoge fa lo stesso con Eliud.
In un contesto in cui ho voglia di dare il 100%, senza concedermi distrazioni, l’allenamento in gruppo è qualcosa che posso sacrificare. Mettiamoci anche io sono un po’ un lupo solitario: mi piace stare a contatto con le mie sensazioni, i miei pensieri. Poi certo, se capita e si concilia con le mie esigenze, ben venga!
Com’è il tuo rapporto con Yeman Crippa, Yohanes Chiappinelli [attuale detentore del record italiano sulla maratona] e il resto dei maratoneti italiani? Tu hai fatto segnare l’esordio in maratona più veloce di sempre, ma poi prima Crippa e poi Chiappinelli sembravano avere un po’ oscurato la tua stella… eppure siete tutti pezzi insostituibili di uno scenario veramente profondissimo (basta pensare a quanti atleti avevano i minimi per entrare alla maratona olimpica). Com’è far parte di un’intera generazione di campioni, nel solco della grande tradizione italiana?
È un rapporto molto equilibrato di sana competitività, quella competitività interna che fa bene al movimento, perché ci sprona a migliorare. Sia Yohanes che Yeman sono fonte di estrema motivazione per migliorare me stesso. È anche grazie al fatto che loro vogliano battere me, e che io voglia battere loro che tutti e tre stiamo crescendo e stiamo facendo le cose che stiamo facendo. Yohanes ha una personalità più timida. Yeman è il più popolare all’interno del movimento perché ha sempre vinto tanto, anche da allievo: ma con il tempo emergerò anche io, ho già cominciato a farlo quest’anno.
Ho tanto rispetto per loro, e presumo che loro ne abbiano per me. Solo questo: sana competizione e rispetto reciproco.
Un sacco di persone, sempre più giovani, si stanno avvicinando alla corsa su lunga distanza. Eppure tanti runner amatori spesso non sanno nulla o quasi dei professionisti che corrono con loro - le grandi maratone in questo sono praticamente un unicum, tutti (almeno teoricamente) partono dalla stessa linea di partenza… Cosa può fare di più e meglio il sistema atletica per valorizzare i suoi campioni?
La corsa sta diventando davvero di moda, e credo che il fenomeno sia ancora in fase di crescita.
E penso che i primi a dover fare qualcosa per intercettare questa opportunità siamo noi atleti. Certo, anche gli sponsor e le federazioni hanno la loro fetta di responsabilità e possono migliorare, ma già lo stanno facendo rispetto a prima. La maggior parte della responsabilità cade su noi professionisti. Dobbiamo curare la nostra immagine: io vedo tanti pseudo-runner che lavorando sulla propria figura pubblica hanno molta più risonanza nella mente collettiva degli appassionati rispetto ad atleti di altissimo livello che però sono completamente anonimi.
In questo senso sei diventato un content creator, con un tuo canale su YouTube. A tuo avviso esiste, ed è poi desiderabile, un universo in cui più top runner (o comunque atleti) ibridano il proprio ruolo da sportivi di élite con quello di figure pubbliche, per dare il proprio punto di vista privilegiato su questo sport?
Assolutamente sì, anche perché la gran parte del nostro lavoro - e a mio avviso la parte più bella - è quella che la gente non vede, ed è quella che la gente apprezzerebbe di più. È stato questo il motivo che mi ha spinto ad aprire un canale YouTube - che ho momentaneamente sospeso ma che vorrei riprendere - in cui mostro i miei allenamenti. Un atleta deve fare questo tipo di investimento in termini di tempo e iniziare a vedere questi aspetti come un vero e proprio lavoro.
Anche perché la comunicazione sulla corsa, la fatica e quello che questi due poli rappresentano mi pare sia in mano solo agli influencer, il cui obiettivo è far vendere scarpe…
Esatto. Noi atleti saremmo in grado di dare davvero molta più sostanza agli appassionati. Gli influencer mi sembrano tutti della categoria fake it until you make it. Sono superficiali, ma sanno vendersi: e per questo do loro molto credito. Noi atleti in questo dovremmo imparare da loro, anche perché è un esercizio che insegna tante skills utili nella vita oltre la corsa - che sia il public speaking, o l’utilizzo di nuove tecnologie.
È una cosa su cui dovrei lavorare tanto anche io.
Nel pezzo per Ultimo Uomo scritto con Jacopo De Marchi, abbiamo definito la tua medaglia come “la più politica”. Insieme ad atleti come Francesco Puppi ti sei esposto spesso su questioni extra sportive, laddove agli sportivi tante volte è chiesto di “correre e basta” - salvo poi essere rimproverati per non esporsi abbastanza. Come credi si possa configurare un ruolo pubblico dello sportivo in società, al di là dei meriti atletici?
Per gli atleti la libertà di espressione è una funzione di quanto sono vincolati agli sponsor, o al team; è ovvio che la loro opinione deve rispettare una narrativa affine a quella di chi paga, altrimenti i soldi smettono di arrivare. Per questo motivo, spesso gli atleti si sentono vincolati: devono essere politicamente corretti, sapere dire la cosa giusta al momento giusto, a stampa e sponsor.
Per come sono fatto provo sempre a presentarmi in maniera molto trasparente, cercando di non tradire me stesso. Avere una cosa da dire e scegliere il silenzio è una forma di tradimento; sapere che una cosa è sbagliata e dirla, o farla comunque è una forma di tradimento. L’approvazione della gente è qualcosa che non raggiungerai mai. Quindi perché perdere il sonno dietro a quello che pensano le persone?
Ecco, lo sport per me è un canale attraverso cui mandare quei messaggi che secondo me possano avere un impatto positivo sul Mondo. E se a nessuno interessa della tua storia finché non vinci, anche la vittoria è stato un mezzo per dare voce alle mie opinioni, ai miei pensieri e alle mie idee. Io voglio che per me le medaglie siano solo un mezzo, e non un fine. Un mezzo per lasciare un impatto. Perché di campioni ce ne sono centinaia, e ce ne saranno migliaia, ma pochi hanno lasciato un’eredità.
Non dico che esporsi sia facile, ma allo stesso tempo per come sono fatto io è l’opzione meno difficile. Anche i miei genitori alle volte cercano di dissuadermi dall’idea di espormi, sono consapevole che la testa più alta è quella che si prende lo sputo per prima: eppure, non espormi, e non essere sincero con me stesso, potrà anche portare vantaggi a breve termine, ma a lungo termine so che finirebbe per penalizzarmi.