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Bruciare le navi per giocare a football
23 apr 2025
Intervista a Nausicaa Dell'Orto, che sta provando a far crescere il football femminile in Italia.
(articolo)
14 min
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Nausicaa Dell'Orto è una giocatrice di football americano, membro della Nazionale, ma anche di flag football (una variante piuttosto simile ma senza contatto). La sua esperienza le è valsa diversi ruoli istituzionali: NFL & IFAF Global Flag Football Ambassador, consigliere dalla Federazione italiana e influencer per DAZN, con cui cerca di promuovere la NFL in Europa. È anche merito suo se oggi le bambine e la ragazze possono immaginare di giocare football, o addirittura di arrivare alle Olimpiadi, dato che a Los Angeles nel 2028 si giocherà anche a Flag Football. Insomma è la figura ideale per parlare di gender gap nello sport, di football, di come si superano le differenze, ed è per questo che la incontro per un'intervista.

Dici spesso che il football ti ha cambiato la vita, che intendi?

Ero una bambina molto compiacente che stava nel suo: avevo associato l'obbedienza a essere amata da tutti. Mi spiego: se compiaci e stai al tuo posto, ti vogliono bene, sei amato in un certo senso. A 16 anni facevo ginnastica artistica e danza, facevo la brava e mi ero un po' rotta di fare questi sport. Ne volevo fare uno simile, scegliendo io. Ho cercato in rete e trovato una squadra di cheerleader a Milano, perché volevo competere, fare le piramidi, volare. Entro in questa squadra di cheerleading e ci aspettava da me che fossi aggraziata, che facessi le cose per bene. Mi fanno sapere che il weekend si sarebbe svolta la partita di football americano, era il 2010. Non sapevo nemmeno cosa fosse il football: mi presento, faccio il tifo, sto zitta e buona come sempre, sto ferma quando mi dicono di star ferma, mi muovo quando mi dicono di muovermi e poi cambia qualcosa. Vedo questi ragazzi giocare, placcarsi, correre verso la meta e invece di stare nelle linee delle cheerleader, corro insieme ai loro: mi ritrovo praticamente nella meta. C'era qualcosa che mi trasportava, che mi ha accenso un fuoco dentro.

Decido che voglio giocare: peccato che non ci fosse nessuna squadra di football americano femminile, non esisteva. Non era qualcosa che si potesse pensare: mi guardo intorno. Valeria, la figlia del coach voleva giocare, idem alcune compagne di squadre del cheerleading. Ci riuniamo, andiamo dal Presidente e diciamo che vogliamo creare la prima squadra [femminile, nda] della storia. Ci guarda e ci ride in faccia. «Non lo farei mai», ci dice «non sapete neanche giocare a calcio, figuriamoci a football, siete il sesso debole per un motivo, vi fate male». Ci rivolge una mitragliata di stereotipi, uno dopo l'altro. Andiamo così dal padre di Valeria che era allenatore e lui ci incoraggia, ci dà i caschi, i paraspalle degli anni 80 e ci insegna a giocare a Parco Sempione. Eravamo in 5, diventiamo 20, tutti si fermano a chiedere cosa facciamo.

Dopo un mese troviamo una squadra di Bologna che stava nascendo e giochiamo il primo match: ci sono 300 persone a vederci. Tutti ci guardano, pensano che sia una follia, un circo, vengono per osservare qualcosa di “esotico”. Giochiamo, vinciamo e il Presidente cambia idea, investe e lo fa anche la Federazione. Oggi, nel 2025, ho fatto un camp al Vigorelli a Milano, con una decina di ragazze che a 13 anni giocano: alla mia epoca era impensabile. Grazie a quell'esperienza, mi sono conquistata il mio spazio nel mondo, ho conquistato un sogno che era mio e poi l’ho donato a tante altre ragazze. Qualcosa non solo per me, più grande di me.

Ho raccontato tutta questa storia perché il football mi ha reso fiera di quello che sono, di camminare a testa alta. Io sono Nausicaa e gioco, il mio nome vuol dire “colei che brucia le navi “e io ho bruciato le navi: ho bruciato tutto e fatto qualcosa di nuovo insieme alle mie compagne perché senza di loro non sarei nulla. Il football mi ha fatto trovare il mio posto nel mondo, il mio posto in cui, qualsiasi cosa succeda, va tutto bene perché faccio lo sport che amo di più. Ho imparato a lavorare con le donne, a non misurarmi con loro ma a farmi aiutare da loro, ad aiutarle, a raggiungere un obiettivo guardando tutti dalla stessa parte.

