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L'onda perfetta è la prossima, intervista a Leonardo Fioravanti
14 apr 2021
Intervista al doriforo e icona del movimento surfistico italiano.
(articolo)
19 min
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La voce di Leonardo è leggermente arrochita, quel tipo di voce che assoceresti al giovane di Roma Nord in vacanza sul litorale nelle ore più vicine all’alba, divertita, scanzonata. Mi risponde da nove fasce di fuso orario più a est, dalla stanza d’albergo di Sydney in cui sta scontando la quarantena prima dell’inizio della tappa della World Surf League: mancano quarantotto ore al fine pena, più tardi avrei scoperto che in quel giorno piovoso aveva raccolto l’acqua che si infiltrava dalla finestra in un secchio retto da un ananas. Le giornate, tutte uguali, fatte di allenamento e video per il suo vlog, erano iniziate con una camera con vista su un cantiere edile, cullate da un rumore fastidiosissimo, buia - quanto può essere doloroso, stare al buio, per chi vive una passione fatta sostanzialmente di aria aperta e sole? - e sarebbero finite con una bottiglia stappata in finestra, e un rettilineo prima di scollinare e trovarsi di fronte alla sterminata immensità dell’Oceano, il suo elemento naturale.

Newcastle ha una luce strana. crepuscolare. La pioggia sottile mitraglia l’acqua color del piombo. È la prima giornata di gara, Leonardo Fioravanti si presenta carico e pieno di aspettative. È quinto nel ranking del 2021, ed è inserito nella decima heat (il decimo round di gare), insieme a Griffin Colapinto e Ryan Callinan, che è nato a qualche isolato di distanza dalla spiaggia su cui si svolge la gara.

Tutti gli altri partecipanti alla WSL che non vengono dall’Australia sono arrivati insieme, su un volo da Los Angeles: l’intero circuito, più o meno, in volo sul Pacifico. Leonardo, in un’intervista a Tuttologic Surf, ha raccontato di aver sentito, poco prima dell’imbarco, Kelly Slater: hanno scherzato, con quel tipo di umorismo irriverente e un po’ macabro che si diffonde negli ambienti con un grande senso di cameratismo, sull’ipotesi che quel volo andasse giù, insomma, ti immagini? Mi ha ricordato la scena di Fire Saga (occhio, spoiler!) in cui la nave su cui si sta svolgendo la massima competizione canora islandese, insomma: esplode.

Uno dei dettagli più interessanti da osservare, nel surf, è come si comportano gli atleti prima di scegliere l’onda da cavalcare. L’espressione di attenta analisi, gli sguardi mentre pagaiano sulla tavola.

La heat di Leonardo non è eccellente. Le condizioni del mare non sono precisamente quelle più congeniali a Fioravanti, le onde piccole chiamano un approccio molto tecnico. Nella sua heat Italo Ferreira dà sfoggio, con allure da grande entertainer, di una serie di carves - le sterzate sulla cresta, la figura che più ricorda lo skate - agili, stilose, esplosive. Le due onde migliori che Leonardo riesce a cavalcare sono le ultime, ma non sono sufficienti a fargli scalare posizioni. Si piazza terzo, qualche giorno più tardi avrà l’occasione di essere “ripescato” gareggiando nell’Elimination Round.

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«Se c’è un luogo in cui tutto è iniziato», mi dice, «è l’Ocean Surf». Non ha bisogno di spiegarmi di più, di tracciarmi coordinate, perché io, che sono nato, cresciuto e vivo a una trentina di chilometri dai luoghi di Leonardo, l’Ocean Surf di Cerenova lo conosco bene: ci andavo, a inizio dei Duemila, indossando dei pantaloni baggy e delle gran camicie hawaiiane, mescolandomi alla scena surfista del litorale. Facevo rap, in quegli anni, ma un pantalone largo e un approccio festaiolo erano un collante piuttosto solido tra tutte le sottoculture un po’ più street della costa. «Mi ci portavano i miei, e finivo sempre ad addormentarmi sui lettini, coperto da un asciugamano». «Mio fratello Matteo mi faceva vedere i video di Andy Irons e Kelly Slater, due surfisti che veramente abbiamo sempre inseguito. Quando vedevo quei video pensavo che era proprio un sogno, vederli gareggiare, surfare le onde più belle del mondo… Ma ero proprio appassionato di Kelly, per me Quicksilver era il mio sponsor da sogno».

