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È l’atletica che mi ha trovato, non il contrario
27 ago 2021
Intervista a Martina Caironi, atleta di punta del movimento paralimpico italiano.
(articolo)
12 min
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Durante l’intervista Martina Caironi ha fatto una precisazione linguistica sulla terminologia con cui ci si rivolge alle persone con disabilità. Invitiamo quindi ad approfondire la questione attraverso due fonti: Linguaggio inclusivo: perché non è solo una questione di genere e la voce “disabile” in Parlare Civile, senza la pretesa di voler esaurire il dibattito in materia. Buona lettura.

Una sera del 2007, mentre torna a casa in motorino, Martina Caironi, oggi atleta paralimpica italiana, viene investita da un’auto. Le conseguenze dell’incidente sono gravi e il ritorno alla vita da diciottenne deve fare i conti con l’amputazione della gamba sinistra. È solo nel 2010 che Caironi incontra l’atletica leggera, più precisamente la velocità e il salto in lungo. Nei tre anni intercorsi tra l’incidente e l’inizio dell’attività agonistica, prepara il suo corpo al nuovo sforzo atletico che l'aspetta e instaura un rapporto con la protesi da corsa con cui affronterà le gare.

Il suo esordio alle Paralimpiadi di Londra del 2012 è un successo totale: vince subito la medaglia d’oro nei 100 metri. Alle Paralimpiadi successive (Rio 2016) è la portabandiera della delegazione azzurra. E al termine di una gara piena di imprevisti, vince un altro oro nei 100 metri e un argento nel salto in lungo. A queste si aggiungono altre medaglie d’oro e d’argento ai Mondiali e agli Europei di cui il successo più recente risale all’edizione di Berlino del 2018 – altre due medaglie d’oro, rispettivamente nei 100 metri e di nuovo nel salto in lungo. Nella carriera di Caironi però non sono mancati i momenti difficili. Alla vigilia dei Mondiali di Doha del 2019 è risultata positiva ad un controllo antidoping in seguito all’uso di una pomata cicatrizzante che aveva utilizzato per curare un'ulcera creatasi sul moncone della gamba amputata. L’utilizzo di questa pomata però era avvenuto previa consultazione del medico federale, elemento decisivo al fine di sostenere la buona fede di Caironi al momento dell’assunzione del farmaco. Nel marzo 2020 il tribunale nazionale antidoping sospende la squalifica cautelare permettendo così alla velocista di tornare a competere per la qualificazione alle Paralimpiadi di Tokyo.

Nel corso degli anni i successi di Caironi sulla pista si sono sempre rispecchiati in un impegno in prima linea per la visibilità degli atleti e delle atlete con disabilità. Martina è molto presente nel discorso mediatico che interessa i diritti della sua categoria, soprattutto quando c'è da parlare con franchezza delle protesi. Quando ci ho parlato io, ad esempio, ci ha tenuto ad approfondire il suo rapporto complesso, quasi sentimentale con esso, attento non solo alla funzionalità per le sue prestazioni atletiche ai massimi livelli ma anche al design e all’estetica. Un oggetto che Martina Caironi abbellisce con stickers colorati e che l’ha portata negli ultimi mesi ad invitare gli studenti e le studentesse dello IED a progettare la grafica della protesi da corsa con cui gareggerà a Tokyo 2021.

La protesi, però, non è un oggetto neutro, ma anche obiettivo degli sguardi delle persone senza disabilità, tanto più se non si fanno problemi a sfoggiarla sotto un vestito corto. In questo senso, diventa quindi simbolo politico e di riscatto personale: un modo per difendersi da quegli sguardi e per liberarsi dalla paura di mostrarsi in società.

Nelle tue interviste si parla di una vita precedente e poi di una rinascita. Ma è davvero così, cioè esiste un punto di rottura oppure c’è continuità tra gli eventi che precedono e seguono l’incidente in motorino che ti ha privata della gamba sinistra?

Ciò che lega il prima e il dopo è la personalità a cui accade il trauma. Ma non è necessario fare una divisione fra un pre e un post incidente. Nel mio caso ho conosciuto a 18 anni il mondo della disabilità, il mondo delle protesi e ho imparato a capire quale poteva essere il limite. Quando vieni privato di qualcosa può succedere che il cervello ti porti a voler superare i limiti. Mi sono detta: non ho una gamba però vediamo se riesco a fare snowboard, se riesco a correre, se riesco ad andare in montagna.

Da qui deriva forza mentale.

