
Gli sport individuali sono più crudeli e cinici degli sport di squadra. In assenza di compagni di squadra a cui chiedere (o dare) aiuto, con cui condividere gioie, dolori e responsabilità sul campo, non ci si può aggrappare a nulla. Anche se suona un po’ retorico, si dice spesso che in questi casi si è avversari prima di tutto di se stessi. Lo si dice specialmente di quegli sport che prevedono uno scontro, di qualsiasi tipo esso sia, uno contro uno. È il grado zero della competizione: o tu o io. Lo spettacolo di due persone, una di fronte all’altra, che si fronteggiano per stabilire chi è il migliore riporta lo sport a un’essenzialità antica e primitiva che lo rende, ai miei occhi, semplicemente brutale.
Proprio per questo l’esperienza della sconfitta, in sport del genere, è più profonda e lacerante. Quando perdi negli sport di squadra, la tua sconfitta è sineddoche di quella della tua squadra, reale perdente dell’incontro. Negli sport individuali lo sconfitto sei tu, nella tua interezza, c’è il tuo nome accanto a qualsiasi termine o segno grafico che indica la sconfitta. È un fardello che per essere sopportato richiede solidità mentale e serenità d’animo.
Penso al peso della sconfitta più che alla leggerezza della vittoria perché sto andando Ceccano, in provincia di Frosinone (circa un’ora e mezza da Roma, dove abito), a conoscere e intervistare Luigi Mantegna, detto "petto d’angelo", un pugile professionista di 48 anni che detiene - nel momento in cui ne scrivo - un record di 2 vittorie, 112 sconfitte e 2 pareggi. Luigi è, glossario pugilistico alla mano, un journeyman, termine inglese che identifica quei pugili che combattono spesso (1-2 volte al mese: un pugile di media combatte 2-3 volte l’anno) e quasi sempre in trasferta e in short notice (con poco preavviso, cioè), la cui funzione, più che vincere, è far lavorare il proprio avversario, collaudarlo, permettergli di mettere in mostra le proprie capacità. La resa italiana del termine è mestierante, o, appunto, collaudatore: in entrambi i casi si perde l’idea del viaggio, ma ce li faremo andare bene.
Carriere da journeyman come quella di Luigi sono una realtà consolidata nel mondo della boxe. Spulciando nei record di praticamente tutti i pugili che hanno un saldo tra vittorie e sconfitte molto positivo, ci si imbatte facilmente in incontri - specie a inizio carriera o dopo una sconfitta, oppure al rientro da un infortunio - disputati contro avversari che, al contrario, hanno accumulato moltissime sconfitte a fronte di una manciata di vittorie. Quei pugili sono, appunto, mestieranti. Gente che di lavoro accetta match a qualsiasi - e in qualsiasi - condizione, che parte, va dove deve andare, fa quello che deve fare, e poi torna a casa. Al netto di sempre possibili colpi di scena, l’esito di questi incontri è spesso scontato.
È un bel paradosso, che sembra scardinare le logiche base della competizione sportiva: non si tratta di match truccati, ma tutti sanno già come andranno a finire. A caldo non mi viene in mente un altro sport in cui è possibile osservare una dinamica di questo tipo. In una serie che sto guardando che si chiama Sprint, il campione olimpico dei 100 metri Noah Lyles dice che per competere in uno sport a livello individuale bisogna sentirsi degli dei ed essere convinti di poter fare ciò che tutti ritengono impensabile: conceive, believe, achieve. Volendo tracciare un tanto ideale quanto inutile arco dei possibili approcci mentali allo sport individuale, quello di Lyles e quello dei mestieranti si posizionano ai poli opposti.
C’è da dire che nel pugilato professionistico non sono tantissime le occasioni in cui a scontrarsi siano davvero due avversari dello stesso livello. Nella boxe professionistica non esistono campionati né tornei, spesso non ci sono neanche ranking a determinare il livello degli sfidanti. A scegliere sono i management (o le palestre) che organizzano le riunioni di pugilato (così si chiamano gli eventi di boxe) che organizzano match, per i propri atleti, contro gli avversari che preferiscono.
