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Ricominciare da capo, intervista a Irma Testa
12 feb 2021
La pugile napoletana si sta preparando per le Olimpiadi di Tokyo dopo la pausa dovuta alla pandemia.
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6 min
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Irma Testa è stata la prima pugile italiana della storia ad aver partecipato ai Giochi Olimpici, quelli di Rio de Janeiro del 2016, quando era appena diciannovenne. Il peso piuma classe 1997 ha vinto una medaglia d’oro, due medaglie d’argento (tra cui quella del 2014 alle Olimpiadi giovanili di Nanjing, in Cina, che le ha aperto le porte per l’ingresso nel corpo della Polizia di Stato) e tre di bronzo agli Europei femminili.

Il suo successo e il suo primato nel pugilato femminile hanno contribuito al suo successo mediatico, rendendola indiscutibilmente la pugile più seguita dal pubblico in Italia. Per la pugile originaria di Torre Annunziata, però, l’esordio olimpico è stata in realtà una grossa delusione, venendo eliminata dalla pugile francese Estelle Mossely. Una caduta molto pesante, al punto da portarla a una pausa di riflessione in cui è arrivata addirittura contemplare di smettere definitivamente con il pugilato.

La cronaca di quei mesi che vanno dalle fasi precedenti a Rio fino al momento di crisi personale sono state raccolte in un docufilm dal titolo Butterfly in cui Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman ci mostrano la pugile dentro e fuori dal ring. È grazie a questo film che è possibile dare un volto a tutte le persone che ricorrono nelle interviste a Testa. In particolare: il maestro Lucio Zurlo, il padre putativo che non le ha insegnato solo a combattere, ma che l’ha cresciuta quasi letteralmente anche fuori dal ring; e il responsabile del centro Nazionale Federale di Assisi, Emanuele Renzini, l’allenatore che l’ha seguita anche in ospedale, dopo ogni operazione che le è stata necessaria. Figure importanti per un’atleta che se n’è andata di casa a quindici anni per inseguire una carriera nel pugilato.

La storia di Irma Testa assomiglia a quella di un romanzo di formazione che racconta di una ragazza che, in assenza di altro, nel pugilato ha trovato quasi tutto, anche al di fuori dello sport. L’ho intervistata, quindi, per farmela raccontare, in vista di quei Giochi Olimpici di Tokyo che potrebbero farla emergere definitivamente come una delle punte di diamante dello sport italiano.

Ho visto che continui ad allenarti al Centro Nazionale Federale di Pugilato di Assisi in vista dei tornei di qualificazione per le Olimpiadi. Vista la grande incertezza sulle prossime Olimpiadi (qualche giorno fa era stata diffusa la notizia, poi smentita dal governo di Tokyo, che il Giappone stesse prendendo in considerazione la possibilità di cancellarle, nda) come ti senti in un momento così strano per lo sport?

Noi abbiamo avuto un periodo difficile perché eravamo alle qualificazioni olimpiche e le hanno interrotte a metà torneo. Ci hanno bloccato all’improvviso ed è stato un duro colpo ma non abbiamo mai smesso di allenarci. Prima in casa, durante il primo lockdown di marzo, ma anche dopo, quando abbiamo ricominciato ad allenarci tutti insieme al centro della Nazionale. Quindi la preparazione fisica e la forma non ne hanno risentito molto. Il fattore psicologico invece moltissimo. [Con la pandemia, nda] Ogni volta che c’è stato un torneo c’è stata anche l’incertezza sulla partecipazione. Alla fine li hanno sempre annullati ad una settimana dall’incontro. Quello che ci manca di più adesso è la gara.

Il tuo cammino verso Tokyo è stato interrotto durante il torneo di qualificazione a Londra nel marzo del 2020, un’interruzione che è stata fatta dopo una tua vittoria importante contro Sandra Brügger e il conseguente acceso agli ottavi del torneo. Pensi di riprendere da lì il discorso in sospeso o con tutto quello che è successo in mezzo ti sembra di dover ricominciare tutto da capo?

Per fortuna il torneo è congelato quindi riprenderemo da dove abbiamo interrotto. Io ripartirò dagli ottavi e affronterò la mia avversaria prevista dal tabellone. Psicologicamente invece mi sono un po’ allontanata. È passato un anno, sono cambiate molte cose. A marzo ero in uno stato eccellente perché avevo fatto una preparazione di tornei e di incontri di avvicinamento. Avevo combattuto molto e mi ero confrontata con molte avversarie. Adesso è un anno che non combatto quindi è un po’ come ricominciare da capo.

A suo tempo Roberto Cammarelle (Team Manager della Nazionale italiana, nda) aveva dichiarato che la notizia dell’interruzione aveva sconvolto la squadra, che tornare a casa da Londra sarebbe stato come vanificare gli sforzi di tutti i pugili e le pugili del team.

