Cosa manca agli esports per sfondare in Italia? Come per ogni domanda, anche per questa ci sono molte risposte: le carenze infrastrutturali della diffusione di internet, un’alfabetizzazione digitale ancora stentata, la mancata equiparazione legale con gli sport tradizionali, lo stigma nei confronti di chi cerca di intraprendere una carriera in questo campo. Ognuno di questi temi contiene di certo una parte di verità, ma nessuno mi sembra venga escluso dal dibattito come invece la mancanza di storie. Storie di atleti o di incontri, cioè, che riescano a raccontare gli esports anche fuori dalle nicchie di appassionati che quei videogiochi li conoscono e li seguono. Quello degli esports, insomma, è anche (o forse soprattutto) un problema di linguaggio: mancano le storie perché non ci sono le parole che possano raccontarle, facendo da ponte tra quello che succede sullo schermo e una narrazione sportiva comprensibile per tutti - un’esigenza ancora più pressante per discipline per cui quello che succede sullo schermo non è autoevidente, come succede per quasi tutti gli sport tradizionali.
Lo scorso 28 febbraio, però, forse per la prima volta una storia è riuscita a fare breccia in questo muro sfondando nel mainstream. Quel giorno, infatti, Riccardo Romiti, cioè “Reynor”, ha battuto Joo Sung-wook, cioè “Zest”, nella finale degli Intel Extreme Masters, ovvero i Mondiali di Starcraft II (più o meno, ci arriviamo). È stato un evento epocale da diversi punti di vista. Innanzitutto perché Starcraft è un videogioco con uno dei circuiti competitivi più longevi, che lo rendono insieme alla sua complessità strategica uno degli esports più conosciuti e rispettati. In secondo luogo perché Reynor è stato il primo pro-player non coreano a vincere l’Intel Extreme Masters (IEM), la più importante competizione al mondo di Starcraft II che si tiene a Katowice, in Polonia, ormai da 10 anni, anche se fino al 2020 non veniva ancora considerato da Blizzard (la casa produttrice del videogioco) come il circuito competitivo ufficiale all’interno del quale si giocavano i Mondiali (che invece dal 2012 al 2019 si sono disputati nella cornice delle World Championship Series, che comunque nella loro storia hanno visto la vittoria di un solo non coreano, cioè Joona “Serral” Sotala, pro-player finlandese, nel 2018).
Per pesare la notizia della vittoria di Reynor bisogna quindi soffermarsi un attimo sull’importanza di StarCraft II per la Corea del Sud, spiegata ad esempio da Ben Lindbergh in
per The Ringer che vi invito a leggere se volete approfondire. StarCraft non è infatti solo un videogioco di successo in Corea del Sud, ma è stato il vero e proprio volano che ha trasformato la Corea del Sud in quella che oggi è la patria degli esports. Uscito il primo aprile del 1998, StarCraft arrivò pochi mesi dopo
che portò il tasso di disoccupazione e il debito pubblico quasi a triplicare, costringendo il governo di Seoul non solo a chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale ma anche a rifondare la struttura industriale del paese, puntando sull’high-tech in un momento in cui non era proprio di moda farlo. La Corea del Sud iniziò in quegli anni a dotarsi di una connessione a internet veloce capillare che, insieme al grande numero di nuovi disoccupati, favorì la nascita degli
- posti dove si poteva passare il molto tempo libero a disposizione a navigare su internet o a giocare senza spendere troppo. StarCraft, a cui già si poteva giocare online in multiplayer attraverso il portale
, trovò quindi il contesto ideale per proliferare, diventando in pochi anni un fenomeno culturale di massa senza precedenti in Corea del Sud. Basti pensare che nel 1999, a un anno di distanza dalla sua pubblicazione, l’allora vicepresidente di Blizzard, Paul Sams, venne accolto dall’allora vicepresidente sudcoreano in una specie di visita di stato sull’isola di Jeju.