Immaginiamo quindi, ora, un ragazzino di dieci anni, piuttosto bravo a surfare, che nello stesso anno in cui esce Surf’s Up - I re delle onde («ma davvero sono passati già quattordici anni?», mi chiede Leonardo quando glielo faccio notare) firma un contratto con Quicksilver. «Avevo anche Volcom dietro, a quei tempi, mi aveva offerto forse un po’ di soldi. Ma in Quicksilver c’era Kelly. E io volevo essere come Kelly. Sono 13 anni che sto con loro, mi hanno aperto una grandissima strada». Con Quicksilver ha cominciato a gareggiare nel circuito, prima quelli riservati ai suoi pari età, poi con i più grandi.

Kelly Slater, quindi, come modello e idolo indiscusso. «Perché Kelly è una macchina da competizione». La competitività è una sua costante. Nonostante sia tifoso interista si dice grande ammiratore di Cristiano Ronaldo, che è un po’ l’archetipo di tutta una serie di concetti che Leonardo cerca di incarnare quotidianamente: applicazione, sacrificio, voglia di essere il migliore, indiscusso. Si dice che in ogni campo, per realizzarsi davvero, occorre in qualche modo realizzare un parricidio, che sia un gesto necessario. Leonardo ride. Il suo parricidio è stato incontrare, scontrarsi, gareggiare con Kelly Slater: è successo tre volte. «Non avrei mai sognato di gareggiare con lui, figuriamoci di batterlo. Non so come sia successo, ma l’ho scoppiato tre volte di fila. Il fatto è che sono molto competitivo, e non mi voglio mai far battere da nessuno». Quindi, figuriamoci da Slater. Gli chiedo se sia quello il momento in cui ha preso coscienza che questo sarebbe stato il campo in cui avrebbe rotto il culo a tutti. Voglio dire, come si fa a passare, senza prendere un po’ coscienza di sé, dal giocare a Kelly Slater Pro Surf sulla Playstation a surfare-contro-Kelly-Slater-e-batterlo?

La risposta di Leonardo è piuttosto boasting: «lo sapevo già da prima». «Sapevo di avere il livello, ma il 2016 è stato davvero l’anno in cui sono passato da essere un ragazzo a essere un uomo. Lì è sbocciata la mia carriera, con le prime qualificazioni per il circuito mondiale». Vale a dire un anno esatto dopo la vittoria dell’Ocean Side, il mondiale U18 che Fioravanti ha conquistato esattamente l’anno in cui sarebbe diventato maggiorenne. E un anno prima di guadagnarsi una wildcard per la World Surf League. Il primo, e finora unico, italiano ad esserci mai riuscito.

Credits Red Bull Content Pool.

È innegabile che Leonardo sia il portavoce di un intero movimento. Per quanto parlare di surf italiano finisca per risultare riduttivo, in qualche modo. Resta il primato di essere stato il primo in WSL. «Sai che per me non è mai stata una cosa tipo non è possibile che succeda perché sono italiano? Ho viaggiato tantissimo, ho sempre gareggiato contro i giovani più forti del mondo: australiani, americani, brasiliani. Mi dicevo: non è che crescendo non avrò più il loro livello. È stato quasi facile qualificarmi per il circuito: il primo anno che ci ho provato ci sono subito riuscito», dice con un tono che non è tracotante ma neppure stupito, direi consapevole. «C’è gente che ci prova per dieci anni e non ci riesce». «Non è che voglio vantarmi», dice subito dopo, «ma il challenge più grande non è stato, alla fine, entrare nel circuito. È rimanerci».

Mi chiedo, ma riconosco che è una curiosità molto ingenua, molto narrativa, cosa lo abbia spinto, sopra ogni cosa: il senso di rivalsa? La volontà di dimostrare che anche senza un retroterra culturale radicato si può eccellere in una disciplina? Ho sentito, in una cronaca, qualcuno dall’accento molto australiano quasi piccato, sinceramente stupito, dire «non so chi sia, ma la sta cavalcando». Alla fine, forse, la sua italianità è più funzionale a chi deve raccontare Leonardo Fioravanti, che non a Leonardo Fioravanti in sé.