Quando siamo tornate da Londra siamo state in quarantena. Per i primi quindici giorni siamo state in isolamento in camera. Non potevamo uscire perché eravamo state all’estero. Finito l’isolamento è iniziato il lockdown con le palestre chiuse, e di conseguenza non potevamo allenarci nemmeno noi che eravamo in corsa per le Olimpiadi. Ci siamo allenati in casa. Io facevo pesi, facevo esercizi di tecnica. Dopo un paio di mesi abbiamo ripreso ad allenarci di nuovo tutti insieme in una palestra, potendo usufruire di tutto ciò che ci serve per una preparazione ad alto livello.

Secondo me uno dei temi più importanti per lo sport in questo momento è la salute mentale. Esiste un cliché secondo cui gli sportivi hanno una mente inscalfibile, persino più importante del corpo nel renderli vincenti. A me sembra invece che anche gli sportivi in questo momento stiano mostrando la loro umanità, la stanchezza e la difficoltà (vedi i tennisti reclusi nelle stanze d’albergo a Melbourne che palleggiano contro le lastre di vetro delle finestre) con cui cercano di mantenere quella che di solito è chiamata mentalità vincente. Da questo punto di vista, poi, il pugilato deve essere soggetto a più pregiudizi ancora più grandi…

Dopo questo periodo ne ho risentito moltissimo. L’atleta programma quattro anni della sua vita e della sua carriera [prima delle Olimpiadi, nda]. È dal 2017 che ho deciso di voler partecipare alle Olimpiadi (dopo una pausa seguita alla sconfitta alle Olimpiadi di Rio 2016, ndr) - volevo provare la qualificazione e ho programmato con precisione tutti gli eventi. Quindi lo spostamento ha scombussolato un piano di lavoro quadriennale. Certo, l’atleta è pronto ad affrontare momenti di difficoltà, è più pronto a rialzarsi e trovare gli stimoli necessari per poter andare avanti. Però è stata comunque molto dura. Quindi direi che l’atleta è più bravo a rialzarsi che a non cadere.

A questo proposito dopo aver visto Butterfly mi sono domandata come stessi tu dopo l’eliminazione alle Olimpiadi di Rio 2016. Nel film si capisce solo che sei intenzionata a prenderti una pausa, per un momento pensi pure di tornare a Torre Annunziata. Io però mi sono domandata se ci sono ancora oggi conseguenze sulla tua mentalità, se ripensi ancora a quella sconfitta ai quarti di finale contro Estelle Mossely (peraltro quella che sarebbe stata la medaglia d’oro di quella edizione).

Quella è una sconfitta che mi ha segnata moltissimo. Ero molto giovane quindi le conseguenze di una sconfitta insieme a ciò che provi e a ciò che puoi fare dopo sono diverse rispetto a come le affronterei adesso che son più matura sia dal punto di vista atletico sia come persona, a livello interiore. A quella sconfitta non ci ripenso tutti i giorni e non spesso, ma quando ci ripenso mi dà la carica giusta, mi fa pensare che io non voglio rivivere un momento del genere. Se dovesse ricapitare di perdere ad un torneo così importante come è successo a Rio l’affronterei in maniera diversa.

E poi oltre alla pressione psicologica della situazione in sé, derivante dal fatto che eri giovanissima e la prima donna pugile italiana a partecipare alle Olimpiadi, c’era anche la difficoltà di competere in una categoria di peso (pesi leggeri 57-60 kg) che non era esattamente quella a cui eri abituata.

Ho combattuto a 60 kg fino a Rio perché era l’unica categoria olimpica dopo i 51 kg, che al contrario era troppo poco per me. Quindi in quegli anni di preparazione ho combattuto in quella categoria. Quando due anni fa il CIO (Comitato Olimpico Internazionale, ndr) ha deciso di inserire anche la categoria da 57 kg a Tokyo, ho cambiato di nuovo. Ma alla fine a Rio ero piccola, e penso che dovesse andare così. Quella sconfitta è stata una manna dal cielo perché in qualche modo mi ha cambiata in meglio.

Il maestro è un ruolo molto presente nel mondo della boxe. E infatti tu chiami Lucio Zurlo “maestro”. Ma mi sembra un rapporto ancora diverso rispetto a quello che si ha con l’allenatore di una squadra. Mi puoi spiegare meglio in cosa consiste questa figura?

Quando ho conosciuto il “Maestro" il pugilato e le basi del combattimento non sono state le prima cose che mi ha insegnato. La prima cosa che ha fatto è stato togliermi da una situazione difficile, quindi darmi un hobby che non fosse quello di stare in strada con persone che prendono scorciatoie. E poi mi ha insegnato i valori della vita, il rispetto per le persone, a mangiare bene. Mi ha insegnato a parlare l’italiano (sorride), perché io non sapevo parlarlo. Solo dopo si è concentrato ad essere un maestro di pugilato. Mi ha insegnato la tecnica, a combattere, a metterci il cuore e la grinta. È un maestro di vita, come un saggio che ti accompagna nel tuo percorso di vita. Per qualsiasi problema, per qualsiasi cosa io chiamo il “Maestro”.

