Non parlo solo del fatto di vincere la lotteria genetica che ti rende un essere umano atleticamente speciale. Quello è il requisito minimo, ma da solo non basta. Un tweet che ho letto recentemente diceva che, se Cristiano Ronaldo fosse nato nella Firenze del 1400, avrebbe passato le giornate a rodersi il fegato invidiando il talento musicale dell’organista di Santa Croce. Insomma, non basta nemmeno essere benedetti dal talento, c’è bisogno di una congiuntura storico/culturale che ti faccia nascere in un punto (e in un’epoca) della terra in cui uno sport che esalti le tue doti sia abbastanza popolare da permetterti di approcciarlo, o perlomeno di conoscerlo. Da qualche parte nella foresta amazzonica ci dev’essere un potenziale schermidore olimpionico che, purtroppo per lui, non afferrerà mai una sciabola. La nuova Megan Rapinoe avrebbe potuto essere una ragazzina saudita a cui non è mai stato permesso di calciare un pallone. Anche in un mondo iperconnesso come quello in cui viviamo, dove potrei googlare le regole della pelota basca e mettermi alla prova in questo momento, persistono queste coincidenze sfortunate. Ne ho la certezza perché il ragazzo che sto per intervistare ha rischiato sul serio di non conoscere mai lo sport che era nato per giocare.
Maximilian Pircher ha 21 anni, che è all’incirca l’età giusta per entrare in NFL, la lega statunitense di football americano. Il suo peso e la sua altezza gargantueschi - due metri per 145 kg - sono quelli che ci sia aspetta da un offensive lineman, uno dei cinque pretoriani posti a protezione del quarterback. Insomma, guardando Max Pircher oggi, vedendolo allenarsi negli Stati Uniti con il suo numero 66 sul petto, viene quasi automatico pensare che Max giochi da quando era all’elementari, che abbia lavorato tutta la vita per costruirsi quel fisico e quel talento. Invece non è così, perché Max è nato a Bressanone e come tantissimi ragazzi italiani è cresciuto totalmente all’oscuro di uno sport poco conosciuto al di fuori degli Stati Uniti. Max gioca divinamente, se è vero che lo scorso maggio i Los Angeles Rams lo hanno selezionato all’interno dell’International Pathway Program - un viatico creato dalla NFL per favorire l’afflusso di giocatori extra-americani - rendendolo l’unico italiano attualmente tesserato nella lega più selettiva e autarchica degli Stati Uniti.
Entrare in NFL è quasi impossibile, per farlo ci si prepara tutta la vita, a 18 anni si entra al College sperando che sia l’ultimo step prima del sogno - che per tanti resterà tale - di entrare in NFL. Ecco, Max Pircher a 18 anni non sapeva nemmeno cosa fosse la NFL. Non aveva mai indossato casco e paraspalle, né aveva mai rotto un Huddle in campo. Il suo talento ha seriamente rischiato di rimanere inespresso. Per fortuna non è andata così. In soli tre anni ha recuperato tutto il tempo perso, carbonizzando le tappe di un processo di crescita che lo ha portato dall’agnosticismo al professionismo in tempi incredibilmente brevi.
La notizia della sua chiamata in NFL ha avuto una risonanza enorme all’interno del movimento italiano, esploso di felicità per un ragazzo che, nonostante non abbia mai giocato per una squadra italiana, ha indossato con orgoglio la maglia della Nazionale e si sente molto legato a casa. Tutti noi abbiamo gioito per il suo sbarco in NFL, ma molti non conoscono le tappe della strada che lo ha portato da Bressanone a LA. Gli chiedo di partire dall’inizio, perché il suo primo approccio con il football è stato davvero incredibile, un qualcosa a metà tra una vocazione profana e un espediente cinematografico da film Marvel.
«Alle superiori frequentavo l’ITE Falcone e Borsellino di Bressanone. Un pomeriggio eravamo in aula informatica, ero un po’ annoiato e anziché seguire la lezione ho iniziato a guardare Facebook. A un certo punto mi si è aperto un video sul football americano e sono rimasto folgorato, mi sono detto “cos’è questo sport, voglio conoscerlo meglio!”. Fino a quel momento avevo giocato a calcio e pallamano, ma non sapevo nulla del football».
