
«Capisco perché i giocatori vogliano mettere un punto alle proprie carriere in questo modo ma personalmente non sono un grande fan delle partite d’addio, come quella di Pepito. Non mi piace che ci sia così tanta attenzione su di me, ed è per questo che ho deciso che non l’avrei fatta».
Mario Gomez butta questa cosa lì, verso la fine della nostra intervista, mentre parliamo della sua esperienza alla Fiorentina. Ci siamo incontrati in una sala interrata di un albergo di Madrid vicino al Santiago Bernabeu, entrambi ospiti dell’ECA Club Connect, l’appuntamento con cui la European Club Association mette in contatto la classe dirigente del calcio europeo cercando contemporaneamente di aggiornarla sugli ultimi sviluppi del gioco. Il giorno prima ho assistito a una sessione di "speed networking". In una sala i dirigenti delle più diverse squadre europee si incontrano faccia a faccia per un massimo di cinque minuti, mentre un enorme schermo a led segna il tempo che sta per esaurirsi. Oggi, invece, ci sono conferenze sugli aspetti più disparati, dall'uso delle statistiche allo sviluppo del talento, e mentre parliamo mi immagino mani che si stringono, biglietti da visita che scivolano sul tavolo, allenatori che trovano una nuova panchina.
Oggi Mario Gomez è il direttore tecnico della parte calcistica del mondo Red Bull, ed è ospite a Madrid in questa veste, ma due giorni dopo la nostra intervista sarebbe dovuto volare a Firenze, per la partita d’addio di Giuseppe Rossi. Rimettersi gli scarpini, indossare una maglietta, i calzoncini, rientrare all’Artemio Franchi, lo stadio che più lo ha amato nonostante ci abbia giocato solo una manciata di partite con la maglia della Fiorentina.
Dopo questa intervista sono andato a controllare l’ultima partita giocata nella carriera di Mario Gomez. Una sconfitta per 1-3 contro il Darmstadt in Serie B tedesca di cui non sono nemmeno riuscito a ritrovare gli highlights. Era la fine di giugno del 2020, gli stadi erano ancora vuoti e la carriera di Mario Gomez era l'ultimo dei nostri problemi. L'attaccante tedesco ha segnato il gol della bandiera dello Stoccarda e all’82’ è stato sostituito da Sasa Kalajdzic. Poi è uscito dal campo e, da calciatore, non ci è più rientrato.
La registrazione integrale dell'intervista. La versione testuale che trovate qui è stata tradotta, editata e rimaneggiata per esigenze di chiarezza.
«Non sono più un giocatore, l’ho accettato e lo accetto ancora più oggi. Sono molto felice nella mia nuova vita in cui non devo più essere sul campo. Non ho più bisogno dell'amore dei tifosi nello stadio. Sono felice se ricevo l’amore delle persone intorno a me, quando sono contente che le sto aiutando».
Mario Gomez mi sembra il contrario dello stereotipo dell'ex giocatore che rimpiange il suo passato. Quando parla della sua carriera da calciatore, al contrario, avverto una nota di sollievo. «Lavoro [da dirigente] da quattro anni e nessuno lo sa perché sono in un ruolo di secondo piano. E mi piace essere in un ruolo di secondo piano, mi piace aiutare gli altri a brillare e a crescere, a diventare calciatori di successo. Questa è la mia nuova normalità, che non può essere la stessa di quando sei un attaccante. Come attaccante devi essere l’uomo copertina, sei sempre l’obiettivo delle rimostranze o del tifo. È sempre amore e odio, amore e odio. Ma tu sei sempre lì. La mia realtà al momento è di costruire un contesto in cui tutti si sentono a proprio agio, dove tutti possono dare il proprio meglio. E mi piace farlo in un ruolo di secondo piano. Ovviamente sarebbe bello per i miei fan avere una partita d’addio ma ci sarebbe troppa attenzione su di me e non è qualcosa che voglio».