«Quello che ho fatto non è mai stato fatto da nessun altro, in Italia. Ma a me non mi frega di essere l’italiano più forte: io voglio essere il più forte e basta. Perché mi faccio un sedere così per allenarmi, ce la metto tutta ogni giorno per arrivare a quei livelli, o no?».

La heat della Elimination Round vede Fioravanti con Jadson Andre e Colin Coffin. Il commentatore paragona la heat a un Girone Della Morte dei Mondiali di Calcio. Tutti e tre i surfer sono di livello assoluto, la swell di giornata presenta onde che sembrano esattamente il tipo di onda che Leonardo preferisce. Sta per cavalcare la terza: la telecamera lo inquadra da lontano, Leonardo inizia un tango intimo con l’acqua, con la schiuma dell’onda, scivola agile, con potenza, con un senso di controllo palpabile. Infila uno, due, tre cutbacks, zigzaga sulla cresta, e quando l’inerzia finisce disegna un arcobaleno sul curl dell’onda prima di infilare un’altra serie di carves. I giudici gli assegneranno il punteggio monstre di 9.0. Sarà il punteggio più alto dell’intera tappa della WSL.

Il 2021 sarà l’anno in cui il surf farà il suo esordio alle Olimpiadi. Alla base della scelta del Comitato Olimpico Internazionale c’è la voglia di «portare più giovinezza ed eventi più vibranti» ai Giochi. Ma forse, in fin dei conti, uno dei moventi può anche essere stato - al pari dell’inclusione dello skate - quello di aggiungere più narrativa, di portare all’interno di un evento prettamente agonistico un sostrato culturale che potesse restituire una realtà, come dire, aumentata.

A cavallo tra gli anni ‘10 e ‘20 del Ventesimo Secolo, Duke Kahanamoku, gareggiando per gli Stati Uniti, ha conquistato tre medaglie d’oro nel nuoto. Duke, come lo ha definito Sandro Veronesi «il surfista hawaiiano bello come il sole, possente, leggero come una farfalla, che ha insegnato al mondo a cavalcare le onde più alte del Pacifico», nell’accettare la medaglia sul podio dei Giochi di Stoccolma del 1912, espresse la sua volontà più recondita, quella di vedere il surf, un giorno, prima o poi, alle Olimpiadi. Cento anni più tardi il suo sogno si sarebbe realizzato. Ed è esattamente di questo tipo di narrazione, che parlo.

«È stata una mossa molto intelligente: comunque le Olimpiadi sono diventate un po’ come le Olimpiadi invernali», mi dice Leonardo: «guarda lo snow: ha fatto il botto, perché è molto più interessante, più giovane, più d’impatto, no?». «Sono sicuro che le Olimpiadi tireranno fuori altri atleti, e per il movimento intero, oltre che per il nostro Paese, sarà un’occasione di crescita per il surf senza precedenti». Leonardo sembra avere sinceramente a cuore il futuro del surf in Italia. Nell’intervista a Tuttologic Surf ha lasciato intuire, in maniera neppure troppo velata, di essere coinvolto nel progetto d’apertura di una wave pool a Roma, cioè una piscina indoor con le onde, su cui allenarsi. È un’immagine che cozza un po’ con quella, radicata nell’immaginario collettivo, del core surfer, sempre impegnato a storcere il naso - se non osteggiare - a qualsiasi tentativo di ingresso - ingerenza - nel proprio mondo da parte dei neofiti.

Quando chiedo a Leonardo di descrivermi il suo stile attraverso una playlist minima, una colonna sonora, non arriva dritto al punto. Quello che mi descrive è un mélange di «potenza, stile - io ci penso sempre, allo stile, per me è importantissimo - e grinta». «Non è che il surf inizia quando sei sull’onda: quando sei un atleta lo sei dentro e fuori dall’acqua, e io se c’è una cosa che faccio sempre, prima di entrare in acqua per una gara, è dirmi adesso parte il leone, tira fuori il leone, Leo!». Non avendo neppure un riferimento, una traccia, mi trovo in difficoltà: non riesco a capire se si possa definire il surf uno sport punk. «Per me è più rock’n’roll: dopotutto quando pensi al surf è quello, lo stile che ti viene in mente».