Max è così affascinato dal mix di adrenalina e violenza che il football sa trasmettere da non accorgersi che alle sue spalle è piombato il prof d’informatica. «Ero rassegnato a dargli il libretto e prendere una nota, invece lui mi ha solo detto “chiudi questa roba”». La storia d’amore tra Max e il football avrebbe potuto chiudersi così, ancor prima d’iniziare, con una punizione scampata e una fiammata di curiosità estinta dal rimprovero. Max forse sarebbe tornato a giocare a pallamano e non avrebbe più ripensato a quel video. È qui che la storia diventa hollywoodiana, perché il prof., che si chiama Matteo Braghini, conclude il rimprovero dicendo «io un tempo giocavo a football».
Braghini è stato un ottimo giocatore di football, ha persino vinto un Italian Bowl come tight end dei Giants di Bolzano. «Ho scoperto tramite sua madre che il prof era stato un buon giocatore di football. Quando gli ho chiesto della sua carriera mi ha risposto: "Ti piace il football? Allora vieni con me". Nel weekend mi ha portato a Innsbruck, dove giocavano gli Swarco Raiders. Lo stadio era bellissimo, c’erano migliaia di persone e lì mi sono innamorato definitivamente. Non volevo solo guardarlo, volevo giocarlo e volevo giocarlo nei Raiders».
Ma come nei Raiders? È impossibile recuperare gli arretrati di anni di maturazioni fisica e mentale. Oltre che accumulare brutte figure, rischi di farti male davvero. Provano a dissuaderlo in tutti i modi «ormai è troppo tardi, hai 19 anni», «non sei abbastanza grosso, guarda che questi fanno sul serio!». A guardare qualche foto dell’epoca è evidente come quelle preoccupazioni fossero legittime. Max non era di sicuro un fuscello, era un ragazzo atletico e sportivo, ma la sua corporatura non era adatta agli standard del football austriaco. «Pesavo 85 kg e tutti mi dicevano “sei troppo leggero, non sei adatto per il football”. Io non ho sentito ragioni e un lunedì mi sono presentato ai Rookie Mondays, i provini dei Raiders». Inizialmente è un po’ impacciato, come è normale che sia per un principiante, ma mostra subito un’agilità rapportata alla stazza molto interessante, che cattura subito l’occhio esperto di Lee Rowland, il coordinatore offensivo. Rowland, che ha un passato in NFL, capisce subito che Max può girare quel deficit di peso a suo vantaggio. «Tu hai quello che serve per giocare linea offensiva, se vuoi, ti alleno tutte le settimane».
Max ovviamente accetta. Il fisico è tutto da costruire, insieme alla miriade di tecniche che un offensive lineman deve padroneggiare per ricoprire una posizione così vitale, dove anche un errore microscopico può far collassare la giocata. Max scopre presto che gli uomini di linea sono gli unsung heroes del football. Il loro lavoro sporco e nascosto permette il successo di chi lancia, riceve e corre touchdown. Non a caso, l’etichetta della NFL vuole che i quarterback regalino qualcosa di prezioso - un Rolex, una Jeep - a chi li ha protetti per tutto l’anno. Più passano gli allenamenti, più Max sente suo quel ruolo: «Di giocare in linea offensiva mi piace tutto, per prima cosa la fratellanza che si crea tra i membri della linea. Anche qui a Los Angeles, non importa se sono arrivato da poco e non sono americano, noi della O Line siamo come fratelli, ci aiutiamo in tutto e siamo sempre pronti ad aiutare il nostro compagno. Poi è bello perché c’è sempre da dare e prendere botte», mi dice sorridendo. Gli chiedo allora cosa lo affascina di più della sua posizione, se l’aggressività quando c’è da «spostare un uomo dal punto A al punto B contro la sua volontà» o se invece lo gratifica di più il proteggere l’asset più importante della squadra. «Apprezzo tutti e due gli aspetti, ma il momento più bello per me è quello in cui capisco che ho bloccato per quella frazione di secondo in più che serve al QB per lanciare e completare una Big Play. Quel respiro di sollievo è davvero bellissimo».