Se gli esports italiani hanno un problema con le storie e il loro linguaggio, quella di Reynor è riuscita a tracimare fuori dalla nicchia degli appassionati italiani proprio perché si può raccontare facilmente attraverso uno dei topos più classici della narrazione sportiva, e cioè quello dell’underdog - con la Corea del Sud, che su StarCraft esercita lo stesso dominio che gli Stati Uniti hanno sul basket, a recitare il ruolo del gigante ucciso. Dopo aver battuto Zest, Reynor è stato invitato a parlare non solo da molti
ma anche dalla ministra per le politiche giovanili Fabiana Dadone, che con lui ha fatto
sul suo canale Twitch. D’altra parte è per questa stessa ragione che ho deciso di contattarlo per un’intervista anche io, che scrivo di esports solo sporadicamente e che adesso mi ritrovo di fronte ai limiti del linguaggio che posso utilizzare per raccontare la sua storia. Non ne potrei utilizzarne uno troppo tecnico, perché non conosco StarCraft a sufficienza e non sarebbe comprensibile per la parte di pubblico che vorrebbe capire la grandezza della sua impresa, ma nemmeno uno troppo metaforico, che si distaccherebbe troppo dalla realtà di quello che ha fatto. Dov’è quindi il punto di equilibrio?
La finale intera tra Zest e Reynor, se volete vedervela o rivedervela.
Nell’intervista con la ministra Dadone, Reynor ha più volte paragonato StarCraft II agli scacchi, per impegno mentale e importanza della tattica e della strategia. È un parallelismo efficace perché gli scacchi richiamano immediatamente un immaginario conosciuto e soprattutto
anche tra chi non sa un’acca delle regole, come
ha recentemente dimostrato. Il problema, però, è che al momento lo stesso non si può di certo di StarCraft, e tanto meno degli esports in generale. Chi è che oggi è disposto a considerare i pro-player di StarCraft alla stregua dei bambini prodigio degli scacchi? Di concedergli quell’aura magica da piccole divinità? «All’estero si sente dire spesso che i giocatori di StarCraft sono simili a quelli di scacchi», mi dice Reynor, che mi parla attraverso Skype da casa dei suoi, con cui ancora convive. «Siamo noi italiani che siamo rimasti sul concetto del nerd, del computer che fa male, del “diventi cieco” e tutte queste cose qui. Siamo rimasti indietro rispetto al resto del mondo. Probabilmente molti non sanno nemmeno di cosa si sta parlando. Un sacco di persone me l’hanno paragonato a Call of Duty. Oppure mi fanno: “Ma te ci giochi sul cellulare?”».
Eppure StarCraft è uno degli RTS (
, o strategico in tempo reale) più complessi in circolazione, con un livello di competitività del circuito professionale che pochissimi altri esports hanno. Qualcosa, almeno al livello a cui ci gioca Reynor, molto lontano dalla descrizione più semplice che se ne possa dare: e cioè un videogioco fantascientifico in cui due giocatori partono dalle rispettive basi per raccogliere risorse, costruire un esercito e infine provare a distruggere la base avversaria. «Non esistono giochi simili a StarCraft», mi dice Reynor. «Ovviamente ci sono altri RTS, ma non sono nemmeno vicini a com’è fatto StarCraft. È un gioco unico nel suo genere e, attraverso gli aggiornamenti, cambia ogni due mesi, è in continua evoluzione. Io ho provato altri RTS, tipo Age of Empires, che è forse è l’unico che si avvicina. Ma comunque è tutta un’altra cosa». StarCraft è più complesso? «Per i movimenti delle unità e a livello strategico è proprio diverso».
Reynor, con gli occhiali grandi da cartone animato e il viso da bambino, sembra più piccolo dei 18 anni che ha, ma parla con una maturità sorprendente e una velocità che non può fare a meno di ricordarmi i suoi movimenti con le dita sulla tastiera e sul mouse. Da tre anni frequenta un liceo online per conciliare meglio lo studio con i suoi impegni professionali, che lo hanno portato ad essere oggi membro dei QLASH e atleta Red Bull. La sua decisione e la sua esperienza con la scuola “in presenza”, come abbiamo imparato dolorosamente a dire negli ultimi tempi, è una piccola cartina tornasole dell’arretratezza italiana in questo ambito. Dato che l’Italia non ha ancora equiparato legalmente gli esports agli sport tradizionali, Reynor ha deciso di passare a un liceo online anche per non perdere l’anno scolastico, dato che le sue assenze a scuola per via delle competizioni non sarebbero potute essere giustificate. Ma è davvero un problema, un ostacolo insormontabile il fatto che gli esports non vengano equiparati agli sport tradizionali? «Un problema enorme non è, ma sarebbe comunque giusto», mi risponde Reynor. «Molte persone considerano uno sport anche le bocce e quindi non vedo perché non dovrebbero fare lo stesso con gli esports. Oppure anche gli scacchi: che differenza c’è tra noi e gli scacchi?».
