
La carabina di Niccolò Campriani non ha più sparato un colpo dalla finale di Rio 2016: oggi è esposta al museo Olimpico di Losanna. Dalle ultime Olimpiadi, però, sono accadute diverse cose. Campriani è un inesauribile lavoratore, eterno curioso e assetato di sfide. Il suo curriculum sportivo conta tre medaglie d’oro e una d’argento ai Giochi Olimpici, a cui si unisce un’esperienza al CIO e un’avventura come allenatore di atleti rifugiati. E ancora, un breve percorso nel mondo del motori (è ingegnere), oltre all’attuale ruolo di responsabile del dipartimento sport di Los Angeles 2028.
«Avevo sopravvalutato il concetto di identità, sto accettando una certa fluidità», dice alla fine dell'intervista in cui ripercorriamo la sua carriera «Sono una persona con tanti interessi, non mi vedo catalogato a fare una determinata cosa e basta». Sarebbe impossibile anche volendo, troppe le sfaccettature del suo animo e troppe le avventure da vivere. Ripartiamo, così, dalle origini di tutto: lo sport.
Facciamo un salto indietro nel tempo, hai un bel bottino di medaglie olimpiche, ma al di là di quelle, che cosa ti porti dietro da ogni edizione?
Sì, ho vissuto tre Olimpiadi molto diverse tra loro, perché erano diversi i momenti della mia vita. Per ognuna c’erano pressioni: a Pechino ero uno dei più giovani nel mio sport, a Londra arrivavo da numero uno del ranking mondiale e c’erano un certo tipo di aspettative. Infine, a Rio, ero il fantasma di quello che ero stato a Londra. Più che una carriera sportiva è stato un percorso. Sono stati 12 anni di vita trascorsi in posti diversi, con persone diverse. Prima di Pechino ero in Italia, tra Pechino e Londra c'è stato il periodo americano con il college in West Virginia. Prima di Rio c’erano tante riflessioni, sapevo che ero arrivato alla fine della mia carriera, e se da una parte volevo stare sul pezzo per cercare di fare il meglio in Brasile, dall'altra c'era la curiosità di capire cosa sarebbe arrivato dopo. Penso che in questo discorso si possano rispecchiare persone che fanno un certo tipo di carriera, come quella da musicista, o che lavorano in ambiti in cui si ambisce al perfezionismo, a diventare il più bravo a fare una certa cosa.
La ricerca della perfezione è mai diventata un'ossessione per te?
Sicuramente la carriera dell’atleta è un po’ anomala. Diventare il più bravo, o cercare di essere uno dei più bravi al mondo a fare una cosa sola, premia un certo modo di pensare, alcune caratteristiche personali. Nel mio caso lo sport ha scelto me e un po' ho scelto io lo sport. Si entra nel vortice e con certi atteggiamenti si arriva a un risultato, mentre con altri no. Ma la cosa interessante succede quanto smetti: a quel punto cerchi di essere qualcosa di diverso da quello che sei stato, bisogna integrarsi al meglio nella società. Non è detto che raggiungere l’apice in un determinato contesto aiuti un domani, o almeno per me non è stato così. Sono stato bravo e anche un po’ fortunato a decidere di smettere quando avevo ancora 28 anni. La scelta sarebbe stata più complicata se avessi continuato dopo Rio.
Tornando ai Giochi Olimpici a cui hai partecipato, quale è stata l’edizione più intensa?
Londra, era quella in cui ero più pronto ed era anche un'edizione particolarmente fatta bene. Ogni volta che lasciavo il villaggio c’era una grande festa. Gli impianti non erano impressionanti come quelli di Pechino, ma non bisogna per forza costruire le strutture più grandi, più belle al mondo. Le Olimpiadi mettono insieme tanti ingredienti e Londra alla fine è venuta fuori molto bene. In più è concisa con la la vittoria, ero pronto mentalmente.
Cosa ne pensi dell’attuale movimento azzurro? Soprattutto in vista di Parigi.
