
Walter Junior Messias non aspettava il momento, perché nessuno immaginava - lui per primo - che sarebbe arrivato. Quando ha raggiunto il fratello a Torino, dopo aver giocato nelle giovanili del Cruzeiro e in terza divisione brasiliana, il suo viaggio da atleta sembrava al capolinea.
Era il 2011, Messias aveva vent’anni e alcuni trascorsi difficili alle spalle: un pericoloso incidente stradale - mentre tornava da un matrimonio in condizioni poco raccomandabili - il vizio dell’alcool. «Errori che ho fatto da giovane», spiega oggi, a quasi 34 anni.
Messias in Italia cercava il proprio posto nel mondo, trovando lavoro prima come muratore, e poi da fattorino per una ditta di elettrodomestici. Lasciando al calcio giusto qualche ora del tempo libero, con una squadra locale iscritta ai campionati UISP. Il resto è storia, anche se si fa fatica a crederci, con tanto di festa scudetto (2022) e semifinale di Champions League (2023), con più di cento presenze in Serie A (115 per la precisione), 22 reti (l’ultima a inizio stagione, contro l’Inter) e 9 assist (l’ultimo il mese scorso sul campo del Torino).
Numeri e traguardi che Messias ha raggiunto in fretta, nonostante l’arrivo su questi palcoscenici in età avanzata. In Champions League, ad esempio, ci ha messo appena venti minuti a bagnare il debutto con un gol-vittoria al Wanda Metropolitano, sul campo dell’Atletico Madrid. «Dopo aver segnato mi veniva da piangere», diceva quella sera «mi è passato nella testa quello che ho vissuto, pura emozione. Ho pensato a Dio, tutta la mia storia è scritta da lui».
Ascoltandolo, comunque, sembra che l’incredibile trama della sua carriera non abbia cambiato di una virgola il modo in cui la vive. Senza costruirsi un personaggio, con la stessa naturalezza e umiltà di quando si è presentato in Serie A, nel 2020. Lo conferma chiunque orbiti nella quotidianità di Messias, con cui abbiamo avuto l’occasione di fare una chiacchierata venerdì scorso nella sede di Axpo Italia (Pulsee Luce e Gas), sponsor del Genoa. Ed è anche questa spontaneità, oltre ai tempi e ai modi improbabili del suo percorso, ad aver appassionato il pubblico italiano. Perché è stato il calcio, prima che il contrario, a sorprendere Junior Messias.
Durante il suo percorso c’è sempre stato qualcosa da dimostrare, dall’inizio alla fine. Anche quando ha raggiunto l’apice, al Milan, dove ha conquistato con fatica ogni millimetro di credibilità; e negli ultimi mesi, durante la seconda stagione al Genoa, in cui l’usura fisica sembrava avergli presentato il conto, una volta per tutte. In una recente intervista per La Gazzetta dello Sport ha raccontato di aver anche pensato al ritiro, nei momenti più bui. Alla fine però si è rimesso in pista e ha ritrovato il sorriso, alla solita maniera: lasciando che siano i fatti, quelli soltanto, a scrivere la sua storia.
Cos’è successo in questi mesi?
Non è stato un periodo facile, per niente. Da fuori cinque mesi di assenza non sembrano tanti, ma per un infortunio lo sono, soprattutto perché all’inizio non sembrava nulla di grave. E infatti sono rientrato ad allenarmi sul campo quattro o cinque volte in questi mesi, ma poi succedeva sempre la stessa cosa, una ricaduta nello stesso punto. Abbiamo cercato di capire se fosse la caviglia, il ginocchio, il polpaccio - perché succedeva sempre qualcosa al polpaccio, ma non sapevamo da dove avesse origine. Alla fine siamo riusciti a capire che si trattava di un problema alla cartilagine del ginocchio, per cui quando correvo, e soprattutto quando facevo dei cambi di velocità, rischiavo di sovraccaricare il soleo. Per fortuna, comunque, dopo che abbiamo capito meglio il problema siamo riusciti a superarlo.
Nel frattempo anche la squadra ha vissuto un periodo complicato.
Soprattutto per questo è stato difficile, perché la squadra era in un brutto momento. Abbiamo fatto bene le prime tre partite, poi non riuscivamo più a vincere, eravamo in fondo alla classifica. Io pensavo di poter aiutare la squadra, di poter dare una mano a Gilardino, ma non riuscivo a recuperare. Per me è stato bruttissimo, davvero. Sono rimasto in casa tutto il tempo, senza uscire, senza andare in giro e fare cene fuori, perché mi sentivo male. E anche perché provavo un po’ di “vergogna” nei confronti dei tifosi: la squadra stava andando male e io non potevo fare niente per aiutarla.