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Leonardo è testimonial di Gucci, che a pensarci bene è qualcosa che - quando l’ho scoperto, e l’ho provato a interpretare con i miei meccanismi interpretativi, forse un po’ troppo legati a una visione del surf so ninety - ti fa esplodere la testa. «Per la moda ho una passione molto forte, a quattordici o quindici anni mi hanno cominciato a invitare alle sfilate, marchi tipo Dsquare, Monclair, o Armani». «Ho sangue italiano, alla fine, gli altri mi prendono in giro perché mi vesto bene, che poi sarebbe diverso da come si vestono praticamente tutti i surfisti: pantaloncino e ciabatte tutti i giorni dell’anno». Prende un po’ per il culo gli stereotipi, Leonardo, perché non è per niente tipo da cliché. «A volte forse rimaniamo un po’ troppo nel nostro mondo». Negli ultimi tempi, poi, è praticamente diventato un’icona di stile: l’Inter ha voluto mettere il suo volto su parte della recentissima campagna di rebranding, altri marchi - anche non propriamente di streetwear - se lo contendono. È fondamentale, lo stile. È come nel calcio: quando vedi un giocatore come Zlatan, ecco Zlatan ha uno stile bellissimo, e poi segna pure». Surfare, ovviamente, non è un’azione che si astrae, o che può esentarsi, dalla sua visione del mondo. Tra le molte manovre che gli ho visto compiere in allenamento, in gara, sui social, gli chiedo se casomai ce ne sia una preferita, sopra tutte le altre: una specie di sua personalissima signature move, che definisca il suo stile. «Il tubo», risponde senza esitazioni. «Fare i tubi. Hai visto quando passi sotto l’onda, no? Ecco: lì provi una sensazione incredibile».

Mi chiedo, portando la scena a qualche mezz’ora prima di quando Leonardo ha occasione di infilarsi nel ricciolo più o meno grande che si curva su se stesso in mezzo al mare, cosa si provi. «Non sai poi molto, di quello che succederà in mare. Segui il meteo, certo, e poi arriva il momento». «Quando le onde sono perfette non sai che sensazione è! inizi a urlare, a sbrigarti per entrare in acqua, a prepararti, è qualcosa di euforico. Se poi in acqua non c’è ancora nessuno, allora sì che divento proprio matto», dice Leonardo.

Certo, l’onda perfetta non esiste: è solo un trucco della borghesia, o un ottimo strumento di retorica. «L’onda perfetta non c’è, perché ce ne sarà sempre una migliore». Alcune di queste migliori, Leonardo, le ha cavalcate, fese, violate. «Questo è quello per cui viviamo, per cui surfiamo», dice in uno dei video del suo vlog, di fronte a un mare in condizioni ottimali per fare surf. Deve essere un’esperienza unica. E di fatto, stando alla sua narrazione, lo è, almeno nella misura in cui ti scompaiono le parole dagli incisivi, se poi ti chiedono di raccontarlo. «L’unico momento nella vita in cui il mondo si ferma, e tu e la natura siete una cosa sola… sembra filosofico, ma lo è davvero. È difficile da spiegare, se non hai modo di provarla: ma se ci sei riuscito, diventi matto, ridi come uno scemo».

Le domande che vorrei fargli, e che gli faccio, sono tutte piuttosto naif: cosa si sente, là sotto? Intendo: proprio a livello di rumori. Un grande rombo? Un vuoto pneumatico? «Se stai gareggiando, non senti niente. Durante una gara hai una, due possibilità di fare un tubo: quindi sei concentrato al massimo». Guardando i video, centinaia di video di surfisti che fanno tubi, ho notato la costante della mano che accarezza la parete. Leonardo mi spiega che tecnicamente serve per rallentare, «mettere la mano nell’onda è il tuo freno», ma a me piace pensare che sia anche un gesto carino, di intimità. «Sì, la lasci anche per cercare di sentire l’onda, per sentirla più vicina».

Credits Red Bull Content Pool.