Da quando ho lasciato il CIO, a fine del 2021, sono rimasto in ottimi rapporti con la mia federazione. Nel 2022 ho fatto un periodo tra Los Angeles e il CIO, in qualità di advisor, per ristrutturare la parte sportiva, dall’organigramma fino all’assegnazione dei premi. Dall'estate del 2022 sono a Los Angeles, seguo da lontano e cerco di contribuire con input sulla parte olimpica e paralimpica, dato che la federazione copre entrambi. Per quanto riguarda Parigi, siamo in linea con la partecipazione delle edizioni precedenti [sette pass, nda]. Questo è stato un periodo di ricambio, a parte Paolo Monna e Riccardo Mazzetti, gli altri sono alla prima Olimpiade. Non vorrei fare troppi conti sulla base di una sola gara, li evitavo anche da atleta. Per me è importante vedere il tipo di lavoro che è stato impostato: ci sono state alcune novità, e non perché ci sia stato io, è cambiato il modo di approcciarsi a quello che è il risultato. Si è cercato di curare l’aspetto della vita oltre la gara: altri ragazzi sono andati a studiare negli Stati Uniti, quel filone è la parte più importante. Se gli atleti stanno bene e sanno chi sono prima di tirare il grilletto, la possibilità di fare bene anche alle Olimpiadi è più alta.
Tu come hai vissuto il passaggio da atleta a persona che doveva “reinventarsi”? Hai avuto un po’ di smarrimento?
È un discorso su più livelli. Prima di tutto c’è il pensiero “adesso cosa faccio?”, poi subentra la questione dell’identità. Nel mio caso la gente mi conosceva come il tiratore che andava alle Olimpiadi: più sei di successo, più questa “etichetta” rimane. Ero a metà tra "cosa faccio" e il "chi sono". La risposta non poteva essere: "sono l'ex tiratore", perché a 28 anni non si può vivere di ricordi. Si è così focalizzati a fare bene in gara che onestamente non si investono tante energie su quello che si vorrebbe fare dopo, anche se servirebbe. In più, ripeto, passi da essere uno dei più bravi a fare una cosa, a ritornare alla base, da stagista, in organizzazioni grandi e complesse. Quando ho iniziato al CIO l’ho fatto dal livello più basso con cui si poteva entrare, non c'era il bonus "hai vinto le Olimpiadi". Se si tratta di organizzare, aver fatto la rassegna e averla vinta, non comporta essere più bravo di un altro a capire certi meccanismi. In realtà, il bello è proprio quello: ricominciare, rimettersi in gioco e imparare. Inoltre, lo psicologo dello sport è stato utile in carriera e nel mio post. Tante persone che erano fondamentali per me durante gli anni da sportivo sono rimaste anche dopo. Sì, sono stato fortunato, anche se il sistema non è particolarmente strutturato per indirizzare lo sportivo nel post attività, non parlo di assistenza di anni, ma solo di un aiuto nei mesi successivi all’addio alle gare. Sono sempre stato convinto delle mie scelte, non senza dubbi. Quando sono arrivate le difficoltà sarebbe stato più facile tornare a tirare. Il mondo che conoscevo mi aspettava a braccia aperte. Ho dato le dimissioni e il congedo dalle Fiamme Gialle subito dopo Rio, per me quel percorso era finito.
Come è nata l’opportunità lavorativa con il Comitato Olimpico Internazionale?
A gennaio 2017 mi sono messo a fare colloqui di lavoro, per lo più solo di ingegneria, molti erano negli Stati Uniti. Avevo già compilato una application per il CIO, ma non era andata bene. C’era, però, uno stage di otto mesi, una sostituzione di maternità e così ho cominciato. Ho iniziato con il dipartimento atleti, occupandomi della doppia carriera e della transizione post carriera. Nel giro di alcuni mesi, sono stato coinvolto in una serie di progetti, tra cui quello della delegazione russa che gareggiò a Pyeongchang. Ho passato cinque anni al CIO e l’ho lasciato dopo aver chiuso un ciclo con le Olimpiadi invernali e quella estiva molto particolare [Tokyo, nda]: era il momento di provare a mettermi di nuovo in gioco. Ogni volta mi prendo rischi che però mi ripagano. Dopo il CIO e una serie di colloqui, ho scelto il comitato organizzatore di Los Angeles per il ruolo che è, per il tipo di persone con cui lavoro, sto imparando tanto.
Prima di arrivare a Los Angeles, volevo chiederti del tuo impegno con il team dei rifugiati, per cui sei stato premiato dall’associazione di Bebe Vio a Milano.