Insomma, non era così scontato che Mario Gomez si sarebbe presentato alla partita d'addio, se non fosse stata quella di Giuseppe Rossi. «Ho sempre detto che ci sono solo due partite d'addio a cui sarei andato - non prendermi troppo sul serio, magari saranno cinque alla fine della mia vita. Ma a due giocatori ho sempre detto che ci sarei stato, se l’avessero fatta. Uno è Claudio Pizarro. Prendendo in considerazione tutto, probabilmente il miglior compagno di squadra che abbia mai avuto. Per come si godeva ogni giorno: era sempre di buon umore, amava il calcio, stare sul campo, mostrando agli altri che quello che facciamo è divertente e non solo un lavoro. Gli voglio bene per questo». (Noto solo oggi che Claudio Pizarro si è ritirato pochi giorni dopo di lui, e che, al contrario suo, ha deciso di aspettare la riapertura degli stadi per la sua partita d'addio, che si è tenuta a Brema più di due anni più tardi. Mario Gomez c'era).
«L’altro giocatore [a cui ho promesso che sarei andato alla sua partita d'addio] è Giuseppe, che è semplicemente incredibile. Penso che senza gli infortuni sarebbe potuto diventare uno dei cinque migliori calciatori al mondo. Aveva un talento pazzesco. Era un grande calciatore… è ancora un grande calciatore».
Persino nell’universo dirigenziale della Red Bull, Mario Gomez è finito all’ombra di una figura più ingombrante, cioè quello Jurgen Klopp che pochi mesi fa è diventato Head of Global Football. «[Klopp] deciderà la strategia per il futuro dei nostri club, che tipo calcio vogliamo giocare, a cosa dovremmo puntare e a cosa dovremmo assomigliare. Decidere lungo quale strada dobbiamo muoverci e anche come sviluppare i vari club». Mario Gomez, invece, si occupa di questioni più pratiche, forse dovremmo dire “di campo”. La Red Bull ha le sue radici in Austria e in Germania, ma è proprietaria di altri tre club negli Stati Uniti, in Giappone e in Brasile, e ha quote di minoranza in Francia e in Gran Bretagna. Idealmente un sistema così ramificato dovrebbe integrare i vari sistemi di scouting, aiutare i vari club ad avere una presenza più capillare nei vari angoli del mondo, ma farlo funzionare nella pratica è un altro conto.
«Abbiamo sfide diverse con culture diverse: dobbiamo adattarci alle regole di ogni Paese. Non possiamo dire: siamo la Red Bull e facciamo la stessa cosa in tutto il mondo allo stesso modo. Questo non è il nostro modo di fare e non sarebbe giusto perché abbiamo di fronte diversi valori, diverse culture. Dobbiamo adattarci, rispettare la cultura che abbiamo di fronte, anche quella calcistica. Il Brasile, per esempio, è un Paese dove sono tutti pazzi per il calcio, e hai milioni di buoni talenti. La sfida lì è innanzitutto trovarli, perché la concorrenza è molto alta. Ma poi anche portarli nella tua academy, prepararli per un calcio che è molto organizzato, guidarli in un percorso di sviluppo a partire da un ambiente che spesso è molto povero e difficile. Ovviamente non abbiamo favelas in Germania ed è qualcosa a cui dobbiamo fare attenzione. Non possiamo trattare loro allo stesso modo in cui trattiamo i ragazzi tedeschi. Ma mi piace approfondire culture diverse, capire come lavorarci».