Le carriere dei pugili, specie di quelli promettenti - non solo sportivamente ma anche mediaticamente - si costruiscono: significa che, in un ipotetico percorso verso una cintura, solitamente le prime uscite vengono fatte fare contro un mestierante. Una volta che il pugile ha preso confidenza col ring si può alzare il livello degli avversari, e si va avanti così possibilmente senza “sporcare” il record, in modo tale da giungere a competere per un match titolato con un bel, che ne so, 17-0 accanto al proprio nome. Per un pugile che ha un record del genere, però, appunto, ce n’è un altro, da qualche parte, che ha un record di 0-17. O 2-112-2, come nel caso di Mantegna. Gregari in uno sport che in teoria prevederebbe solo frontmen, i mestieranti sono - come ha scritto il giornalista inglese Mark Turley in un libro del 2014 intitolato proprio Journeymen - l'altro lato del mondo della boxe.
Incontro Mantegna fuori dalla palestra dove si allena, la Ring Ciociaro Team Barrale di Ceccano, in un mercoledì pomeriggio di fine luglio. La prossimità alle montagne della Ciociaria abbassa la temperatura di 3/4 gradi rispetto a Roma, un fatto che più che darmi sollievo mi ricorda che il mondo sta per finire, perchè comunque fa ancora molto caldo. Io e Luigi ci sediamo su una panca nella sala principale della palestra e cominciamo a parlare mentre lui si prepara per una sessione di allenamento leggera: come mi dirà più avanti, è il primo allenamento dopo il match che ha disputato una decina di giorni prima - nonché, probabilmente, l’ultimo prima di quello successivo, una decina di giorni dopo. Gli chiedo di raccontarmi i suoi inizi col pugilato.
«Avevo 17 anni. Tre, quattro mesi prima di andare a fare il militare conobbi Nando [il suo attuale maestro, ndr] che allenava in una palestra qui vicino che era quella della scuola. Come spesso accade lui girava per le scuole della zona per far fare delle lezioni di prova, poi magari c’è il ragazzo che si appassiona e allora lui gli dice “guarda io ho una palestra, se vuoi venire ad allenarti…” e così è stato per me. Non avevo soldi e non mi potevo permettere di pagare una retta, ma da Nando non si pagava, perché appunto stava lì, alle scuole… Ci andai con altri due ragazzi e mia sorella: iniziai, mi piacque, mi appassionava, solo che poi sono dovuto andare a fare il militare».
Quindi dopo la parentesi del militare, in cui non ti sei allenato, sei tornato a casa e hai ripreso col pugilato dilettantistico.
Sì, sempre tra lavoro e quant’altro.
E come andava la tua carriera da dilettante?
Andava avanti, tra alti e bassi. Perché comunque avevo già all’epoca altre cose a cui pensare, problemi a casa e tutto il resto. Mio padre è venuto a mancare senza aver mai visto un mio match. Era qui a Ceccano, dovevano venire tutti, mio padre compreso, ma purtroppo saltò. Poi successe quello che successe e l’incontro dopo mio padre già non c’era più. Quindi già da dilettante un po’ di match da journeyman già li facevo. Con la scomparsa di mio padre mi sono ritrovato a gestire una serie di situazioni molto più grandi di me: avevamo un negozio, il mercato… Infatti per un anno mi sono dovuto fermare, perché non riuscivo a stare dietro a tutto. Poi ho ripreso, ma comunque senza riuscire ad allenarmi con costanza, quindi c’era una vittoria, poi una sconfitta, poi un’altra vittoria, insomma andava avanti così. Allora Nando mi iniziò a dire: “guarda Luigi, ci hanno chiamato per questo incontro, ci sono quelle ventimila lire in più”, che comunque a me facevano sempre comodo perchè avevo una famiglia da mantenere, e quindi ho iniziato ad andare a combattere anche senza la dovuta preparazione. Non erano match organizzati a tavolino, non andavo là per perdere: semplicemente facevo il mio contro avversari che, a differenza mia, spesso avevano la possibilità di concentrarsi solo sul pugilato e sulla preparazione dei match.
Di recente ho letto un libro di un giornalista inglese, si intitola proprio Journeymen, sono 10 interviste a 10 mestieranti inglesi che raccontano una storia simile a quella che mi stai raccontando tu: match accettati all’ultimo, allenamenti schiacciati tra vari turni di lavoro, scarso riposo. È chiaro che così diventa difficile competere contro avversari che si allenano regolarmente, che hanno modo di recuperare, e che possono contare su un team completo di tutte le figure professionali necessarie. Con condizioni di partenza così differenti, il ring diventa una sorta di piano inclinato, in cui uno dei due atleti è inevitabilmente svantaggiato a priori.