Non puoi battere l’oceano; ma questo non ti impedisce di provarci. Il rapporto con l’elemento, per un sufer, è molto più profondo del rapporto che in qualsiasi altro sport si instauri tra l’atleta è il contesto in cui gareggia. Si crea una simbiosi. E un rapporto duale: il mare è compagno di squadra leale, o avversario temibile? «A me il mare ha dato tutto, e mi darà per sempre tutto. Però mi ha anche quasi tolto, tutto».

«È più potente di qualsiasi cosa al mondo, non puoi cercare di andargli contro, sfidarlo. Devi sempre saperlo rispettare - devi davvero pensarla così - devi sapere che non puoi fare niente contro di lui, e nei momenti difficili devi rimanere calmo, e dirti che andrà tutto bene». «L’uomo deve ricordare che è parte dell’oceano, che l’oceano non deve adattarsi a lui, ma il contrario; che deve assimilare il movimento delle onde, se vuole essere assimilato al loro interno», scriveva Jack London (grande appassionato di surf, peraltro) in “Surfing: a Royal Sport”. Per due volte l’Oceano ha risucchiato Leonardo, scaraventandolo contro il reef. La prima, nell’anno in cui avrebbe poi vinto il Mondiale U18. Un infortunio che ha quasi rischiato di fargli appendere, non so se si dice, la tavola al chiodo. «Mi sono rotto la schiena, mi sono dovuto operare. L’infortunio alla spalla (del 2017, NdR) è stato meno pericoloso ma comunque sono dovuto stare 3 mesi e mezzo fuori dall’acqua, ed è dura perché quando sei a questi livelli non vuoi saltare nessuna gara, perché ogni gara è un’opportunità». Se c’è stata una costante, negli infortuni di Leonardo, è stata l’inevitabilità: «L’unica cosa che proprio non potevo fare era non andarci, su quelle onde».

Come dice John Selya, uno dei protagonisti di Giorni Selvaggi di Finnegan, «ti devi arrendere a qualcosa che è più forte di te». Non credo esista nessun altro sport in cui l’applicazione atletica debba convivere con un senso di pacifica comprensione del contesto simile a quella del surfer. Forse l’arrampicata, o lo sci di fondo.

«Perché i surfisti fanno quello che fanno?», si chiede ancora Selya. «Perché è una cosa pura. Sei solo. Sei sempre in minoranza. Ti possono sempre fare a pezzi. Eppure accetti tutto questo, e lo trasformi in una piccola, breve forma d’arte senza molto senso». In fondo, la quintessenza del surf è la libertà, come dice Alessandro Masoni, surfista e storico della disciplina. Un sentimento spesso associato, in passato, a un immaginario collettivo trasversale e allo stesso tempo settarista, gitano ma al contempo radicato nel senso di appartenenza. Questo pout-pourri di avvocati, adolescenti gasati, quarantenni con figli, fricchettoni generano un paradosso in realtà estremamente coerente: da un lato esprimono la loro voglia di rimanere ai margini della società, liberi, su un furgoncino sgangherato di spiaggia in spiaggia, a viversi i loro “giorni selvaggi”. Dall’altra nutrono il loro bisogno di mettersi in mostra, l’esigenza di un pubblico. E anche, in qualche modo, la ricerca dell’adrenalina, del pericolo.

«Non so se conosci Francisco Porcella», mi chiede Leonardo, «lui spinge su onde molto grosse. Ci ho provato anche io, mi piace tantissimo, ma è davvero pericoloso e non vale la pena, per me. Per chi compete a livello agonistico il pericolo è l’ultimo dei pensieri, o forse il primo. Ci facciamo il culo, perché dovrei rovinare tutto per correre un pericolo?». Il sacrificio, per Leonardo, è quel tipo di missione che bilancia esattamente piacere e dovere. «È da quando ho dieci anni che viaggio in giro per il mondo; ok, è un sogno che si è realizzato, ma non ho avuto un’adolescenza come un ragazzo normale, per mesi e mesi non vedevo mio papà, mio fratello... ». Gli confesso che mi sembra una gabbia dorata, in effetti. Però, poi, ripensandoci mentre scrivo questo pezzo, realizzo che forse non riusciamo mai davvero appieno a comprendere quale senso di privazione possa opprimere un ragazzo così giovane sradicato dal suo contesto.