Ora come stai?
Bene. Dopo essere rientrato ho avuto una piccola lesione, ma niente di grave. Non mi dà dolore o fastidio, siamo prudenti e cerchiamo in ogni modo di evitare ricadute, ma sto bene. E anche la squadra per fortuna va molto meglio adesso. Siamo stati uniti e siamo riusciti a tirarci fuori dalla crisi, ora stiamo facendo bene da un po’; e anche se si può sempre migliorare in tante cose nel gioco, era importante che arrivassero i risultati e un po’ di tranquillità.
Hai pensato davvero di smettere a un certo punto?
Sì, perché in quel momento era difficile rimanere positivo - se ogni volta che rientri, ti fai male e continui a non capire perché. Voglio dire, se ti rompi il crociato, devi stare fuori per sette-otto mesi, lo sai dall’inizio. Per me non è stato così, e sono arrivato a credere che il problema fosse il mio corpo, che forse il momento di dire basta era arrivato. La mia carriera non è stata lunga, ma pensavo che giunto a 33/34 anni fosse normale avere problemi fisici. Non sapevo cosa fare, è stato un lungo tunnel, molto brutto. Non ci dormivo la notte.
Il club e i tifosi ti sono stati vicini?
Sì, devo ringraziare tutti: la squadra, lo staff, il club, i tifosi. Hanno sempre creduto che io potessi tornare e dare una mano, mi hanno aspettato con pazienza e dato tanta fiducia. Mi stanno aspettando anche adesso a dire la verità, perché non sono ancora tornato nella mia forma migliore. Un grazie in particolare lo devo a un nostro fisioterapista, con cui ho un bel rapporto anche perché lui è di origine crotonese, e mi ha aiutato molto, dentro e fuori dal campo. Quando avevo dei pensieri, lo chiamavo e provavamo insieme a capire cosa stesse succedendo, e perché. Mi è stato davvero vicino, ed è stato importante per il mio recupero.
Com'è il tuo rapporto con la città, con il mondo Genoa?
È stato un bel rapporto dal primissimo giorno in cui sono arrivato, quando c'è stata la presentazione. Mi hanno accolto da giocatore importante, per me è stato un momento davvero emozionante, che ho sempre voluto e voglio ricambiare. Prima degli ultimi mesi, un po’ di emozioni insieme le abbiamo vissute: mi ricordo quando ho fatto l'esordio in casa, con la Roma, e ho segnato; e quest'anno con l'Inter, alla prima di campionato, che abbiamo pareggiato con un mio gol all’ultimo minuto.
A Marassi, comunque, sei abituato bene.
Sì, giocare lì ti dà uno stimolo in più. Quando recuperi palla e parti, o si apre il campo in contropiede, senti il boato dello stadio. Marassi diventa una bolgia, e in campo la senti davvero quella cosa lì, ti emoziona, ti dà una spinta. Credo che siano pochi gli stadi che trascinano così la squadra, per gli avversari non è mai facile giocare qui.
Guardando avanti, ti immagini ancora al Genoa?
Ti dico la verità: io penso alla giornata, e a godermi ogni giornata. Adesso sono concentrato sul finire bene questa stagione e trovare la forma migliore, poi si vedrà. Mi trovo benissimo comunque, con tutti: i miei compagni, i ragazzi dell'infermeria, il mister, lo staff, il direttore sportivo. Siamo una bella squadra, un gruppo unito, e ora i risultati stanno arrivando, siamo a metà classifica. Quindi sì, sono felice qui.
Al Genoa sei stato accolto con affetto. Al Milan, invece, con diffidenza.