Una persona che era assolutamente contraria al mio praticare questo sport era mio padre, nato nel 1936. Voleva che facessi ciclismo, io no. Mi avrebbe comprato 20 bici, ma il football americano assolutamente no. Lui purtroppo è una persona che non aveva strumenti per esprimersi, quindi gli unici strumenti che conosceva erano le mani. Mi aggrediva dopo che tornavo dagli allenamenti, mi ha perforato un timpano a suon di botte. Ha cercato anche di buttarmi casco e paraspalle, ma arrivavo sempre prima. In terapia ho capito che non sapeva come esprimersi. Suo padre voleva che lavorasse nell’azienda di famiglia e lui voleva fare il cantante lirico: nella vita gli schemi o li cambi e rifiuti o li ripeti, come ha fatto. L’ho perdonato, è una persona che non era in grado di capire, di amare, è molto depresso, solo, non sa neanche che gioco in Nazionale. Non sa che grazie alla mia partecipazione alla campagna olimpica il Flag Football diventerà uno sport olimpico nel 2028. Eppure, non importa, ho trovato il mio casco, il mio paraspalle per proteggermi da queste cose, per proteggermi anche dalla sua violenza, per creare la mia forza.

Ti senti un po’ un’eroina classica?

No, perché non sono così virtuosa. Non mi piace quando mi danno dell'eroina, questo è uno sport di squadra e senza le mie compagne non sarei niente. È una lotta che è partita da poche ragazze, ma è una lotta collettiva contro degli stereotipi che non fanno bene a nessuno. Non mi sento una rivoluzionaria, mi sento solo una ragazza che aveva un sogno e con altre ha deciso che non voleva essere l'unica donna nella stanza, ma voleva fare entrare un mondo di donne in questa stanza.

Mi sembra che negli ultimi tempi si stia abbandonando la narrazione per cui le donne sono invidiose l’una dell’altra e finalmente si parli della famigerata solidarietà femminile, che ne pensi?

Io sono del 1993, sono cresciuta, come tante prima, in una cultura in cui le donne sono state comparate per la loro bellezza. Una donna deve essere bella, femminile e aggraziata. In più non c'è tanto spazio per noi, quindi ci si fa un po’ la guerra, mentre ci sono tanti posti per i ragazzi. Questo è stato un grosso problema. Alla fine, ti trovi a dover competere perché sei cresciuta nella competizione tra donne. Nel football e negli sport di squadra, ti rendi conto che per forza devi lavorare con la tua compagna, ma non perché se non passi la palla allora fai gol tu. Nel football americano, specialmente quello con contatto, se non blocchi per un'altra compagna di squadra, si rompe la gamba e viceversa. È un legame intenso, che c’è anche nel rugby: se non ti sacrifichi per l’altro o metti la tua vita in mano all'altro, non vai da nessuna parte, devi essere una macchina ben oliata per poter avanzare verso la vittoria. Grazie al mio sport, ho imparato a lavorare con le donne, a volte anche con donne che mi stanno antipatiche, questo succede sempre: il concetto di sorrellanza l'ho capito perché ha un senso molto più profondo. Sul campo, lottiamo tutti per la stessa cosa e questo vale nel lavoro. Vedo tantissime donne che spesso sono intimidite da me, senza capire che siamo dalla stessa parte, c’è posto per tutti. È importante sapere quale sia il proprio volore e cosa si porta in un gruppo. Spero che questa presunta rivalità finisca: la verità è che quando lavoriamo in gruppo siamo inarrestabili e forse per questo che ci tengono lontano l'una dall'altra.

E invece il football femminile in che direzione sta andando? Si sta diffondendo anche il flag football.

Sì, sta prendendo piede più facilmente perché ci vogliono poche risorse per praticarlo, non avendo bisogno di casco e paraspalle, è più semplice e hai bisogno di meno persone per giocare. Una squadra di football americano necessita di almeno 35 persone, nel flag basta essere in sei al massimo, cinque è minimo ed è più semplice per creare un movimento che sia stabile. È importante che sia accessibile e poi è sport olimpico: una volta che diventi olimpico sei più popolare e si investe di più. Con il flag ci sono opportunità di giocare tutto l’anno, meno infortuni. È cambiato tutto: le Nazionali femminili, già dalla junior, vincono tante medaglie a livello europeo. La seniores è tra le prime otto al mondo. C’è tanta attenzione al flag, è stata assunta una coach americana l'anno scorso. La nostra vicepresidente Valeria Guglielmino è una donna, la prima volta nella storia della nostra federazione. Tante cose stanno cambiando: durante la pandemia ho regalato un pallone a questa bambina di nome Gaia, in quel periodo facevo vari regali. All’epoca aveva circa 6 anni, adesso è quarterback della sua squadra, i Frogs Under 13, ed è l'unica ragazza che è un quarterback di una mista, giocano insieme fino a 17 anni. La strada è ancora lunga perché non siamo professioniste, non siamo nel corpo dell'Arma, però le cose si stanno muovendo.