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Fast Forward di qualche mese. Max Pircher diventa la guardia titolare degli Swarco Raiders. È qualcosa di semplicemente inaudito, visto che i Raiders, una sorta di Bayern Monaco del football europeo, sono quanto di più vicino ci sia al football statunitense da questa parte dell’Atlantico. Lee Rowland ci aveva visto giusto: Max è diventato enorme, sembra costruito come le sequoie giganti di Fennhals, robusto e slanciato allo stesso tempo, ma tutta la massa accumulata non lo ha privato di una velocità di piedi naturalissima. I suoi blocchi spalancano varchi per la superstar Sandro Platzgummer, un prodigio di running back che a fine 2019 verrà chiamato nel programma IPP e sarà scelto dai New York Giants. L’anno dopo arriverà il turno di Max, che nel frattempo si è trasferito agli Hildesheim Invaders ma, causa Covid, non ha giocato nemmeno uno snap. Poco male: sono bastati i suoi exploit ai Raiders e le sue misurazioni atletiche alla Combine di Colonia per convincere James Cook, il responsabile dell’IPP, che ha i numeri per puntare alla NFL. Prossima fermata Orlando, Florida.
IMG Academy
La IPP osserva ogni anno circa 8000 giocatori internazionali. Di questi, solo una decina vengono selezionati per la IMG Academy, un’accademia sportiva situata in Florida dove viene allestito un centro di allenamento dedicato ai giocatori internazionali. Max atterra a Orlando con tanto entusiasmo e un po’ d’ingenuità. Il regime fisico della IMG non è troppo distante da quello di un accademia militare. «Il primo giorno di allenamento lo abbiamo iniziato con una seduta riscaldamento. Dopo il primo warm up eravamo distrutti ed era solo l’inizio: ogni giorno avevamo due warm up e due allenamenti». L’impatto non è facile, anche perché Max è lontano da tutti, dai genitori e dalle due sorelle, dalla fidanzata Hannah, che lo ha sempre sostenuto ed è stata la sua prima personal trainer e nutrizionista. Tra allenamenti forsennati e sedute tattiche interminabili, ogni tanto si fa dura davvero. Nei momenti più difficili la tentazione di mollare si insinua, infiltrandosi nel suo corpo attraverso l’acido lattico in cui affogano i suoi muscoli. Max riesce a scacciarla pensando a casa: «A Orlando i giorni erano durissimi, a volte mi veniva da pensare di mollare, ma poi ho pensato “no, in Italia ci sono ragazzi che guardano a me, se vedono che posso farcela, gli posso dare speranza per inseguire il loro sogno”». Di quel periodo Max si porta dietro tanti ricordi positivi e dei legami personali che resteranno per sempre: «È stata un’esperienza incredibile. Io e gli altri ragazzi abbiamo creato un legame fortissimo, ci sentiamo ancora spesso tra di noi e siamo tutti grati per l’opportunità che ci hanno concesso. L’Academy ci ha dato la possibilità di fare quello che in Europa non è possibile, concentrarci 24 ore al giorno solo sul football. Eravamo seguiti in tutto, spesso venivano a trovarci ex coach o general manager della NFL. Ci davano consigli su come migliorarci e su come impressionare gli scout».