Esattamente. Teoricamente, se hai un match in vista, devi fare un camp di un mese, devi andare nelle altre palestre a fare i guanti, insomma ti devi preparare a salire sul ring nelle migliori condizioni sotto ogni punto di vista. Io, in 116 match da pro che ho fatto, questa possibilità ce l’ho avuta solo due volte, quando ho combattuto per il titolo italiano. In quei casi mi sono allenato davvero bene, ma sono state le uniche volte in cui posso dire di aver fatto una preparazione completa. Il primo incontro titolato è stato con Devis Boschiero, era un ragazzo fortissimo, uno che poi ha combattuto la cintura di campione del mondo WBC. Sapevo che era quasi impossibile ma ci ho provato. Il secondo ci ho dato giù sotto, perché col mio avversario, Benoit Manno, eravamo più o meno sullo stesso livello. In più la cintura era vacante, quindi era una grande occasione. Però, come ti ho già detto, sono stati grandi sacrifici, perchè ho smesso di lavorare per dedicarmi al camp, e in più i soldi che avrei guadagnato dal match sarebbero serviti per pagare tutte le spese legate alla preparazione. Mi sono detto: ci provo, magari le cose vanno bene e la mia carriera prende una svolta. Purtroppo non è andata così, capita. Dopo il secondo incontro titolato, quello con Manno, ho intrapreso la carriera da journeyman vera e propria.
E questo a che punto era della tua carriera?
Non ricordo di preciso, però avevo fatto già una ventina di match. Prima del primo titolo, poi, feci un balzo in classifica grazie al KO con Pisanti, un ragazzo che veniva da una carriera da dilettante molto quotata e che poi ha vinto il titolo italiano. Feci questo match con lui che doveva fare parte del suo rodaggio in vista proprio del titolo. Io sono arrivato a quell’incontro veramente col fiato corto, mi ero allenato pochissimo: lui, mancino, è partito già dalla prima ripresa con l’intenzione di mandarmi a terra, aveva mani pesanti. Ero preoccupato, non so se è stata l’adrenalina, o l’attenzione dovuta al pericolo percepito, mi ricordo solo che Nando mi diceva di continuo “quel destro non te lo devi staccare dal mento”, e così ho fatto. Ero ben coperto, e al momento giusto, quando lui stava per attaccare nuovamente alla fine del primo round, passo sotto a un suo colpo e con un destro d’incontro, un misto tra un diretto e un montante, lo mando al tappeto. KO. La gente ancora se lo ricorda.
Quel match, vinto contro un contendente al titolo, mi ha dato il punteggio in classifica necessario per competere per la cintura. Ci abbiamo provato, non ce l’abbiamo fatta, nel frattempo le difficoltà erano sempre quelle, e allora poi esce l’altro incontro, e poi quell’altro, e ecco che ti ritrovi a fare il mestierante. Specialmente all’inizio, tra l'altro, i miei avversari erano davvero forti: era gente che magari tornava dopo un infortunio, o dopo un titolo italiano o europeo. Qui fuori ho una foto con Marcello Matano, uno che prima di “fare” con me ha vinto due titoli IBF intercontinentali ed è arrivato semifinalista ad un Mondiale… Pensa che io ho scoperto che dovevo combattere contro di lui la sera stessa! Mi trovavo al palazzetto prima dell’inizio della riunione, sopra le sedie c’erano i volantini dell’evento, in cui si parlava di questo Matano e dei match che aveva fatto. Alchè, mi giro verso Nando, e gli chiedo “Nando ma io devo fare con questo stasera? ma ti rendi conto? Questo ha appena perso il Mondiale e mo ci devo combattere io? Ma sei impazzito?”. Tra l'altro non era neanche il peso mio, era un superwelter - pensa che io sono partito dai leggeri. Insomma, questo era pesante: facciamo sei riprese in cui lui mi voleva staccare la testa. Io come al solito nella quarta ripresa lo faccio sfogare, penso “vabbè, ora calerà”... Neanche per niente! Secondo me avrebbe continuato così anche se ne avessimo fatte 20, di riprese. Quando abbiamo finito, però, c’è stato un bel momento. Ancora sul ring lui mi ha preso il braccio e me lo ha alzato al cielo, mentre mi diceva “Mantegna, mi hai fatto veramente incazzare stasera: possibile che non ti sono riuscito a buttare giù in nessun modo?”. In realtà era contento, voleva un avversario duro e in me lo ha trovato.