Cosa significa, ad esempio, lavorare con i giovani del Red Bull Bragantino se l’idea è portare i migliori di loro nel calcio europeo? «[Una volta] Eravamo a Salisburgo con l’Under 15 del Red Bull Bragantino, che era lì per giocare un torneo. E potevi vedere che i giocatori erano molto in difficoltà quando l’arbitro non gli permetteva di fare ciò che volevano. Non riuscivano a gestire la situazione “fisicamente”, se così si può dire. Andavano contro l’arbitro, contro gli avversari: erano molto duri. Lo stesso weekend sono stato ad Eindhoven, dove c’era l’Under 19 che giocava un torneo e potevi vedere che, quando l’arbitro prendeva una decisione, riuscivano a calmarsi molto più facilmente. Questo perché erano più avanti con l’età, certo, ma anche perché ci occupiamo della loro educazione, insegnandogli come ci si comporta su un campo di calcio. Alla fine del torneo ho detto ai ragazzi che per me non era importante il risultato ma come si erano riusciti ad adattare al calcio europeo. Perché se il loro sogno è venire in Europa devono adattarsi alle regole del suo calcio, per forza di cose. A non dare un pugno a qualcuno e prendersi un cartellino rosso stupido, per esempio. In quattro anni potevi vedere già un cambiamento notevole nel comportamento in campo, che è la cosa che mi piace di più».
Mario Gomez sembra perfettamente a suo agio in questo suo nuovo ruolo, mi parla con grande sicurezza, come se sapesse sempre, esattamente cosa dire. «Quando ero un calciatore mi piaceva prendermi la responsabilità davanti a migliaia di persone. È questo che mi dava l’adrenalina per andare avanti. Se lo stadio era tutto contro di me giocavo anche meglio, ne avevo bisogno per esaltarmi. Fortunatamente non ho mai avuto problemi psicologici durante la mia carriera, mai avuto dubbi. Al di là del calciatore Mario Gomez, però, la mia personalità interiore è più vicina a quello che vuole aiutare, creare un bell’ambiente. Questo è ciò che sono». Sono stupito un’altra volta: e se Mario Gomez fosse più felice ora di quando faceva il calciatore? «Non direi che sono più felice oggi, perché fare il calciatore è probabilmente il miglior lavoro del mondo. Ma posso dirlo: per me è la stessa cosa. Sono felice allo stesso modo di quando facevo il calciatore».
La nostra conversazione cambia radicalmente quando iniziamo a parlare della sua esperienza alla Fiorentina. Il suo inglese mostra le prime crepe, le parole si fanno più difficili, il suo sguardo più intenso. D’altra parte il suo passaggio in Italia si è annodato con uno dei più grandi what if della storia recente del calcio italiano.
Era la metà di luglio del 2013. Mario Gomez veniva da quattro stagioni nel Bayern Monaco, aveva segnato 113 gol con la maglia del club bavarese, aveva da poco compiuto 28 anni. La Fiorentina l’aveva pagato oltre 15 milioni di euro e aveva deciso di presentarlo in grande stile. Le scene di quella giornata sembrano venire da un altro mondo. Il Franchi che trabocca di maglie viola, alcune già col numero 33 sulle spalle, le urla, donne che provano a baciarlo come un santo. «Non scorderò mai quel giorno e ho la pelle d’oca a ripensarci», mi dice Mario Gomez. È il miraggio che la Fiorentina possa davvero competere per lo Scudetto, che possa «giocarsela con Golia», come disse l’allora direttore tecnico viola, Edoardo Macia. Accanto a Gomez, quel giorno, Andrea Della Valle è emozionato e parla ai tifosi con il microfono: «Oggi entrando qui dentro ho sentito un'emozione incredibile. Vi meritate tutto questo. Vi dissi due mesi fa che il meglio doveva venire, ed avete visto cosa è accaduto».
«Anche noi ci credevamo», mi dice Mario Gomez parlando della squadra vera e propria, del clima che si respirava nello spogliatoio. «A dire la verità è il motivo per cui mi sono trasferito alla Fiorentina. L’ho detto molte volte: avevo un’offerta da una grande squadra in Spagna ma ho deciso di andare alla Fiorentina perché la famiglia Della Valle e Pradé, il direttore sportivo, mi hanno esposto il loro progetto su come arrivare davanti alla Juventus. Avevano un nuovo stadio in cantiere, una lista di nuovi acquisti… eravamo pronti ad andare all’attacco».