Dopo incidenti di questo tipo non è insolito iniziare a fare cose pazze: buttarsi dal paracadute, andare a fare rafting andando solo di braccia. Sono esperienze che uno prima non avrebbe fatto, si sarebbe limitato alla vita ordinaria. Poi ci sono anche reazioni di chiusura, di flagellazione e auto-vittimismo. Che è un atteggiamento comprensibile, ma lo scopo dello sport è anche quello di riuscire a spronare le persone che non hanno reagito in maniera positiva. Da questo punto di vista i social hanno un ruolo di congiunzione fra persone che hanno avuto esperienze simili e che insieme cercano di superarle.

Foto di Marco Mantovani/Getty Images.

Che cosa porta le persone nella tua situazione a reagire in maniera estrema e forse anche incosciente? È come se con il trauma sparissero dei freni che tu hai costantemente perché temi che ti possa accadere qualcosa di pericoloso.

Esatto: quello che ti spinge è la perdita di questi filtri. Ad un certo punto ti viene tolto il velo di Maya e vedi la realtà per quella che è e da quel momento tutto quello che ti succederà sarà più diretto. Quando hai un’esperienza così forte, in cui rischi la vita o addirittura si perde una parte della propria vita ma tu rimani, allora capisci il valore della vita. Comprendi che la vita continua a scorrere, il sole è fuori dalla finestra, la gente va a lavoro mentre tu sei lì che soffri. Io l’ho vissuto sulla mia pelle e quel trauma, il dolore fisico fortissimo, la preoccupazione per il futuro, il guardarsi allo specchio senza un pezzo a diciotto anni, questi elementi mi hanno fatta esplodere e hanno fatto emergere in maniera più rapida il mio carattere.

Anche prima dell’incidente eri una sportiva, una pallavolista. Ora sei una velocista, una saltatrice in lungo, una snowboarder. Quindi almeno qui io ci vedo una continuità: lo sport.

Nella continuità che mi riguarda c’è sicuramente lo sport. Quando ho avuto l’incidente in motorino è stata troncata la mia carriera da pallavolista. Quell’anno avrei giocato in un nuovo ruolo, da libero, e per anni ho avuto seria difficoltà a pronunciare la parola “pallavolo” senza piangere. Però l’esigenza di muovermi e di fare sport è rimasta. Così ho avuto la fortuna di avvicinarmi all’atletica, una passione che però non ho sviluppato subito.

L’atletica di per sé è uno sport difficile, poi con una protesi è necessario fare un ulteriore passo per arrivare a livelli alti. All’inizio mi sono messa in gioco senza voler dimostrare niente, per la semplice voglia di farlo. In quella fase non ero nemmeno soddisfatta. Ricordavo com’era la mia corsa di prima e la confrontavo con quella con una protesi e non mi piaceva. Correvo a scatti, era faticoso, mi stancavo dopo un rettilineo. Ma poi ho capito, e lo sport è stato il mezzo grazie al quale ho partecipato alle Paralimpiadi e così a livello umano ho conosciuto tante persone con tante disabilità diverse. Venire a contatto con loro me le ha rese familiari.

Il mio occhio è cambiato, e ho iniziato a vedere le persone con disabilità per la loro abilità. Mi sono accorta che anche io avevo pregiudizi nei confronti della disabilità stessa. Ti faccio un esempio: all’inizio mi sono opposta con tutte le forze al cartellino dell’auto per disabili perché non mi sentivo di appartenere a quella categoria, lo associavo alla persona anziana che ha difficoltà ambulatoria. Poi ho capito che mi spettava così come spetta a tutte le persone a cui manca un pezzo di gamba. Poi chiaramente c’è la continuità di affetti. Le persone che erano accanto a me mi hanno fatto percepire che io ero sempre la stessa. Mi hanno aiutato a sdrammatizzare ma senza sottovalutare.

Mi sembra che ci sia stata una fase di questa narrazione in cui tu eri ferita, i tuoi sentimenti lo erano, tanto è vero che non riuscivi a parlare della pallavolo senza piangere. Però quando poi l’orgoglio sparisce forse proprio quello è il momento in cui la competitività torna ad emergere. Quanto c’entra la cura dell’anima nella prestazione vincente?

È fondamentale. Io la mia anima l’ho curata in tanti modi. Non subito con lo sport ma prima con gli affetti e la vita, l’esperienza, le conquiste quotidiane, e poi dopo tre anni nel 2010 è arrivata l’atletica. Prima ho dovuto aspettare che il mio corpo fosse pronto per fare sport. In quegli anni ho pensato solo a divertirmi. Ho cercato di fare tutte le esperienze che potessi fare, avevo bisogno di fare tutto quello che mi veniva voglia di fare. Ma ad un certo punto non mi bastava più. In questo senso, è l’atletica che ha trovato me più che il contrario. Per caso ho visto alcune foto di atleti con disabilità e ho pensato di provare.