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Tutta quella fatica alla fine ha pagato e Max ne esce con la consapevolezza di potersela giocare davvero: «In primavera siamo stati a Gainsville, al Pro Day di Florida (una powerhouse del College Football), e lì ci siamo resi conto di essere sullo stesso livello dei ragazzi che si preparavano per il Draft. Questo ci ha dato ancora più fiducia per il nostro futuro». Il Max Pircher che esce dalla IMG Academy è diverso da quello che era entrato: è più grosso, più forte, più tecnico e soprattutto più sicuro di sé: «La IMG Academy è stata una grandissima parte di come sono adesso e di come agisco ora nella NFL. Mi hanno fatto capire che i limiti che pensavo di avere potevo superarli, ed è quello che ho fatto». Limiti non sono fisici, ma anche cognitivi, perché in uno sport ipercomplesso come il football, spesso lo spartiacque tra chi resta nella lega e chi esce è proprio la capacità di assorbire tantissime informazioni in pochissimo tempo. Nelle logiche darwinistiche della NFL non c’è tempo per aspettare nessuno: se non impari alla svelta, troveranno qualcuno che impara più velocemente di te. «Ogni giorno all’Academy ci valutavano per la nostra capacità di imparare gli schemi. Una sera ci hanno dato un sacco di Plays da studiare e la mattina dopo ci hanno interrogato per vedere chi le aveva imparate meglio». All’interrogazione della mattina dopo, Max era stato il primo della classe. Non è un caso che alla fine, tra i 4 nomi scelti dalla NFL, ci fosse anche il suo.
California Dreamin'
Il So-Fi Stadium è un gioiello architettonico posto a Inglewood, nella zona sud-ovest della Contea di Los Angeles. È un impianto nuovo di zecca, gli spalti sono praticamente intonsi, visto che l’anno scorso è stato inaugurato senza tifosi sugli spalti. L’attrazione principale del So-Fi è l’Oculus, un mastodontico schermo in 4K che sormonta il campo di gioco in tutta la sua lunghezza. Lo scorso 22 maggio gli 80 milioni di Pixel dell’Oculus hanno composto il benvenuto dei Rams a Max Pircher, che dal campo ha osservato a bocca aperta, rendendosi conto sul serio di cosa significhi arrivare in NFL.
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Ora che è passata qualche settimana, Max ha potuto metabolizzare lo stupore iniziale, ma sono ancora tante lo cose che lo lasciano a bocca aperta della sua nuova realtà: «Mi stupisce il livello di professionalità e l’organizzazione maniacale di ogni singolo dettaglio, dall’equipaggiamento tecnico ai ritmi di allenamento». Ogni giorno che passa Max è sempre più convinto di quello che aveva pensato da subito: «I Rams sono il meglio che potessi sperare per la mia carriera». Al di là dello stile di vita losangelino - che Max apprezza molto nonostante le origini dolomitiche - i Rams sono una franchigia all’avanguardia, per certi versi persino visionaria, e le loro mosse recenti confermano che tutti, dal GM Les Snead all’Head Coach Sean McVay, credono davvero nelle potenzialità di Max. «Sento tutti i giorni questa fiducia su di me, la sento in come mi parlano, nel tempo che dedicano ai miei miglioramenti in allenamento». Aggiungo io, i Rams non hanno scelto nessun offensive lineman allo scorso Draft, il che significa che Max non è finito a LA solo per strizzare l’occhio al mercato europeo, ma perché McVay e Kevin Carberry (l’OL coach) lo vedono bene nell’attacco della squadra. Il 35enne McVay è uno dei guru offensivi della lega. È stato lui, come da tradizione, il primo a chiamare Max per dargli il benvenuto: «Ho sentito un sacco di belle cose su di te, direi che con il tuo background in calcio e pallamano sarai molto agile e potrai dare una mano ai ragazzi in linea, vero?». Come ai tempi dei Raiders, la carta vincente di Max è sempre l’atletismo, che è una prerogativa fondamentale negli O lineman di McVay, che corrono una miriade di outside zone runs e quindi sono chiamati a muoversi agilmente e a sganciarsi in campo aperto per portare blocchi sul secondo livello. Max è perfetto per questo stile di gioco, ma prima di metterlo in pratica c’è da mettersi in pari con la conoscenza dell’attacco: «Il playbook è molto complesso, ma piano piano lo sto imparando sempre meglio e mi sento sempre più a mio agio. Anche a livello fisico i coach sono soddisfatti, continuo a lavorare per diventare sempre più forte ma già ora sono al livello richiesto dalla NFL».