All’esordio, contro il Catania, era già accanto a Giuseppe Rossi, nel 3-5-2 iper-tecnico di Vincenzo Montella. Mario Gomez contribuisce al primo gol, con un taglio sul primo pallo che libera il suo compagno d’attacco al centro dell’area, ma poi spreca due occasioni piuttosto facili, soprattutto la prima, quando colpisce il palo a porta vuota su un assist proprio di Giuseppe Rossi. Le cose sembrano andare apposto nella giornata successiva, quando la Fiorentina va a Genova, in casa del “Grifone”. Dopo un tempo la squadra di Vincenzo Montella è già in controllo, sullo 0-3. Segnano Alberto Aquilani, e poi ovviamente Giuseppe Rossi e Mario Gomez, che riesce a sbloccarsi dopo un’altra occasione sprecata in maniera goffa con un tiro sul palo.
Il gol del 2-0 di “Pepito” è il raggio verde speranza che anticipa il tramonto. Su una palla alzata verso la trequarti, Mario Gomez salta una decina di centimetri in più rispetto al diretto marcatore e in qualche modo riesce a vedere Rossi alle sue spalle, servendolo con la testa. È una torre alta e lenta, che Rossi dai 25 metri decide di tirare al volo con il sinistro. Un’idea difficile persino da spiegare, che si trasforma in gol grazie anche all’errore in tuffo di Perin, e che ci parla del senso di possibilità che aveva iniziato a sprigionare la loro connessione. «Abbiamo avuto un inizio fantastico. Io e Giuseppe nelle prime tre partite abbiamo fatto una cosa come sette, otto gol insieme [in realtà sono cinque, nda]. Poi, sfortunatamente, io mi sono fatto male, e quando sono tornato si è fatto male lui. E alla fine lui non è più tornato, perché il suo problema l’ha tenuto fuori per due anni e mezzo. È pazzesco, davvero pazzesco».
Quelle tre partite di campionato, più quella giocata a fine agosto per i preliminari di Europa League, rimarranno per sempre le uniche giocate insieme da Mario Gomez e Giuseppe Rossi. Due giocatori che alla fine sono stati avvicinati più dal dolore che dalla gioia. Non so come esserne certo, ma credo che il Pepito Day sia la prima volta che sono tornati a condividere un campo da calcio.
Non è facile spiegare cosa è successo in mezzo, di certo non è facile per Mario Gomez parlarne. Dopo essersi rotto il legamento collaterale mediale alla metà di settembre del 2013, il suo rientro viene posticipato di settimana e in settimana, finché non diventa un mistero. «Nessuno riusciva a capire cosa avessi. Ci ho messo sei mesi a recuperare per un problema per cui di solito ci vogliono sei settimane. È stato pazzesco: ho visitato una cosa come dieci dottori diversi e nessuno riusciva ad individuare il problema. Alla fine sono stati i dottori di Francesco Totti, a Roma, a scoprire cosa avessi. A quel punto ho iniziato la riabilitazione da zero».
«Ho avuto anche un sacco di problemi tra le varie riabilitazioni. Provavo dolore ma nessuno riusciva a capire quale fosse il problema. Alla fine hanno smesso di credere che fossi infortunato, persino l’allenatore aveva dei dubbi. Con Vincenzo [Montella] ho avuto una grande amicizia ma in quel momento ho iniziato a dubitare di lui perché non credeva davvero che fossi infortunato. E in questa piccola cosa potevi sentire che la fiducia si era incrinata».