A parte le calciatrici nessuna è professionista, state lavorando su questo fronte?

Sì, in alcuni sport puoi entrare nei corpi dell’Arma, noi ancora no. Ovviamente era necessario diventare federazione nazionale e sport olimpico. Stiamo mettendo in atto con la nostra commissione atleti nuove iniziative per le ragazze e ragazzi di questo sport che vogliono vivere di questo, come è giusto che sia.

Ma in cosa consiste nello specifico il flag football?

Il flag football è la versione senza contatto del football normale: si ha una palla in mano e delle flag, delle bandierine attaccate in vita. La palla viene lanciata in avanti o indietro come nel football classico, così rimane la spettacolarità di questi lanci lunghissimi, di questi interventi sulla palla che puoi sempre deflettere, come nel basket. Per fermare l'azione e placcare il portatore di palla, devi strappare le bandierine invece che placcare fisicamente l'avversario. È più fruibile in TV, dura 40 minuti. È bellissimo come sport perché è fatto per tutti e conta 20 milioni di atleti nel mondo, ha una crescita molto importante negli Stati Uniti ma anche in Messico. Lì, la comunità di flag football è anche più grossa che negli Stati Uniti che solo recentemente hanno cominciato a investire nel flag. Nelle high school americane ci sono i varsity team, ovvero le squadre come quelle di basket della scuola. Il flag football non era un varsity sport, non era considerato un vero sport da high school e adesso lo stanno includendo in tutti i 50 stati nelle high school. Inoltre, la NCAA [National Collegiate Athletic Association, ndr] sta creando le prime borse di studio per flag football, cosa che quando ho iniziato io era impossibile. Sono andata a un camp di Peyton Manning, che è uno dei più grandi quarterback della storia dell'NFL. Oltre ai training, dovevi ascoltare uno della NCAA che ti diceva: «non importa che sport sceglierai, basta sceglierne uno a caso, perché così avrai una borsa di studio e potrai andare all'università». Ho alzato la mano e ho detto ma: «perché non vale per il football?». Ora tutto questo sta diventando realtà.

Visto che si perde il contatto, qual è il tuo rapporto con la fisicità e come cambia l'approccio nei confronti degli altri?

All'inizio è stato molto difficile, sono abituata a scontrarmi con i muri, mi piace il contatto fisico. Il flag mi ha insegnato a domare questa “bestia”, questo demone del contatto ed essere molto più equilibrata e anche avere più velocità sui piedi. Si fa un allenamento un po' più aerobico: devi correre tanto, devi evitare di essere preso. All’inizio, mi veniva solo da sfondare e mi rodeva troppo: mi tiravano la bandierina e pensavo che nel football prima di buttarmi giù mi devi sotterrare. Con il tempo l’ho apprezzato, ho domato questa cattiveria e aggressività, quest'amore che ho per il contatto.

Ci pensi al sogno olimpico? Di solito è l’obiettivo di tutti.

Fino a tempo fa sembrava una cosa impossibile. È molto difficile entrare come nuovo sport alle Olimpiadi. Il comitato olimpico ha un codice etico molto particolare. La NFL ha dato una grande spinta, perché ha offerto i partner, la comunicazione, i social e si sono offerti di costruire gli stadi, quello ha aiutato molto. Io ho preso parte a quei meeting con il CIO e devo dire che ho apprezzato che non abbiano detto subito sì. Volevano prima capire cosa viviamo veramente. Io e la capitana del Messico, Diana Flores, abbiamo dovuto spiegare come questo sport abbia impattato sulle nostre vite. Poi la vera sfida sarà tenere il Flag anche a Brisbane 2032. In previsione la NFL ha deciso di fare una partita a Melbourne nel 2026, si stanno preparando per l'Australia, per far sì che non sia un "one and done". È un sogno. Io penso di aver visto le Olimpiadi di ginnastica artistica e di aver cominciato così a fare ginnastica da piccola. Nel 2028 comunque avrò 34 anni, non so se ci arriverò come giocatrice ma sicuramente o ci arriverò da coach o facendo parte nella federazione, lavorerò per la squadra. Alla fine l'importante è portare la bandiera italiana in alto. Non mi interessa del mio nome. Il mio nome sparirà: l'importante è creare opportunità per le ragazze che vengono dopo di me. E se io posso vedere una ragazza che è all'Olimpiadi perché le ho regalato una palla o ha visto che ho dato le flag a Travis Kelce al Super Bowl, per me quella è una vittoria: aprire le porte anche per gli altri e fare strada.