Sono stato coinvolto in una serie di progetti dell'UNHCR [l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nda]. Dopo Rio ho avuto la possibilità di andare di persona in alcuni centri rifugiati in Africa, un'esperienza molto forte. Le mie ultime Olimpiadi [Rio de Janeiro 2016, nda] sono state le prime in cui era presente la squadra dei rifugiati, organizzata dal CIO e sapevo che ce ne sarebbe stata un'altra. Tra le tante analisi che avevo fatto sul perché fosse valsa la pena di fare 16 anni di tiro a segno, c'era anche quella di poter contribuire su tematiche lontane dallo sport. Ad esempio, ho chiesto a tutti gli sponsor che mi avevano sostenuto se avrebbero partecipato nel caso in cui avessi messo in piedi un progetto di tipo umanitario, e si sono detti tutti disponibili. Credo che iniziative così le possano fare tanti altri campioni olimpici, anche senza aver vinto un oro.
Per me è stato forse uno dei modi più belli per chiudere la carriera, anche se non tiravo più e non gareggiavo più, frequentavo l'ambiente, accompagnando i ragazzi agli allenamenti. È stato un allontanamento più soft, rispetto al passare tutti i giorni al poligono a non andarci più. Ci andavo per fare qualcosa di buono, per aiutare qualcun altro. Una delle esperienze più belle che abbia mai fatto da atleta, ed è successa a carriera finita. Speravo che altri colleghi potessero essere ispirati da un progetto del genere. Qualcuno lo è stato all'estero, non è successo in Italia. Per fortuna a Parigi abbiamo i primi due atleti rifugiati che hanno residenza da noi e non poteva essere altrimenti guardando la nostra comunità. Sono contento che su questo il CONI sia stato coinvolto. A maggio sono andato da Los Angeles a Monaco per la Coppa del Mondo, per dare supporto Luna Solomon e Mahdi Yovari [due dei tre atleti che ha seguito in preparazione a Tokyo, nda]. Luna è stata selezionata anche per Parigi, sarà la sua seconda Olimpiade. Sarò con lei in Francia i primi giorni e con la delegazione dei rifugiati, come allenatore, prima di passare al mio ruolo di Los Angeles.
In un’intervista a Vanity Fair hai detto che questa esperienza ti ha rimesso in pace con lo sport: in che senso?
Quando inizi a vedere cos'altro c'è fuori dallo sport, almeno per me è stato così, realizzi tutto quello che hai perso. Ad esempio ho pensato a tutti libri che non ho letto… a me piace tantissimo leggere, ma non avevo il tempo materiale per farlo perché avevo gli allenamenti. Ho pensato a tutti i posti che non ho visto, le persone che non ho incontrato, chissà che cos'altro avrei potuto imparare… da suonare strumenti, a nozioni, a quant'altro.
Devi avere una certa mentalità e sicurezza per dire al 100% che ne è valsa la pena di investire queste migliaia di ore in una sola cosa. Ero un po' inquieto perché volevo, nella mia mente, chiudere quel capitolo nel mondo giusto. Non si tratta di contare le medaglie, ma dell’impatto che hai sugli altri e che gli altri hanno hanno su di te. In quel momento ho iniziato a vedere lo sport come un tassello importante nella mia vita, anche per quello che ho fatto nella società. Questo progetto è stato possibile in virtù di quanto raggiunto a livello sportivo: è stato un modo elegante, nella mia testa, per vedere il valore dell'essere campione olimpico.
L’avventura è nata perché hai devoluto la differenza del premio che c’era tra medaglia d’oro e argento a UNHCR, dopo aver preso l’oro per l’errore dell’avversario. Ti sei mai chiesto cosa sarebbe successo se avessi vinto l’argento?
Ci sono tanti se… se avessi fatto bene l'ultimo colpo di Pechino [ride]. Io credo che alla fine ci siano dei bivi e alcuni non siano pienamente in nostro controllo, come un colpo finale all'Olimpiade. In quel momento avevo una medaglia d'oro che non sentivo mia, però sono quasi sicuro che, in tutti gli universi paralleli che ci sono, sicuramente, avrei trovato una scusa per fare questa esperienza. Era solo un pretesto per realizzare qualcosa che aveva un significato per me. In gara sono stato fortunato: ho fatto solo un nove e il mio avversario, tra l'altro un amico, ha sbagliato con l'otto. Proprio per questo ho sempre tenuto Sergey [Kamenskiy, nda] al corrente di tutto. Per la serie: non posso darti la medaglia, ma guarda quante cose belle sono successe da quell'episodio.