Vorrei toccare questo punto perché mi sembra interessante. Figure come la tua internamente al mondo del pugilato godono di un rispetto che a chi non segue la boxe potrebbe risultare inspiegabile. Guardando un record negativo è facile saltare rapidamente alla conclusione che il pugile che lo detiene, semplicemente, sia scarso. Leggendo il tuo, di record, saltano agli occhi alcune cose: hai combattuto 116 incontri da professionista, un’enormità, e spesso contro avversari di alto livello, perdendo prima del limite solo una manciata di volte. Quando ti affrontano, i tuoi avversari sanno che non sei uno che andrà giù alla prima ripresa.
Assolutamente. In queste situazioni in cui vengo chiamato all’ultimo per salvare un match saltato e in generale nella mia carriera è sempre stato così: io vado e faccio il mio lavoro. Uno mi potrebbe dire: “e perchè se fai il tuo allora non vinci mai se comunque sei uno tosto?”. Eh, l’ho detto prima: manca l’allenamento, manca tutta la preparazione, ormai da 27 anni. Paradossalmente ormai la mia preparazione è proprio la mia lunga carriera. Ad esempio noi ci vediamo oggi [era mercoledì 24 luglio, nda], io il 2 dovrei combattere qui a Ceccano. Dall’ultimo match, che è stato il 14 luglio, oggi è il primo giorno che sono riuscito a tornare in palestra. Domani ho una serata, dopodomani pure [Luigi fa il dj e animatore e l’estate è chiaramente un periodo molto pieno di impegni, nda], sabato e domenica in piscina [stesso motivo di prima, nda], lunedì c’ho la radio [ha un programma radiofonico su Radio Centro Fiuggi, nda], rivengo qui martedì prossimo, forse mercoledì, e basta. Uno nella vita deve mangià, che devo fare?

Certo. Uno a questo punto potrebbe chiedersi: Perché? Nel senso, perché tanti sacrifici? Che tipo di passione c’è dietro? È anche una questione economica?
Diciamo che stanno sullo stesso piano: la passione e il fatto che servono i soldi, perché la vita deve andare avanti. Questa di combattere così spesso è l’unica strada che ho trovato. Mi sono detto: come faccio a continuare a fare questa cosa che mi piace? Ho trasformato quello che amo fare in lavoro, come con l’altra mia passione, che è la musica: io faccio il dj, l’animatore, ho un service audio, un programma radio, cerco di lavorare il più possibile con le cose che mi piace fare. Io queste cose le faccio volentieri, anche se mi costano un sacco di sacrifici. Negli sport da combattimento non c’è niente di facile, io cerco di fare quello che riesco: combatto ogni volta che posso, se Nando mi chiama perché c’è un match all’ultimo momento prendo e vado, magari cerco di andare un paio di volte in palestra, però le accetto tutte pur di salire sul ring.
Come adesso: non so se si sente che ho questa voce un po’ così, ma io praticamente è una settimana che non dormo, mi sono riposato un po’ prima di venire in palestra e domani si riparte. Sto facendo un corso da OSS, operatore socio sanitario, che logicamente mi sta togliendo il tempo per lavorare, in più ho appena finito il corso da tecnico di primo livello per la FPI che è nei fine settimana, che per me sono altri giorni di lavoro con l’animazione… Per fortuna ad agosto avrò la possibilità di lavorare molto e sto cercando di accumulare più serate possibili. Insomma, come dico sempre: io non ho il papino che ha la fabbrichetta dietro, devo provvedere a me e alla mia famiglia. Si fa tutto, con dei sacrifici ma si fa tutto.
Mi pare di capire che tu lontano dal ring proprio non ci riesci a stare.
No, non ci riesco. Quando mi è capitato di stare fermo per un infortunio, me lo sono chiesto: “E quando dovrò smettere definitivamente come faccio?”. Il fatto è che quel giorno, tra l'altro, è arrivato. Sai quando un pugile è troppo suonato ma vuole continuare, ma il suo angolo getta la spugna e lo fa ritirare per il suo bene? Ecco, in questo caso la spugna per me l’ha gettata la federazione, che da quest’anno ha imposto un limite di età di 45 anni oltre il quale non si può più essere pugili professionisti. Io a settembre in realtà ne faccio 48, ma avendo fatto la visita a gennaio avrò la mia licenza fino alla fine dell’anno.
Quindi questo è il tuo ultimo anno.