In questi mesi Max sta stipando il suo bagaglio tecnico e umano di esperienze impagabili, a partire dal contatto diretto con i campioni di un roster talentuoso come quello dei Rams: «Lo spogliatoio è fantastico, tutti i campioni sono umili e mi hanno accolto benissimo. Abbiamo già fatto dei barbecue a casa di Matt [Stafford, il nuovo quarterback arrivato dai Detroit Lions], ovviamente ho già conosciuto Jalen Ramsey e Aaron Donald», le due superstar della difesa. Essendomi autonominato pastore della Chiesa di Aaron Donald, sfrutto subito la chance di dar sfogo alla mia curiosità chiedendo a Max cosa si prova a stare vicino a un alieno. «Sono molto contento di allenarmi contro Aaron, perché se imparo a bloccare lui significa che posso fermare chiunque nella lega. Fuori dal campo è gentile e cordiale, in campo è un animale. Non abbiamo ancora fatto allenamenti al 100% d’intensità, ma mi sono bastate le prime scrimmage per capire quanto è alto il suo livello. Lui non si limita a batterti, ti butta a terra e sembra che ti è passato sopra un uragano. Contro Aaron devi essere perfetto perché anche se hai le mani solo dieci centimetri più su o più giù contro di lui hai perso in partenza».
Sfidare ogni giorno Donald è un’opportunità incredibile, ma per Max il vero vantaggio di giocare nei Rams non sta nei giocatori che si trova contro, ma in uno che starà sempre al suo fianco. Max ha fatto sei al Superenalotto nel momento in cui Andrew Whitworth ha deciso di prolungare di almeno un anno la sua leggendaria carriera. Whitworth, 39 anni, è uno dei migliori left tackle della sua generazione. Per un giovane come Max, lavorare con lui è come per un aspirante pittore finire nella bottega di Raffaello. Di tutti gli apprendisti, Whitworth sembra avere un occhio di riguardo proprio per Max, che lo osserva con gli occhi a cuoricino e cerca di assorbire tutto quello che può: «È incredibile per me poter lavorare con Whit, anche se sono solo un rookie lui si prende tantissimo tempo per insegnarmi quello che sa». Sarà un caso, ma nel suo breve percorso in questo sport Max ha sempre attirato chi di football ne capisce, dal prof Braghini a Lee Rowland fino a Whitworth, dal quale sta cercando d’imparare un altro fondamentale decisivo, la leadership: «Whit è il veterano con più esperienza, quindi prima di ogni allenamento ci riunisce e dice: “Lo sapete perché siamo qui, lo sapete qual è l’obiettivo. Il lavoro per raggiungerlo inizia ora”. Quando parla così senti proprio l’energia cambiare nella squadra, è l’energia giusta per provare a vincere il Super Bowl. Non vediamo l’ora che inizi la stagione».
Ora che gli OTAs (Organized Team Activities, gli allenamento “leggeri” che aprono la stagione) sono quasi alle spalle, c’è un ultimo appuntamento prima dell’inizio della regular season, il più difficile e competitivo. A inizio agosto comincerà il training camp, una sorta di esperimento di macelleria sociale applicata allo sport professionistico. Si parte in 90, si taglia in stile reality show fino ad arrivare a 53 più le riserve della practice squad. I giocatori più in basso nelle gerarchie di squadra lottano ogni singolo giorno per la sopravvivenza nella lega, un solo errore e il coach ti chiama nel suo ufficio, ti fa riconsegnare il playbook e ti augura buona fortuna. In quanto giocatore IPP, Max gode di qualche tutela contrattuale in più rispetto agli altri giocatori che lottano per un posto in squadra, i cosiddetti camp bodies, ma dovrà comunque dare risposte importanti per far sì che i Rams continuino a credere in lui.