Al Milan è stato un po' diverso, sì. Mi sono dovuto guadagnare il mio spazio, meritare ogni cosa. Maldini, Massara e il mister [Pioli, ndr] mi avevano cercato e voluto fortemente, mi hanno aiutato tanto. Ma non è stato facile all’inizio. Io sono uno che parla poco della vita privata, ma a Milano sapevano delle mie origini e del fatto che quattro-cinque anni prima ero in Eccellenza, in Serie D. Ed è normale che la gente ci pensi, quando vai a giocare in una squadra come il Milan. Immaginavo di essere un tifoso, e lo potevo capire. Poi però si è andati oltre, ed è stato pesante: ci sono state addirittura delle minacce a me e alla mia famiglia da alcuni “tifosi” - che a dire il vero è sbagliato chiamarli così, perché quelli non sono tifosi, non c’entrano niente. L’arrivo è stato un po' complicato, insomma. Ma in realtà tutto il periodo al Milan ha avuto alti e bassi, anche se penso di aver dato un bel contributo per i risultati che abbiamo raggiunto, per vincere lo scudetto, per la semifinale. In quei due anni abbiamo vinto, abbiamo fatto bene, ma c’erano sempre critiche. Fa parte del calcio, comunque. Non devi farti influenzare da queste cose: testa bassa e pedalare, sempre.
E con il club, come sei rimasto?
Ho vissuto due anni bellissimi a Milano, e questo prima di tutto grazie a Pioli, Massara e Maldini, che erano sempre presenti con la squadra, in campo e fuori. Anche quando non parlava, solo vedere Maldini lì a bordo campo, con quello che rappresenta, era una cosa importante per noi; e lo stesso vale anche per Massara, per come ti parla, ti sa dare serenità, è una persona dolcissima. Qualche mese fa, dopo essere venuto qua a Genova, ho avuto il piacere di parlare con lui, ci siamo incrociati in un albergo a Milano e abbiamo chiacchierato un po'. Sono dispiaciuto di come sono andate le cose, come ogni tifoso del Milan credo. Dopo tutto quello che hanno fatto, non è bello vedere Maldini e Massara andare via così; e anche Pioli, che nell'ultimo anno secondo me non ha vissuto un'esperienza bellissima, per quanto aveva dato al Milan.
Tu hai lasciato un bel ricordo, comunque.
Penso proprio di sì. Adesso mi capita di incontrare per strada dei tifosi milanisti, e mi fanno sentire il loro affetto. È una cosa che ho dovuto conquistare sul campo e con il tempo: mi fa piacere, ne sono orgoglioso. Io ho fatto quello che potevo, ho dato sempre il mio massimo e credo che adesso i tifosi del Milan lo apprezzino.
Torni sempre lì: testa bassa e pedalare.
Io credo che il campo sia il tribunale: quando tu fai bene in campo, non c'è bisogno di parlare fuori. Io ho sempre cercato di lavorare, di fare le mie cose, e basta. Poi le chiacchiere, quello che dice la gente, ti dico la verità: noi calciatori un po' dobbiamo prendere le distanze da certe cose. Mi sono disattivato su Instagram per questo, perché non fa bene. Perché magari ti trovi mille messaggi e commenti educati, però uno ti critica o magari ti dice qualcosa con cattiveria, e sembra che ci sia solo quello. In generale è una cosa che non aggiunge niente alla mia vita. So che i social servono per il nostro lavoro, ma finché è una cosa che posso evitare, la evito. E comunque non succede solo sui social, anche in televisione mi sono capitate domande come: «ti senti da Milan?», ma non ho mai risposto. Ho scelto il tempo e ho sempre lasciato parlare il campo.
Hai scelto il tempo, l’alleato di sempre.
Io penso che le cose succedono sempre con il loro tempo. Dio sa quello che fa, non accade mai niente per caso. Se fossi arrivato a questi livelli da giovane, a vent'anni, avrei avuto un percorso completamente diverso; magari non avrei avuto la testa per affrontarlo nel modo migliore, ora invece sì. Dopo che mi sono sposato e ho avuto dei figli, la mia testa oggi è diversa. Sono arrivato tardi, ma sono contento di come sono andate le cose, assolutamente. Di sicuro avrò una storia particolare da raccontare ai miei nipoti, un giorno. Anzi ci scherzo già con i miei figli, che giocano a calcio, guardano partite e ogni tanto mi prendono in giro, mi dicono che sono scarso. Io gli rispondo: «Va bene, va bene, facciamo che quando vincerete uno Scudetto, allora potrete parlare con me!».
A proposito: quella squadra che vinceva lo scudetto e giocava una semifinale di Champions, cosa ci fa oggi al nono posto in classifica?