Questo incontro come è avvenuto?

Io lo conoscevo perché a Torre Annunziata lo conoscono tutti e poi io facevo doposcuola con la moglie. E lui ha cercato sin da subito di portarmi in palestra, per farmi fare un po’ di ginnastica. Poi mia sorella ha iniziato a fare pugilato e dopo un anno circa ho deciso di iniziare anche io. Quando tu inviti una ragazzina piccola a venire in palestra non la stai invitando solo a fare pugilato, ma la stai invitando anche a non stare in strada.

Da quando sei arrivata al Centro Nazionale Federale di Pugilato di Assisi il tuo allenatore è diventato Emanuele Renzini. Come è il rapporto con lui?

A quindici anni mi sono trasferita ad Assisi. Qui ho conosciuto Renzini che ha preso il posto del “Maestro” Zurlo in tutto, non solo come maestro di pugilato. Il nostro non è solo un rapporto professionale. È stata la prima persona a cui ho detto che mi ero innamorata, e che avevo problemi di cuore. Sono stata operata diverse volte e a fianco a me sulla sedia c’era lui perché i miei genitori stavano a Torre Annunziata.

Come è arrivata la chiamata al centro pugilistico di Assisi?

Avevo vinto un Campionato Italiano junior e l’allora direttore tecnico della Nazionale mi aveva detto di voler formare una squadra di cinque o sei ragazze da portare ai Campionati Europei junior. L’Italia non aveva mai partecipato con le donne. Ho fatto due o tre ritiri ad Assisi per una decina di giorni e poi siamo partite. Due di noi avevano preso il bronzo, lui nel frattempo si era dimesso per anzianità ed è allora che è subentrato Renzini. E da lì in poi è stato lui a mettere su una squadra di giovani che sarebbero andare ad aggiungersi alle grandi, cioè noi due che avevamo vinto la medaglia.

La tua vita come è cambiata? Come hai fatto con la scuola per esempio?

Noi studiavamo da sole, ci davano i programmi. Magari ci tenevamo compagnia, ci aiutavamo a vicenda con le altre ragazze. E poi a fine anno andavamo a fare gli esami. Già a sedici anni ci allenavamo due volte al giorno.

Da un punto di vista tecnico quali sono gli aspetti che ti divertono di più, e i tuoi punti di forza.

L’aspetto che mi diverte di più è “fregare” l’avversaria. Si tratta di una sfida fra due teste e vince chi “frega” l’altra. Mentre ti muovi e fai lo sforzo fisico c’è tutto un aspetto mentale dietro per capire come fare a prendere in contropiede l’avversaria. E quando ci riesci lo percepisci dal suo sguardo, è li che capisci di averla superata. Il mio punto di forza è la velocità e la capacità di non prendere colpi.

In combattimento come gestisci emotivamente un colpo che entra e ti sorprende scoperta?

Quando prendo un pugno non riattacco subito, soprattutto perché dopo un colpo l’avversario si aspetta sempre una reazione. Quindi la riposta sarebbe inefficace e prevedibile. Mi riassesto un attimo, cerco di mettermi in posizione e di rifare l’azione da capo. E cerco di anticipare io. Come si dice: “chi mena per primo, mena due volte”. Quindi se riesco ad anticipare ho molta più visuale dell’altro e posso gestire io l’incontro, fare molte più cose belle.

La tua situazione contrattuale è abbastanza privilegiata dato che fai parte del corpo della Polizia di Stato. Immagino che tu abbia tutto il tempo a disposizione che desideri per allenarti senza dover lavorare prima e dopo gli allenamenti. Mi puoi parlare un po’ delle tue sedute?

Io vengo stipendiata dalla Polizia, quindi il mio unico lavoro è allenarmi. Se sono in caserma a Roma mi alleno in palestra. Se sono in Nazionale anche. Di solito mi alleno due volte al giorno, a parte quando sono in ferie e vado a Torre Annunziata e quindi mi alleno solo una volta. Ma anche in Nazionale siamo pagate, percepiamo una diaria, un forfait giornaliero. È molto facile per me allenarmi, sono molto libera da questo punto di vista, però devo dire che è necessario che io mi alleni tutti i giorni per combattere ad alto livello.

La tua chiamata in Polizia come è arrivata?

Avevo diciassette anni. Avevo vinto le Olimpiadi giovanili. Così sia l’Esercito che la Polizia si erano interessati a me, avevano visto che avevo del potenziale.