Eppure non sono mai tornata a veder giocare le mie compagne di pallavolo, anche se promettevo sempre di farlo. Però ancora adesso se mi lasciano in palestra senza allenatore io mi guardo intorno per vedere se c’è una palla oppure eseguo alcuni esercizi che facevo con la pallavolo anche se non sono più funzionali alla mia carriera di atleta.

In un TedTalk a Bergamo racconti la tua esperienza in chiave quasi fatalista. Parli dell'imprevedibilità della vita, chiami l’incidente la variabile X. Ma le variabili nella carriera di un’atleta si cerca sempre di portarle vicine allo zero, si pianifica tutto nei minimi dettagli. E invece come ti senti di fronte al fatto che la tua vita di donna e atleta è caratterizzata da un evento che è stato fuori dal tuo controllo?

La variabile X è l’incognita, qualcosa che non ti aspetti e che ti stravolge completamente la vita. Io provo a tenere le cose sotto controllo però allo stesso tempo mi rendo conto che ci deve essere sempre una possibilità aperta all’incognita – a qualcosa che tu ancora non conosci ma che se lasci entrare ti può dare un grande stimolo.

Foto di Marco Mantovani/Getty Images.

Anche in gara lasci che qualcosa ti sorprenda?

No, in gara no. Però c’è un aneddoto che rende l’idea. Uno ci prova a prevedere tutto e poi arriva il giorno della gara a Rio 2016, la finale olimpica. La mattina facciamo la semifinale. Una gara perfetta. Arrivo passeggiando e faccio il record paralimpico. Mi tengo un po’ però vado veloce. La sera c’è la finale. È giusto in quel caso avere tutte le cose già pronte in modo da arrivare lì e non dover fare altro che fare quello che sai fare nella maniera migliore. In quel caso poi l’adrenalina ti dà una spinta maggiore e ti aiuta. Ma in quell’occasione c’è stato un imprevisto.

Per usare le protesi io indosso una cuffia di silicone sulla gamba amputata che poi infilo nella protesi. Ma quando arrivano la primavera e l’estate il silicone fa sudare tantissimo e così durante gli allenamenti e le gare spesso bisogna togliere la cuffia, asciugarla, rimetterla. Anche più volte durante l’allenamento.

A Rio arriviamo in call room, che è il momento che precede la gara e in cui vengono fatti i controlli. Lì inizio a sentire l’invaso della protesi che non è più aderente, è come se la gamba ci ballasse dentro. Proprio la cosa che non avevo previsto. Prendo dei fazzoletti di carta e inizio a metterli come degli spessori per cercare renderla più aderente. Però chiaramente mi inizia a crescere un po’ di agitazione. Mi dico, non è successo nulla la mattina, non è successo nulla per quattro anni, perché adesso? Poi l’agitazione stessa mi ha sicuramente fatta preoccupare più del dovuto.

Prima della partenza sui blocchi ritolgo la protesi, la riasciugo, la rimetto, che è una cosa che non faccio mai in call room. Quindi partiamo. Corro. Sono prima. Non vedo le altre, sono davanti. Ma intorno ai 60 m, più o meno a metà della gara, sento perdere aderenza con la protesi e sento come se si stesse sfilando. La sensazione è la stessa di quando corri con una scarpa larga. Ho rallentato, l’istinto è stato quello di guardare in basso ma di continuare a correre. In più sentivo l’avversaria che arrivava. Mi sono anche girata per vedere dove stava lei e il tempo che succede tutto questo incubo arrivo e taglio il traguardo per prima. Non riesco ad immaginarmi cosa sarebbe successo se la protesi si fosse sfilata. Non ci voglio nemmeno pensare.

Hai affermato che la protesi è stato per te un oggetto che ti ha permesso ti integrarti nella società. Ci puoi raccontare come?

Nel momento in cui ho indossato la prima protesi intanto ho liberato le mani che erano sempre legate alle stampelle. Da lì è iniziato tutto un rapporto di integrazione con la società che non finirà mai. Ovunque andrò ci sarà sempre qualcuno che sarà stupito da questo oggetto che porto. E anch’io nel corso del tempo ho indossato la protesi in maniera diversa.