A un giornalista del Guardian, Finnegan una volta ha detto «Il surf? Ormai è annidato tra lo yoga e il golf». Mi sembra una visione un po’ cinica, che sicuramente si riferisce al free surf ma mi piacerebbe provare a capire cosa ne pensi, per esempio, Finnegan dell’ingresso del surf alle Olimpiadi. Della sua declinazione agonistica.

In Leonardo, comunque, sopravvive anche una sfumatura più intima, riflessiva. «Quando sei in acqua sei in un mood zen, stai bene, sei tranquillo. Tutti i problemi li lasci all’asciutto, vai in acqua, per me almeno è così: in acqua sono in un altro mondo». Un mondo che per mesi è sembrato una chimera, un’Arcadia irraggiungibile. «È stato difficile fermarmi. Per chi viaggia tutto l’anno, per chi è abituato a stare in acqua: abituarsi a questa vita diversa, nell’ultimo anno, è stato strano». Quando la pandemia è esplosa, Leonardo ha deciso di fermarsi per cinque mesi in Australia, prima di tornare in Europa. Aveva appena conquistato il più importante successo in carriera, vincendo il Sydney Surf Pro. Un contrappasso che è sembrato esagerato, in qualche modo. «Ho cercato di lavorare su altri aspetti, di migliorarmi come surfista, ho passato più tempo con la famiglia, ad allenarmi in maniera diversa: più pesi, più preparazione atletica». Gli chiedo se gli sia mai passato per la testa che non sarebbe mai più stato niente come prima. «Alla fine il calcio ha ripreso, la moto gp, il tennis… prima o poi sarebbe toccato pure a noi, no?».

Nell’approccio di Leonardo c’è - la percepisci netta quando ci parli, quando lo vedi in acqua, quando osservi i suoi video del vlog - una voglia di mangiarsi tutto il mondo. Un desiderio di spaccare il culo che però non è spacconeria, non è boasting, ma più sincera volontà di pretendere la moneta di scambio per l’impegno quotidiano che ci mette. Quando gli chiedo dove si veda da qui a sei mesi, le idee le ha piuttosto chiare: «tra i top 10 al mondo». Un obiettivo pretenzioso, a corto raggio. Alzo l’asticella: con una medaglia al collo? «Prima ci devo arrivare, alle Olimpiadi!», mi dice. A Maggio, dopo la tappa australiana del WSL, ci saranno i Mondiali a El Salvador, che varranno anche come gara di qualifica alle Olimpiadi. «Però certo, perché no? Sarà un anno importante per la mia carriera, posso davvero fare la storia. O preparare la storia per i prossimi quattro, otto anni». Poi si fa più riflessivo, quando gli chiedo a lungo raggio come si vede. Tipo tra dieci anni. «Verso la fine della mia carriera… anzi no, dai, dieci anni sono pochi, sarò ancora in forma secondo me, anzi bello in forma, e carico e a spingere. Con in più tanta esperienza. Alla fine Slater ancora gareggia, ne ha quarantanove di anni! L’unica cosa che voglio, alla fine, è arrivare a fine carriera senza rimpianti. Ce la metto tutta e voglio mettercela tutta sempre, durante ogni gara, durante ogni allenamento». Quello che succederà dopo, poi, chi può saperlo. Il fratello Matteo gli ha suggerito di comprare un terreno in Francia per coltivarlo. Per pensare a un dopo. Lui si vedrebbe bene anche nel mondo della moda.

«La bellezza di questo sport è che ti porta nei posti più belli del mondo, certo, ti fa conoscere persone speciali, ti insegna il rispetto per l’oceano… Ma alla fine, l’insegnamento più grande - che sia per le persone, o per il mondo in cui vivi - che ti dà il surf è sempre uno soltanto: il rispetto. E l’umiltà».

Mi sembra difficile immaginare Leonardo che scelga, un giorno, di smettere di salire su una tavola, guardarsi intorno, cercare l’onda migliore da cavalcare. E fin quando gareggerà a livello agonistico sono certo, e un po’ lo spero, che non dismetterà mai quel delizioso approccio, tutto romano, di irriverente coscienza dei suoi mezzi. Che è un po’ come ti immagineresti un surfista. Che è un po’ come devi immaginarti il più forte surfista italiano, finora, della storia.

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