Mario Gomez torna, di fatto, solo la stagione successiva, ma qualcosa ormai è definitivamente passato. Rossi è ancora alle prese con gli infortuni, e davanti Montella a volte gli preferisce Babacar. La Fiorentina, nonostante tutto, riesce ad arrivare fino alle semifinali di Europa League. Mario Gomez ha un ruolo in quella cavalcata europea, che prima della doppia finale di Conference League con Vincenzo Italiano è rimasto per anni il punto più alto della Fiorentina in Europa, e non solo. Gomez gioca da titolare l’indimenticabile doppia sfida con il Tottenham ai sedicesimi, al ritorno segna l’1-0 che mette definitivamente in discesa la qualificazione con una corsa da centrocampo che si conclude con un tiro in mezzo alle gambe del portiere. Da titolare giocherà anche le due partite contro la Dinamo Kyiv, ai quarti di finale, anche questa volta segnando l’1-0 che apre la vittoria del ritorno. E da titolare giocherà l’andata delle semifinali, contro il Siviglia, che però finisce 3-0, eliminando di fatto qualsiasi possibilità per il ritorno, che comunque guarda dalla panchina. È l’ultima pagina di una storia amara. In estate Gomez decide di trasferirsi al Besiktas, dove la stagione successiva segnerà 26 gol in 33 partite di campionato.
«Mi fa ancora male pensare di non essere riuscito a dare alla Fiorentina ciò che avrei voluto, è l’unico club in cui non sono riuscito a mostrare il mio vero potenziale. Sono riuscito a recuperare solo quando mi ero già trasferito in un altro club, perché a quel punto non avevo più la pressione di tornare e ho potuto ricominciare da capo. Nella Fiorentina non ho avuto il tempo per farlo».
«Io e mia moglie abbiamo pianto nel nostro appartamento quando abbiamo lasciato Firenze. È stato un momento super intenso. Io ero infortunato, le aspettative erano alle stelle, la famiglia della Valle aveva investito un sacco di soldi su di me, e io non ero stato in grado di restituire niente. È stato doloroso per questo ma anche perché ho lasciato tanti amici lì… ce l’ho ancora».
Mario Gomez si riferisce a Giuseppe Rossi, ovviamente, ma anche alle «milioni di piccole situazioni» in cui Firenze gli ha mostrato affetto durante i momenti più bui. «Le persone sono sempre state incredibili con me. E questo è ciò che ha reso la mia esperienza così dolorosa: loro mi trasmettevano così tanta passione e io non potevo restituirgliela».
Mi sarebbe piaciuto parlare di nuovo con Mario Gomez dopo il Pepito Day. Chiedergli cosa avesse provato a rivedere i tifosi della Fiorentina, i suoi ex compagni. Se avesse cambiato idea sulle partite d’addio. Alla fine della mia intervista gli dico che molte persone avrebbero aspettato anche lui per questa partita a Firenze. «Sì, è grandioso», mi risponde «Penso che oggi la Fiorentina abbia intrapreso un ottimo percorso, probabilmente ha le migliori strutture sportive in Europa, sta rinnovando lo stadio - il che era necessario per competere - e ha una buona squadra. Sono contento per loro… Le cose non sono andate come speravo ma almeno non li ho portati alla rovina».
Perché pensi che avresti potuto portare la Fiorentina alla rovina? Gli chiedo. «Sono molto dispiaciuto per Firenze, per i tifosi, ma anche per la famiglia Della Valle, che hanno riposto così tante speranze in me senza che io sia riuscito ad essere all’altezza. Non avrò portato il club alla rovina ma di certo ho distrutto la loro speranza...».
Lo interrompo per dirgli che non è di certo colpa sua. Mi risponde: «Sì, gli infortuni fanno parte del calcio, purtroppo. Oggi sono seduto qui con te senza problemi, posso fare qualsiasi cosa, non ho dolore in nessuna parte del mio corpo: sono un uomo molto fortunato. Sono alto, sono forte. Ho giocato 18 anni e sono sano ma in quelle due stagioni non lo sono stato, e questo ancora mi fa male».