All’inizio cercavo di nasconderla o di renderla il più simile possibile all’arto naturale. Per tre o quattro anni ho indossato pantaloni larghi, gonne lunghe. Tutto ciò che potesse coprirla, fino all’università. Lì ho conosciuto persone che non hanno saputo nulla del mio incidente, fino al mio Erasmus in Spagna dove mi sono liberata da un limite che mi stavo imponendo io. A Siviglia faceva un caldo da morire e mi sono detta che finalmente avrei indossato quel vestito che avevo comprato al mercato del Rastro a Madrid e che non avevo ancora avuto il coraggio di mettere. Un vestito corto. E lì la mia protesi ha fatto il suo debutto in società. E ho capito che gli sguardi che mi sentivo addosso continuavano ad esserci però erano un po’ più appagati, cioè adesso vedevano come mai camminavo in quel modo. E mi sono resa conto che io ero più libera.

Quindi mi sono resa conto che non mi importava cosa pensavano gli altri e il resto è una conseguenza. Infatti il resto è stato tutto una conseguenza di come io mi percepivo e mi sentivo in relazione alla protesi. Quindi oggi quando sono in spiaggia mi tolgo la protesi e me la metto come cuscino oppure se sono in treno e faccio un viaggio lungo mi tolgo la protesi e chiedo al vicino di mettermela su nel portabagagli provocando imbarazzo e panico come se fosse di cristallo anche se in realtà non sanno tutte le cose folli che faccio con questa protesi.

Nel 2015 sono diventata testimone della Ottobock, una ditta tedesca che le produce e mi hanno proposto un ginocchio super che era uscito da poco sul mercato con funzionalità avanzatissime, elettronico, che andava anche in acqua. A quel punto l’unico step che dovevo fare era riuscire a superare il fatto che la protesi fosse nera e non poteva avere nessun tipo di cover simile al mio polpaccio naturale perché proprio per la sua funzionalità in acqua doveva avere quel particolare cover squadrato. In quel caso ci ho messo cinque minuti per cambiare un mind-set che avevo avuto negli ultimi cinque anni e mi sono resa conto che la funzionalità doveva avere la precedenza.

Anche questo mi ha permesso di inserirmi in società: con questa protesi adesso posso fare gli scalini uno dopo l’altro mentre prima li facevo uno alla volta, posso andare in acqua, vado sotto la doccia, vado in piscina, la lavo davanti alle persone. È diventata anche una specie di oggetto di design perché ho capito anche quanto fosse bella e particolare.

Negli ultimi anni è esploso in maniera esponenziale il numero di immagini di protesi che si vedono su Instagram e questo ha aiutato molto le persone che in tempi recenti hanno subito un’amputazione. In un certo senso questo fenomeno ha accelerato il lavoro che io ho fatto in cinque anni. Tutti questi passaggi io li ho dovuti interiorizzare, ci ho pianto per arrivare a questa consapevolezza.

Hai un rapporto quasi artigianale con le protesi che indossi. Per esempio a partire da un tuo invito è stato iniziato un contest grazie al quale gli studenti e le studentesse dello IED hanno ideato delle decorazioni grafiche per le tue protesi. Perché è importante che la protesi sia esteticamente godibile oltre che estremamente funzionale?

Guarda, (Martina prende la sua protesi e me la mostra in camera, nda). Adesso c’è Tarantino qua! È come avere un tatuaggio. È un oggetto che vedi tutti i giorni. La protesi è propriamente un’estensione del corpo. Non è neanche come il trucco, è un oggetto che ogni mattina devo indossare. Se ho voglia di vederla colorata, se ho voglia di appiccicarci gli adesivi dei locali dove vado, è come se li appiccicassi sullo skateboard. Per le Paralimpiadi di Rio ho lanciato il contest in un liceo artistico. Poi mentre si avvicinava Tokyo ho preso la palla al balzo durante una conferenza che stavo facendo per lo IED e ho invitato gli studenti e le studentesse a progettare l’aspetto grafico della protesi con cui gareggerò.

Sempre in relazione alla società, quando hai un oggetto fatto bene questo attrae, stupisce e si inizia a vederlo non solo come mero strumento che serve per camminare ma anche come un oggetto bello, armonico. Anche questo diventa un modo per esprimere la propria personalità. Per i bambini ad esempio ci sono i pattern con i supereroi.

Quando sei stata eletta nella giunta del CIP (Comitato Italiano Paralimpico) hai fin da subito avuto l’obiettivo di rendere accessibili per tutti le protesi, che in realtà sono strumenti estremamente complessi e costosi. Cosa ti ha spinto a fare questo passo importante su un livello sociale?