Per lavoro hai seguito sette Super Bowl: qual è la cosa che ti sorprende ogni volta?

Per me è come Natale, è il posto più bello dove essere per una persona che ama lo sport. Puoi ascoltare tutte le storie di questi grandi campioni che non hanno niente a che vedere con te, magari sono multimilionari, ma quello che passano ogni giorno è la stessa cosa che vivi tu. È una festa per gli americani, è tipo Sanremo. Quando si è svolto a Los Angeles, la prima che ho visto è stata Jennifer Lopez e poi accanto c'erano Orlando Bloom e Katy Perry, Martha Stewart, poi Kanye e Drake. Oltre a questo, mi emoziona perché sono una delle prime italiane che ha lavorato per la NFL Films [la società di produzione cinematografica e televisiva della NFL, nda] e che lavora con la NFL. Nel 2016 sono andata al forum della NFL per le donne, il primo nella storia, c’era Samantha Rapoport, la vicepresidente del Football Development. Mi disse: «tu puoi lavorare nel football». Io ero lì perché stavo giocando un torneo ad Orlando e ho creduto alle sue parole e mi sono trovata un lavoro in NFL. Il Super Bowl mi ricorda che ho fatto della mia passione il lavoro, che posso andarmi a prendere qualsiasi cosa e mi sono andata a prendere il lavoro dei miei sogni perché amo questo sport più di qualsiasi altra cosa al mondo.

C’è un aneddoto che ti ricordi particolarmente?

Ricordo bene il primo anno che sono andata. C’è una regola per cui gli stagisti [allora lavorava per NFL Films, nda] non vanno al Super Bowl. Tre cameramen avevano chiesto di me: ero la runner più veloce, mi mettevo gli scarpini da football e portavo le lenti da una parte all'altra o i treppiedi da una parte all'altra del campo, correndo. Mi hanno portata e sono riuscita a vedere la mia squadra del cuore, gli Eagles, vincere il loro primo Super Bowl della storia, nel 2018 in Minnesota, a Minneapolis. Poi ricordo quando a Los Angeles dopo lo show di Dr. Dre, di Eminem e Snoop Dogg, ero nel tunnel dello stadio e Dr. Dre mi vede correre come una pazza e mi dice: «Ehy, you wanna ride?». E sono salita sul suo kart e mi ha dato un passaggio all'ascensore, ho ancora i video.

Pensi mai di ritornare in America a lavorare per la NFL?

In realtà il mio apporto alla NFL è più importante in Europa che in America perché lì va tutto bene. In Europa stanno cercando di aumentare la propria audience perché vogliono diventare uno sport affermato nel mondo. Non escludo che presto possa avere un ruolo più istituzionale con la NFL in Europa nel prossimo anno. Il mio sogno più grande è organizzare la prima partita in Italia, cosa che succederà, lo dico da sempre e lo farò.

Ti piacerebbe allenare?

Mi piacerebbe tantissimo, non sono pronta quest’anno e forse lo sarò tra un paio, ma mi piace lavorare con i ragazzi, con le ragazze e trasmettere la mia passione sul campo. Ho tanti sogni del cassetto, speriamo di realizzare i più belli.

C’è una figura che ti ha ispirato in questi anni?

Sicuramente Sam Rappaport, di cui parlavo prima, che ha influito tantissimo sulla mia vita, perché mi ha fatto vedere che qualcosa era possibile quando per me era una follia. Non è solo la vicepresidente del football development, ma è stata la persona che ha portato le coach donne nell'NFL. Poi mia nonna Vinicia, quando le raccontavo di mio papà, mi diceva: «Bambina se ci sono delle persone, delle cose che ami, dovrai sempre lottare». Mi ha ispirato ad andare avanti nonostante le difficoltà, a credere nella mia visione quando nessuno la vedeva. È scomparsa quando aveva 82 anni, il mio numero 82 è per lei, perché ogni volta che faccio quello che amo, la penso, le dedico ogni partita, mi ha insegnato a lottare senza lamentarmi.

E tu che consigli daresti a una ragazza che si avvicina allo sport e al football?

Direi, in primo luogo, di fare qualcosa che si ama e che appassiona, non deve essere per forza uno sport o il football. L'importante è guardarsi intorno e capire che ci sono persone pronte ad aiutarti, a credere nel tuo sogno quando per te è più difficile e sono pronte ad essere le tue sorelle. Il tuo coach può essere tuo padre quando la tua famiglia non ti supporta. Tanti mi chiedono cosa si possa dire alle famiglie per essere più “supportive”: direi a tutti i genitori di esserlo, ma quando non accade l'importante è crearsi una struttura di supporto nel proprio mondo, trovare qualcuno che crede in te.

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