Da quella finale non hai più tirato?
No, zero, neanche un colpo. Ho finito con un nove a Rio. Ogni tanto ho ripreso in mano la carabina, dovevo farlo quando allenavo, però non ho più tirato. È stato bello ma ci sono nuove cose da fare.
Tra Londra e Rio hai fatto anche l’esperienza in Ferrari e prima di Los Angeles so che ti è arrivata un’altra offerta in Formula 1.
L’avventura in Ferrari è nata grazie a una serie di progetti legati al CONI perché c'era una partnership con "la Rossa". Era ingegneria nuda e cruda, meccanica. La proposta in Formula 1, arrivata dopo il lavoro al CIO, era più un'esperienza di tipo manageriale, un'opportunità molto interessante per cambiare ambiente. Ho fatto alcune considerazioni, tipo capire se sarei riuscito a modificare alcune cose nel movimento Olimpico. Il comitato organizzatore di Los Angeles è posizionato in un un modo unico, ha un po’ più di leva nelle negoziazioni e sembrava il gruppo di persone giuste, l'organizzazione idonea per provare a fare qualcosa di importante. Di dieci battaglie ne vinciamo una, però è un buon punto. Per altri comitati organizzatori è più complesso sfidare il CIO su quelli che sono dei cardini che sono sempre esistiti. L’edizione dell'84 fu abbastanza rivoluzionaria e questa, dalla scelta dei nuovi sport a una serie di iniziative che via via annunceremo [hanno già reso noto l’inversione di atletica e nuoto nel programma, nda] può esserlo allo stesso tempo. In generale, la Formula 1 rimane un mondo che mi affascina molto.
Avete reintrodotto alcuni sport, come funziona?
È un processo molto delicato soprattutto per gli sport che vengono esclusi o non sono riconfermati. Abbiamo cercato di stabilire dei criteri più oggettivi possibili. C’è sempre l’idea di interpretare l’anima, il DNA del comitato organizzatore, del Paese che ospita la rassegna. Avremo il football americano, così come il baseball o lacrosse. Abbiamo dovuto cercare un equilibrio tra sport estremamente popolari negli Stati Uniti e adattarli a una piattaforma globale, ma anche prendere discipline come il cricket e introdurle in un mercato americano. Ci sono tanti pro e contro, tantissima analisi economica, come l'impatto a livello di costi di organizzazione e tutto quello che possono essere i ricavi generati intorno ai vari sport. Parlo in termini di ticketing e hospitality, ma anche di diritti televisivi e marketing. Avremo dalla nostra parte una piattaforma potentissima come l’NFL [National Football League, nda]. Non è semplice, abbiamo cercato un compromesso tra l'innovazione e la sostenibilità economica dell'evento. Avevamo una doppia responsabilità: il nostro comitato organizzatore non ha un'entità governativa accanto, ma è una fondazione privata. Quello che facciamo di “revenues” è quello che spendiamo.
Nello specifico qual è il tuo ruolo?
Sono a capo del dipartimento sport: ad esempio seguo le relazioni con le federazioni internazionali. Al momento dei Giochi quello che succede sul campo di gara fa parte delle responsabilità del mio team. Stiamo lavorando nel dettaglio sulla “competition schedule” per fare in mondo che i vari interessi, come quelli televisivi, vadano di vari passi con l’intrattenimento e il resto. Questa fase è bella, sport è relazione: ti ritrovi a parlare con tante culture diverse.
La situazione geopolitica è complessa, ne avete parlato in vista del 2028?
Per queste cose c'è il CIO, ha un ruolo predominante nel gestire queste situazioni e non potrebbe essere altrimenti. Siamo tutti concentrati su come verranno implementate le soluzioni per Parigi, essere lì sarà una opportunità per imparare e capire quali possano essere le criticità. Il mondo continua a cambiare con una certa rapidità. L’importante è avere una serie di valori, di principi e di modo di operare così che quando arriva l'inatteso, che arriva sempre, avremo un modo per per gestirlo e sicuramente ci sarà una partnership col CIO molto forte.