Secondo me adesso il Milan ha una squadra forte, con grandissime qualità, a cui però manca un po' di equilibrio. Perché se vai a vedere la squadra che hanno, tra i giocatori che c’erano già e quelli che si sono aggiunti adesso come Joao Felix e Gimenez, c’è tanta gente forte. La classifica di sicuro non rispecchia il valore della squadra, ma come ho detto prima: a parlare è il campo, e lì il Milan ha fatto fatica. Da fuori è difficile farsi un’idea, anche perché diversi punti di riferimento degli anni in cui ero al Milan oggi non ci sono più. Penso a Kjaer e Giroud, ad esempio. Oppure a Zlatan [Ibrahimovic, ndr], anche se è rimasto in società. Era un gruppo molto unito e coeso. Adesso non so se sia ancora così, da fuori è difficile dirlo.
Hai sempre parlato di Ibra come un punto di riferimento. Eppure sembra un po’ il tuo opposto - caratterialmente, davanti ai media, nella gestione delle critiche.
Se conosci Zlatan da vicino, scopri che è il contrario di quello che si vede da fuori. Ed è un uomo spettacolare, che ha un gran cuore, nonostante il personaggio pubblico che si è costruito. Con me è sempre stato molto disponibile: mi parlava, mi dava consigli, aveva una buona parola per ogni situazione.
Una curiosità: a te piace guardare partite di Serie A? In passato avevi detto che “c’è un po’ troppa tattica” nel nostro calcio.
Lo direi ancora, per i miei gusti è un po' troppo tattico. Vengono lasciati davvero pochi spazi, e manca il dribbling, la fantasia che piace a me. È l'effetto Gasperini, no? Ha portato in Italia questo uomo-contro-uomo a tutto campo, e un po’ ha cambiato il modo in cui giocano tante squadre. Ma l’attenzione alla tattica non è solo in campo, è una cosa che noto in generale quando si parla di calcio in Italia.
Ovvero?
Se c’è un gol, ad esempio, si cerca sempre cosa ha sbagliato la difesa, prima che i meriti di chi ha segnato. Per dire, mi viene in mente la punizione di Dimarco contro il Napoli: un gol bellissimo, da applaudire e basta, e invece la gente cercava un errore nella barriera.
Sei attratto più dall’emozione che dalla perfezione, insomma.
Sì, anche se il calcio di oggi è più freddo e “meccanizzato”, meno istintivo di un tempo. Il VAR credo che abbia tolto tante emozioni. Quando fai un gol, non sei mai sicuro di poter esultare: devi aspettare di capire se c’è qualcosa di potenzialmente irregolare da rivedere, magari un giocatore che ha sfiorato un altro, oppure un tocco di mano di cui non ti eri neanche accorto. E in tutto questo, non sono state risolte le polemiche, perché ci sono comunque le interpretazioni degli arbitri e i casi-limite.
Un’ultima domanda, non per importanza, sul tuo vissuto in Italia. Hai preso parte al docu-film “Seydou, il sogno non ha colore”, in cui si parla di lotta al razzismo nel calcio. Ti sono mai capitati episodi del genere negli stadi italiani?
Negli stadi no, ma è comunque importante che noi calciatori parliamo del problema, come fa Vinicius Jr ad esempio. Perché noi possiamo aiutare e proteggere chi non ha voce, non essendo un personaggio pubblico. Il calcio è una finestra visibile in tutto il mondo, in cui si deve parlare di questi problemi, che ci sono. Io stesso ho vissuto episodi di discriminazione nei miei primi anni in Italia.
Ti va di parlarne?
Sì, ricordo un brutto episodio quando facevo il fattorino. Un giorno io e un ragazzo senegalese siamo andati a fare una consegna di una lavatrice, una signora ha aperto la porta e ci ha detto che aspettava due ragazzi bianchi; le ho risposto con calma ed educazione, dicendo che avremmo riportato la lavatrice in negozio e organizzato una nuova consegna, e lei ci ha ripensato. Abbiamo fatto il nostro lavoro e siamo andati via, ma è stato un brutto momento da vivere. Sono episodi che fanno stare male le persone, c’è chi arriva a pensare al suicidio perché si sente escluso dalla società per il colore della pelle o per il Paese da cui proviene. E oltre al razzismo, ci sono tante discriminazioni da combattere: il bullismo su internet, l’aspetto fisico, eccetera. Nel 2025 si vedono ancora tanti brutti episodi, e provo pena per chi si comporta così e dice queste cose. Sono persone che non pensano, che hanno un cervello che non funziona bene. E che hanno un vuoto da colmare, credo. Perché se per sentirti forte devi insultare altre persone per cose che non hanno senso, e lo fai con tutta quella cattiveria, sei un fallito, una persona che probabilmente non ha mai combinato niente nella vita e deve sfogare la sua rabbia.