Esatto. E poi basta. In teoria stiamo organizzando il mio ultimo match qui a Ceccano, Frosinone, per il 28 dicembre… Vediamo se è una cosa fattibile. Eh, l’idea c’è. Mo ci mancano gli sponsor, i soldi, tutta l’organizzazione ma già l’ho detto a Nando: non voglio favoritismi. Già hanno iniziato a dirmi “prendiamo uno facile, dai che devi vincere, magari per KO”. Non se ne parla: io voglio un match vivo, reale, come anche gli altri match della serata. Sto parlando con varie palestre, e voglio che il pupillo di ognuna si scontri col pupillo delle altre. Questi sono i match veri. Siete tutti e due bravi? Vediamo chi è più bravo. Io questo vorrei fare: vorrei allenarmi bene, scegliere un avversario al mio livello, e giocarmela. Poi come va va. Se vinco sarò felice, e se invece perdo anche l’ultimo incontro, di certo, almeno, non avrò guastato il mio record!
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Nel frattempo è arrivato anche Davide, un ragazzo che si allena insieme a Mantegna: scambiamo due parole mentre iniziano il riscaldamento. Mi dice che ha visto la maggior parte dei suoi incontri e mi fornisce un dato che, pur complesso da verificare, mi sembra rilevante: a suo modo di vedere, il record di Mantegna è bugiardo. «Guarda, secondo me Luigi almeno la metà dei match che ha fatto, in realtà, erano lì lì, nel senso che i giudici potevano tranquillamente darli a lui». In realtà non mi colpisce tanto il fatto in sé. Nel pugilato è più o meno tacitamente accettato che per vincere, chi è in trasferta ha bisogno di una dimostrazione di netta superiorità: se il risultato è in bilico, i giudici tendono a favorire il pugile di casa. Mi colpisce più che altro che Mantegna ascolti senza dire nulla. Vedere una persona il cui giudizio su di sé è così poco condizionato da fattori esterni, per un rosicone insicuro come me, è uno schiaffo in faccia. Penso che al posto suo avrei iniziato a lamentarmi per ore di tutti i match che mi hanno “rubato”.
Più tardi, ad allenamento concluso, Mantegna mi ha ospitato a cena a casa sua. Me lo aveva proposto il giorno prima, al telefono: “Aò, non fa che arrivi qua, me fai du domande e poi te ne vai senza neanche rimanere a cena, non se ne parla!”. La compagna Tiziana, che di mestiere è cuoca, mi ha fatto mangiare delle cose incredibili, il 95 percento delle quali provenivano dagli orti e dagli allevamenti della sua famiglia - si è scusata per il restante 5 percento, che era costituito comunque da una delle mozzarelle di bufala più buone che avessi mai mangiato. Tra un boccone e l’altro gli faccio qualche altra domanda.

Prima mi hai detto che, fatta eccezione per i due titoli italiani, non hai mai fatto dei veri e propri training camp. Ciononostante, pur perdendo quasi sempre, sei uno che da filo da torcere ai suoi avversari. Non hai un po’ il rimpianto, quella cosa che ti fa dire “chissà come sarebbe andata se avessi avuto l’opportunità di concentrarmi solo sul pugilato”?
No, perché io penso che la vita mia è questa. La strada da percorrere la scelgo io, ma se si rivela piene di buche, io più che provare a percorrerla al meglio non posso fare. Ogni tanto ci caschi dentro, provi a uscirne fuori e continuare. Io sono contento di aver fatto tutto quello che ho fatto e di come l’ho fatto. Non ho avuto né una carriera né una vita dorate e luccicanti, ma coi rimpianti ci fai veramente poco. Il passato è passato, meglio pensare al presente e al futuro: se non faccio niente non rimane niente, se faccio qualcosa qualcosa rimane. Mio padre diceva sempre: più buio di mezzanotte non esiste. Bisogna darsi da fare, non rimanere fermi a piangersi addosso. Ci vuole impegno, e ogni tanto è frustrante: scusa il termine, ma io botte di culo non ne ho mai avute. Quindi faccio ciò che posso, mi do da fare.