Se dell’equiparazione legale, però, si è parlato molto negli ultimi anni nel mondo degli esports, di meno si è discusso di quanto sia ostile anche il contesto culturale. Reynor mi racconta che allora era anche diventato oggetto di scherno da parte di un professore, che non vedeva di buon occhio la sua carriera da pro-player invitando i genitori dei suoi compagni a non seguire la sua strada. «Mi considerava un cattivo esempio, pensava che i miei compagni mi sarebbero venuti dietro. Forse gli dava fastidio che gli davo la speranza di fare quello che gli piaceva e guadagnarci». Quando gli chiedo se è stato bullizzato a scuola, lui ci tiene a sottolineare che, quando è successo, sono stati i professori a farlo e mai i compagni.
Reynor gioca a StarCraft da quando ha 8 anni, da quando cioè il padre lo portò in un negozio di videogiochi per scegliere un regalo, e lui, invaghito dalla copertina, scelse quello che avrebbe segnato il resto della sua vita. «Penso sia stato il destino che mi ha portato a giocare a StarCraft da piccolo», dice Reynor, che ancora prima si metteva accanto al padre quando giocava a Diablo, assorbendo la fascinazione verso le ambientazioni fantasy. Tendiamo sempre a sottovalutare i videogiochi quando cerchiamo di capire l’origine dei nostri gusti culturali. È stato l’amore per la fantascienza a fargli indicare quella copertina piena di armate ed esplosioni, o è stato StarCraft a fargli amare la fantascienza? «Ho scoperto i videogiochi prima di capire cosa fosse la fantascienza», mi risponde. Da quel momento, in ogni caso, la sua carriera è andata in fretta: a 11 anni la prima breve esperienza in un team, i mYinsanity, con una settimana passata in una gaming house in Svizzera, poi i TES per un paio d’anni, gli Exeed, i GamersOrigin e infine i QLASH. Il padre ovviamente non è riuscito a stargli dietro, ma ancora oggi parla con lui delle sue partite. «Guarda tutte le partite, anche quando non gioco io, sta dietro i tornei, se ne intende. Ogni tanto mi fa anche arrabbiare perché dopo che perdo una partita viene lì a darmi dei consigli e non è il massimo perché comunque sono un “testone”».
Sembra non esserci nessun giro a vuoto nella sua carriera, una linea inclinata a 45 gradi verso la cima. A 14 anni entra tra i migliori otto del DreamHack di Valencia del 2016, perdendo solo ai quarti di finale contro il norvegese “Snute”, e fa notizia, perché sotto i 16 anni teoricamente non si potrebbe far parte del circuito competitivo e gli vengono quindi sottratti i punti che gli farebbero classifica per le World Championship Series. Da quando, nel 2018, è entrato definitivamente nel circuito competitivo raramente è sceso sotto il secondo posto nei tornei principali. Non c’è nulla di casuale nel successo dello scorso febbraio, quindi: Reynor era arrivato in finale ai WCS del 2019 (perdendo contro il sudcoreano “Dark”), mentre all’IEM di Katowice del 2020 si era fermato ai gironi. Ma se negli sport tradizionali siamo abituati a parlare di talento, negli esports non è così facile capire in cosa consista. Cosa ha Reynor che gli altri non hanno? «A me StarCraft è sempre venuto naturale», mi risponde il giovane pro-player toscano. «Imparare cose nuove è sempre stato
, se gli altri ci mettevano tre mesi io ce ne mettevo uno. È come con gli altri sport, solo che a differenza della forza fisica c’è una forza mentale. Probabile che io abbia il talento anche per altri giochi, solo che ancora non l’ho scoperto». Mentre mi parla Reynor si passa spesso le mani tra i capelli, come se le risposte gli fossero rimaste impigliate lì: «Uno dei miei punti forti è la mentalità da vincente. Non mi butto mai giù, anche se sto sotto 0-2 o 1-2: penso sempre di potercela fare e questo è un bel vantaggio».