Attualmente ho appena concluso il mio mandato al CIP ma l’impegno rimane ed è necessario. Un compito che in questo momento è portato avanti in sede parlamentare da Giusy Versace, una ex atleta paralimpica e che adesso si spende affinché le protesi possano essere fornite in maniera gratuita per chi voglia iniziare a fare sport. Sono stati stanziati dei fondi che sono finiti immediatamente. A livello di ASL, quindi di sistema sanitario nazionale, se tu non hai avuto un incidente sul lavoro, che è competenza dell’INAIL, è molto complicato poter accedere alle protesi sportive. È già un risultato positivo che ti vengano date in dotazione le protesi da cammino. Chi vuole avere una carrozzina o una protesi e vuole iniziare un’attività sportiva di solito o si rivolge alle associazioni oppure fa mutui e investimenti.

E questo non va bene perché il diritto allo sport deve essere assicurato anche, e forse a maggior ragione, a chi ha una disabilità. E il presidente del comitato paralimpico Luca Pancalli ha fatto tantissimo per andare in questa direzione. Mancano ancora dei passaggi ma non è semplice perché si tratta di ausili costosi. Le protesi presuppongono un processo complicato: bisogna andare al centro protesi, farsi fare un oggetto su misura, farlo montare. Già questo ha un costo elevato. I componenti possono costare dieci-quindici mila euro. E poi c’è la manutenzione per l’usura, che ha ulteriori costi.

Foto di Marco Mantovani/Getty Images.

Quale ritieni sia l’intervento che abbia avuto il maggior impatto positivo al di fuori del mondo dello sport, che origina dal tuo essere atleta di calibro internazionale?

Con la Fondazione Fontana ho fatto molti interventi su questi temi. Ho fatto un viaggio in Africa (che è possibile scoprire nel documentario "Niente sta scritto" di Marco Zuin, nda) in cui credo di aver imparato più io di quanto ho insegnato ai bambini con disabilità. Parlo molto nelle scuole. Soprattutto negli ultimi tempi sono stata sollecitata dagli insegnanti che mi dicevano che i ragazzi si stavano spegnendo e che avevano bisogno di motivazione. Ho cercato di dare forza a chi magari non l’aveva.

Io ho normalizzato la mia posizione, ho raggiunto consapevolezza perché ormai sono passati tanti anni e la vera svolta è stata la medaglia di Londra 2012. Quando vinci una medaglia paralimpica assumi una certa importanza agli occhi degli altri. E le parole prendono un valore diverso.

Certo, non tutti gli atleti hanno qualcosa da dire. Io ho sempre cercato di parlare ai ragazzi e alle ragazze soprattutto delle fragilità più che della forza. Racconto di come mi sono sentita quando a diciotto anni vedevo un ragazzo che mi guardava e non capivo se mi guardava perché gli piacevo o perché era spaventato dalla gamba. Ma so anche che non posso controllare le reazioni degli altri e non so neanche quante reazioni a catena in questi anni ho creato perché poi le cose vanno nel web. Una lancia il messaggio ma dove arriva non lo sa e forse è anche meglio non saperlo, poi magari una si monta la testa.

Una persona con disabilità provoca imbarazzo in una che non ne ha. A volte può spingere l’osservatore a spostare lo sguardo altrove, a squadrare dall’alto in basso, a provare una compassione mal riposta e richiesta da nessuno. Se potessi dare uno strumento cognitivo per approcciarsi alla vita di un uomo o una donna con disabilità, quale strumento forniresti?

Bisogna trovare subito una connessione, un comune denominatore. Se poni l’attenzione sulla diversità ti perdi tutto il resto. La diversità è una caratteristica che ho ma non è tutto. La risposta a questa domanda è soggettiva. Quando mi sento osservata io cerco di creare uno shock, cerco di spaventare chi mi fissa con un «bu!» perché il mio viso sta più su e non lì giù (si indica la gamba, nda).

Invito a guardare la persona. E in questo c’è forse un senso anche di fastidio perché devi iniziare a considerare che non tutti sono come te. Quindi guardare all’altro come fonte di crescita e non come qualcosa che ti spaventa. È utopico ma un approccio di questo tipo può portare alla scoperta di cose molto interessanti.

La responsabilità sta da entrambe le parti, da quella della persona con disabilità e da quella che non la ha. Poi noi dal canto nostro dobbiamo comunicare un’immagine giusta di noi stessi: l’immagine di una persona che esce, fa, parla.

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