Per me, poi, il pugilato è una valvola di sfogo, la palestra è un posto che mi permette di dimenticare i problemi della vita di tutti i giorni. È un’altra dimensione. Ad esempio, non troppo tempo fa, purtroppo, abbiamo avuto un grave lutto familiare. Se non avessi avuto la palestra non so come avrei fatto sinceramente. Mi libera la mente. Anche se, come già ti dicevo, io ho poco tempo per allenarmi e pensare alla mia passione, quindi va a finire che mi alleno poco e combatto tanto. In Italia è difficile, se non impossibile, fare i professionisti: o fai come faccio io, o hai una famiglia che ti sostiene alle spalle, o va a finire che smetti. Per fare bene questo lavoro, come tutti i lavori, dovresti dedicargli gran parte della tua giornata, e in italia non ci sono i soldi per farlo. Paradossalmente è più facile vivere di pugilato da dilettanti, dove c’è la possibilità di entrare nei gruppi sportivi delle forze armate e essere stipendiati per allenarsi e competere nel pugilato olimpico. Più che professionisti, noi siamo amatori. Secondo me questo è uno dei motivi per cui il pugilato italiano è indietro. La maggior parte dei ragazzi che cominciano, e magari sono anche promettenti, a un certo punto si trovano davanti a un bivio: continuare con la loro passione e coltivarla a scapito di tutto il resto - lavoro, famiglia, sicurezza economica -perché di questo si tratta, oppure lasciar perdere il pugilato e costruirsi una vita normale. Tanti pugili, se vedi, hanno carriere molto brevi: fanno un buon percorso da dilettanti, passano professionisti, arrivano velocemente a fare un titolo italiano, magari lo vincono anche, e poi smettono. Perché avere una vita normale non è compatibile con una carriera da pugile professionista.
Quindi combattere due, tre volte l’anno, come sarebbe ideale fare, è impossibile?
È molto difficile, a meno che tu non abbia una buona base economica alle spalle o un manager che ha deciso di puntare su di te. Altrimenti come fai? Con quali soldi? È per questo che prima ti dicevo che per me era o così o niente. Io ho scelto questa vita, ho scelto di combattere due volte al mese pur di non smettere col pugilato, perché la prima volta che sono entrato in palestra sono rimasto folgorato.
Prima mi hai detto che questo è il tuo ultimo anno e che stai per diventare tecnico federale. Da maestro, consiglieresti mai a uno dei tuoi allievi di intraprendere un percorso simile al tuo? Oppure gli diresti che non ne vale la pena?
No, non glielo direi. Ma sai perché? Perché francamente non so quante persone ci sono col mio carattere e il mio modo di ragionare.
Cambiando discorso: mi racconti la genesi del tuo soprannome, "petto d’angelo"?
Intanto voglio salutare il grande Casiraghi, Domenico, che mi ha affibbiato questo nome. È il nostro preparatore, ma ormai è una specie di soprammobile della palestra [ride, nda]. Io ho questa strana conformazione del petto, che è estroflesso, infatti ogni tanto mi chiamano anche petto di pollo [ride, nda]. Angelo perché dice che ho il cuore grande, uno che non molla mai. Me lo ha detto una volta dopo che è venuto a vedere uno dei miei match. Mi fa “tu sei petto d’angelo”. È nata così, lo diceva talmente tanto che poi alla fine in palestra hanno iniziato a chiamarmi tutti così. Io all’inizio non è che me lo sentivo troppo mio, perchè alla fine non sono neanche credente. Però, sempre Domenico, dice che le mie ali non sono bianche: insomma, sono un angelo che sa essere cattivo [ride, nda].
Per chiudere, mi parli del tuo rapporto coi tuoi avversari?
Io ti posso dire che in generale nel mondo del pugilato c’è un grande rispetto reciproco. In 27 anni ho avuto grandi dimostrazioni di rispetto dai miei avversari: molto spesso i ragazzi più giovani a fine match si fermano a parlare con me, a chiedermi consigli. All’inizio, invece, quando mi capitava di combattere con dei veri e propri campioni, spesso erano sorpresi per la mia tenuta, per il fatto che comunque non riuscissero a mandarmi al tappeto. Mi viene in mente ad esempio Davide Dieli, un pugile molto bravo con cui ho combattuto parecchi anni fa: ha fatto un post sui social, poco tempo fa, in cui ricordava il match con me, e ho davvero apprezzato le parole di rispetto che ha avuto per me a distanza di tanto tempo. In generale, per me, ricevere questi attestati di rispetto da pugili molto più titolati di me è una grande soddisfazione.
Ma è vero che non sei mai andato knock down quindi?
È vero. Ho sconfitte per TKO, per ferite, stop medico, ma non sono mai andato a terra né KO. Quando mi sono rotto la mandibola neanche hanno fermato l’incontro, me ne sono accorto solo a match concluso. Pensavo fosse il dente del giudizio che mi faceva male.