Che poi non è molto lontano da com’è andata veramente l’ultima finale dell’IEM di Katowice. Reynor ha incontrato Zest, cioè l’unico che era riuscito a batterlo nella fase a gironi (e lo ha fatto anche molto nettamente, per 2-0 in una sfida alla meglio di tre), e ha perso in pochi minuti la prima delle sei partite che hanno deciso la finale (che invece è alla meglio di sette). «Anche sullo 0-1 ero abbastanza fiducioso che ce l’avrei fatta perché pensavo di aver avuto l’approccio giusto contro Zest», mi dice Reynor. «Nella prima partita della finale volevo provare una strategia che non era tanto solida, diciamo: se non avesse usato una tattica aggressiva sarei stato avanti e se invece l’avesse fatto sarei morto. Poi nella partita successiva ho usato un altro approccio. Ho pensato: “Se vuole essere aggressivo ben venga, io sarò difensivo per tutto il resto del tempo”». Reynor ha vinto le successive tre partite, inclinando definitivamente dalla sua parte la finale, che poi è finita sul 4-2. È stata insomma innanzitutto la vittoria della della strategia e della flessibilità, qualcosa che secondo Reynor è intrinseco al suo stile di gioco. «È tutto un processo volto a capire le debolezze dell’avversario e di come sfruttarle al meglio», mi dice del suo percorso di avvicinamento alla partita.
Un’altra qualità che Reynor si attribuisce è la freddezza, il che in un certo senso è ironico se si pensa che la maggior parte delle volte i suoi avversari sono pro-player coreani, che per lo stereotipo sono robot senza emozioni. Mi dice, ad esempio, che Zest non ha fatto errori dovuti alla pressione ma è semplicemente caduto nella ragnatela della sua strategia. In ogni caso, parlandoci non sembra affatto freddo e fa strano pensare che un persona così diretta e incline alla risata possa aver raggiunto quel livello di isolamento mentale che è necessario per battere i migliori pro-player del mondo. Tanto più quando mi dice che gli manca competere davanti a un pubblico, che per le fasi finali dei maggiori tornei vuol dire comunque decine di migliaia di persone. «Col pubblico senti il tifo se vinci, il tifo per l’avversario se perdi. Poi quando inizia la partita e i presentatori annunciano il tuo nome senti tutto vibrare, senti gli applausi. È tutta un’altra cosa». La finale dell’IEM di Katowice, come tutto il resto della competizione d’altra parte, se l’è dovuta fare invece da casa sua, mentre i genitori tifavano dal piano di sotto.
Ciò che è cambiato e che gli ha permesso di vincere, quindi, non è stata tanto l’assenza di pressione per via della mancanza del pubblico quanto la preparazione al torneo, per cui si è fatto aiutare partita dopo partita anche dal pro-player tedesco “Lambo”, proprio come succede nel mondo degli scacchi. Quello della preparazione e dell’allenamento, mi dice, è uno dei suoi limiti più grandi. «L’anno scorso per esempio sono andato in Corea prima del Mondiale e sono stato lì per un mese circa, e tutti i giorni tutto il giorno pensavo a StarCraft, giocavo a StarCraft, era un po’ monotono. Si pensava solo a quello, no? Ma dopo non ce la fai più, torni a casa e non hai più voglia di giocare. Questo è un mio problema: se fossi più organizzato con la testa non avrei perso un paio di tornei a caso che ancora un po’ mi rodono».
D’altra parte chi è che ha una testa simile a 18 anni? Per quanto gli esports abbiano fatto molta strada negli ultimi anni, è indubbio che sia un mondo meno professionalizzato di quello dei principali sport tradizionali e distrarsi, immagino, è più semplice. Per quanto sia crudele per un pro-player così giovane, però, non posso fare a meno di chiedergli se ha già pensato a cosa vorrebbe fare dopo. Alla fine le carriere sono ancora più fragili e brevi nel mondo degli esports. «Vorrei rimanere nel mondo degli esports in un modo o nell’altro, facendo il commentatore, lo streamer, il presentatore… ci sono talmente tante strade. È un mondo in continua evoluzione: tra 10 anni sicuramente sarà diverso e ci saranno ancora più strade disponibili da intraprendere». Anche in Italia? «Speriamo, perché comunque non si può negare questo è il futuro. Non StarCraft ma il mondo degli esports in generale».
Tra dieci anni magari le cose saranno diverse, ma al momento in Italia la strada da fare è ancora molta. A 10 anni dal momento in cui Reynor entrò in quel negozio di videogiochi a indicare la copertina di StarCraft II, le cose non sono cambiate molto. Di sicuro storie come la sua possono aiutare a creare un contesto che renda più semplice emergere anche ai pro-player con un talento meno evidente del suo.