A parte l’allenamento ci sono altre prestazioni che sono previste da contratto?

Mi devo solo allenare. Sono nel gruppo sportivo, quindi posso fare solo quello. Anche a Roma in caserma noi abbiamo la squadra e c’è il tecnico che ci allena due volte al giorno. È come un ritiro. Quando smetterò di competere andrò a fare la poliziotta, potrò decidere se andare in strada o stare in ufficio. Grazie allo sport è possibile crearsi un futuro, crearsi un lavoro e questo chiaramente ti incentiva da piccolo a fare sport.

E da un punto di vista dei diritti cosa ti succede se se ti infortuni o se resti incinta?

Il contratto per noi atlete è lo stesso di una poliziotta quindi se resto incinta ho diritto alla maternità. Abbiamo le ferie e tutto ciò che ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Al contrario alcune mie colleghe in Nazionale se restano incinta non sono per nulla tutelate perché non hanno nessun contratto a parte la prestazione occasionale. E questo in Italia è un aspetto che duole molto alle donne che fanno sport.

In un’intervista tu stessa hai dichiarato di essere stata meno tempo in strada, sin da ragazzina, grazie alla boxe, al contrario di molte ragazze tue coetanee che come un’unica alternativa hanno avuto la maternità, spesso molto presto. In che modo lo sport può dare una prospettiva alle ragazze che magari non provengono da famiglie abbienti?

Io ho avuto la fortuna di aver incontrato il “Maestro” che mi ha spiegato sin da subito che grazie allo sport e al pugilato potevo trovarmi un lavoro, un futuro, oppure fare qualcosa che andasse oltre al semplice hobby. Io ci ho creduto subito, anche perché venendo dal Sud sapevo delle difficoltà a cui andavo incontro. Quindi, dopo aver capito che era fattibile, ci ho investito del tempo. Ma anche il solo fatto di fare sport ti toglie un sacco di energie e quando torni a casa hai poca voglia di stare in strada. Lo sport ti dà un obiettivo, che può essere anche solo il torneo regionale, o l’incontro in palestra. E gli obiettivi in un’età adolescenziale sono fondamentali, avere un sogno è la cosa più grande.

Ovviamente anche tu ti sei confrontata con la miriade di stereotipi che hanno a che fare con gli sport da combattimento e le donne. Una serie di pregiudizi che per fortuna si stanno ridimensionando. A che punto siamo? Ci puoi dare una testimonianza di prima mano?

Quando ho iniziato io eravamo in pochissime a fare pugilato perché nessuno credeva che le donne potessero combattere o potessero avere la stessa forza e grinta di un uomo, in primo luogo i maestri. Oggi, invece, i numeri sono elevatissimi. Abbiamo tantissime donne, tantissime ragazzine che fanno pugilato. Prima ai tornei eravamo le solite tre o quattro, adesso è la Federazione a scegliere le migliori. Siamo ad un buon livello e questo perché iniziano a crederci prima di tutto i vecchi appassionati di pugilato che prima erano contro e non vedevano un futuro per la boxe femminile. Adesso abbiamo anche più spazio sui giornali, in televisione. La squadra femminile è quella che vince più dei maschi e quindi si parla più di noi. Siamo ad un buon punto. Ovviamente mi sento anche di dire che se io vinco un Mondiale e con me lo vince anche un uomo, danno più importanza alla sua medaglia d’oro che alla mia. Me io me ne sono sempre fregata di queste cose, non mi sono mai sentita inferiore ai maschi, non mi sono mai lasciata trasportare dai commenti negativi dei maschilisti.

Ti piacerebbe usare la tua presenza mediatica come cassa di risonanza per farti portavoce di una categoria che, come hai messo in luce tu è vincente tanto quanto, e in certi casi pure più vincente, di quella maschile?

Per adesso l’unico modo con cui posso far parlare di queste tematiche, per poter dire la mia in televisione o sui miei social è portare le medaglie. Più medaglie porto, più la gente si convince, più mi danno spazio per poter parlare di questi aspetti. In futuro quando non combatterò più mi piacerebbe continuare a farlo.

Se tu avessi la possibilità di influire sulle modalità con cui si parla degli sport da combattimento e le donne, se dovessi spiegare in maniera facile a qualcuno perché non esiste nessun motivo per cui una donna non debba fare a pugni per soldi, quale aspetto metteresti in evidenza?

Ho sempre detto che a prescindere dallo sport le donne hanno una marcia in più. Quando fanno una cosa non smettono se non arrivano alla fine, se non ci mettono tutta l’anima e il cuore che hanno. Lo vedo anche in allenamento. Le donne soffrono di più dei maschi e questa cosa non le spaventa. Mi sembra che siano più coraggiose, più determinate, hanno più cuore. Quindi perché non dovrebbero fare qualsiasi cosa che può fare un uomo?

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