Ovviamente sono di parte, ma essendo ossessionato da Hard Knocks (la serie di HBO che segue ogni anno il training camp di una squadra), mi sento di dire che Max ha tutto quello che serve per fare un grande training camp. Per prima cosa, è incredibilmente consapevole dei propri mezzi. Giustamente ci tiene a smentire che sul piano fisico non è pronto («Fisicamente sono di dimensioni paragonabili a quelle di Eric Fisher e altri tackle titolari»), non è disposto a passare per il ragazzino acerbo che non può stare con gli uomini maturi. Sa di meritarsi il posto che occupa, ma sa anche che di strada da percorrere ce n’è ancora parecchia, e ha l’umiltà di voler imparare e l’intelligenza per capire come farlo. Mi colpisce in particolare il modo in cui parla del long snapper - un ruolo in cui si “snappa” la palla all’indietro per field goal e punt - che in una squadra di football è praticamente la ruota di scorta dell’ultima ruota del carro. «Si può imparare tanto da tutti i giocatori, non solo dai più famosi. Io passo molto tempo con Matt Orzech, il long snapper. Anche se sembra un ruolo semplice, lui deve scendere in campo nei momenti più importanti della partita e non può mai sbagliare. Lui non può mai vincere, lo si nota solo se sbaglia, un po’ come noi offensive linemen. Parlare con lui mi ha insegnato a gestire la possibilità dell’errore». Lo spettro del fallimento aleggia in ogni momento della vita di un giocatore di football. Spesso chi sbaglia lo fa perché ne é paralizzato. Max, invece, ha imparato a esorcizzarlo. In un’intervista rilasciata a Fidaf TV ha detto una frase che mi ha molto colpito: «Se hai paura, questo è il posto sbagliato per te». Se prima di conoscerlo potevo interpretarla come una spacconata un po’ superficiale, dopo la nostra chiacchierata sono sicuro del contrario. La sua sicurezza è la conseguenza delle ore di lavoro che ha fatto su sé stesso, a Innsbruck a Orlando e ora a Los Angeles, nessuno gliela può togliere. Max è sempre riuscito a usare la paura come benzina per dare il massimo, fare uno scatto in più, sollevare la panca un’altra volta, migliorarsi ogni giorno. Sono certi che continuerà a farlo anche in NFL.
Prima di salutarlo gli chiedo se si ricorda qual è il video che lo ha fatto innamorare del football. «Me lo ricordo benissimo, era un video di Marshawn Lynch [ex running back dei Seattle Seahawks, detto beastmode per la sua violenza], una corsa centrale in cui lui ribalta cinque avversari e va a segnare il touchdown». Rido d’incredulità. È il video del beastquake, lo stesso che qualche anno prima ha fatto innamorare me del football. Questa coincidenza ci fa riflettere. Io e Max, in modi diversi e con risultati decisamente diversi, abbiamo dedicato così tanto tempo a un gioco che abbiamo conosciuto per caso e che ha finito per farci innamorare. Se l’algoritmo di Facebook non avesse fatto da Cupido per entrambi, forse questa intervista non ci sarebbe mai stata, io non avrei mai iniziato a scrivere di football e Max non avrebbe mai iniziato a giocarlo. Pensiamo a quanti ragazzi italiani non hanno avuto la nostra stessa fortuna, a quanti si sarebbero potuti innamorare del football come noi se solo ne avessero avuta la possibilità. Chiedo a Max se si rende conto di quanto lui, in quanto giocatore italiano, può contribuire a cambiare le cose, se vive questa responsabilità come un peso o un’imposizione, visto che in fin dei conti lui non deve niente a nessuno e sarebbe ingiusto forzarlo nel ruolo di portabandiera del football italiano. Lui mi ferma e mi dice: «No, io voglio sentire questa responsabilità, la voglio portare con me, voglio che mi spinga a dare il massimo e che tanti ragazzi italiani possano seguire la mia strada». Gli auguro che la sua strada lo possa portare al Super Bowl, che tra l’altro quest’anno si giocherà proprio al So-Fi Stadium, il suo stadio. «Già, spero di esserci, e Marshawn Lynch ci sarà di sicuro. Se lo incontro, lo ringrazio».