Gli allenatori italiani in Chinese Super League non sono più una novità: dopo Cannavaro, Lippi e Capello - tra gli altri - l’ultimo arrivato è Roberto Donadoni. Il tecnico bergamasco, dopo la lunga esperienza a Bologna e un periodo di pausa durato quasi un anno, è tornato a sedersi su una panchina la scorsa estate, ripartendo dalla Cina, alla guida dello Shenzhen Kaisa FC, club neopromosso in piena lotta salvezza.
Quando pensiamo ai professionisti europei in Cina probabilmente ci vengono in mente contratti milionari e situazioni rilassate. Invece Donadoni a Shenzhen ha subito dovuto fare i conti con una situazione critica: il club, precedentemente allenato dallo spagnolo Juan Ramon Lopez Caro, non vinceva da oramai 12 partite, ritrovandosi invischiato in una lotta salvezza punto a punto con Beijing Renhe e Tianjin Tianhai. Il tecnico italiano ha fatto il suo esordio il 2 agosto, in un match casalingo pareggiato per 1-1 proprio contro il Beijing Renhe.
Con il suo arrivo le cose sono leggermente migliorate: lo Shenzhen Kaisa è finalmente tornato a conquistare i tre punti nel successivo turno di campionato, in una netta vittoria per 4-0 sul Guangzhou R&F di Dragan Stoijkovic, grazie anche alla doppietta del brasiliano Dyego Sousa, neo acquisto dal Braga. Dopo una lunga sosta per le nazionali, lo Shenzhen, però, non è riuscito a dare continuità a questo momento positivo. Dopo il prezioso pareggio contro il Beijing Guoan in lotta per il titolo, la squadra di Donadoni è infatti è andata incontro a due sconfitte nelle due trasferte disputate: 2-0 a Dalian, contro la squadra di Benitez, e 2-1 in rimonta a Shanghai, contro lo Shenhua di El Shaarawy.
In entrambi i match la squadra di Donadoni ha per certi versi giocato meglio delle avversarie, creando maggiori opportunità, ma non è riuscita a concretizzare le occasioni da gol create. Adesso lo Shenzhen si ritrova ora al quattordicesimo posto a cinque giornate dalla fine, con un solo punto di vantaggio sulla zona retrocessione, con il penultimo posto occupato dal Tianjin Tianhai (il Beijing Renhe, ultimissimo, è lontano sette punti).
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Foto Shenzhen FC
È questo il contesto sportivo in cui si è svolta la nostra intervista, in cui però Donadoni ha mantenuto il suo solito contegno, raccontando le impressioni dei suoi primi due mesi di lavoro in Cina, il rapporto con una cultura completamente diversa dalla nostra e le difficoltà nell’approcciarsi in una realtà lavorativa e in una quotidianità lontane rispetto a quelle a cui era abituato.
È un momento difficile per il club. Lo Shenzhen è tornato a vincere con lei alla guida dopo oltre tre mesi, ma nelle ultime due partite, dove siete stati sconfitti, meritavate certamente qualcosa in più per quello che si è visto in campo. Cosa manca alla squadra per raggiungere i risultati?
Ho ereditato una squadra in una situazione difficile, stiamo lavorando e direi che il lavoro sta dando dei buoni frutti. Anche in queste ultime due gare, pur avendo perso, direi che non abbiamo dimostrato di essere inferiori agli avversari e questo è significativo, anche se ci manca un po’ di concretezza. Detto questo, è chiaro che bisogna fare anche dei punti perché altrimenti la classifica diventa pericolosa. Abbiamo l’ultima fase del campionato da affrontare, ora c’è la sosta per le nazionali e abbiamo modo di poter lavorare e cercare di rimetterci in sesto dato che la prossima partita contro il Guangzhou Evergrande sarà molto delicata, come del resto tutte quelle che verranno. Dovremmo cercare di rimboccarci le maniche e tirare fuori tutto quello che abbiamo per salvarci e mantenere la categoria.
Quali sono le sue prime sensazioni? Quali sono stati i primi passi che ha deciso di intraprendere per approcciare un contesto così diverso?
Come sempre, quando ci si cala in una realtà così diversa, bisogna entrare in punta di piedi e avere la sensibilità di capire in maniera veloce quelle che sono le abitudini e le modalità di lavoro, che sono chiaramente diverse rispetto alla nostra cultura. La cosa più intelligente a mio parere è quella di adattarsi, chiaro che se uno viene qui e pensa di mantenere invariato il suo metodo si scontra con una realtà che non è vicina alla nostra. Bisogna usare molto buon senso. Il lavoro sul campo invece non si differenzia più di tanto anche se le modalità e le conoscenze sono differenti. Bisogna avere questa sensibilità per cercare di immergersi in un mondo nuovo e in una realtà differente, ma credo che la cosa non sia poi così complicata. Oltretutto siamo in una città, Shenzhen, che dal punto di vista della vivibilità è ottima. È una grandissima città, moderna, direi che per certi versi sono rimasto sorpreso, non me lo spettavo.
Foto Shenzhen FC
Stai riuscendo a trasmettere i tuoi principi di gioco in allenamento? Dal punto di vista tattico su cosa state cercando di lavorare?
Ho cercato di non stravolgere l’assetto più di tanto, nella misura che ritenevo accettabile, dato che mi sono avvicinato a una realtà che oggettivamente stava affrontando delle difficoltà, fare troppi cambiamenti avrebbe significato mettere in crisi alcuni elementi e creare un disturbo. Sto inserendo gradualmente i miei concetti calcistici, cercando di mettere i giocatori nella condizione migliore per poter esprimere le loro qualità e conoscenze. Procedo in questo modo. Direi che in questi due mesi abbiamo avuto modo di comprendere in maniera completa quelle che sono le capacità e le qualità dei calciatori che ho a disposizione, e dunque vedremo di tirare fuori il meglio da loro.
La Chinese Super League sta attraversando una fase particolare, con soste per le nazionali lunghissime, di ben quattro settimane ciascuna. Come ci si relaziona con il lavoro? Per lei rappresentano un vantaggio?
Nella prima pausa, subito dopo essere arrivato, è stato un vantaggio perché mi ha dato modo di conoscere meglio il nuovo contesto. Ora, andando avanti, ritengo che questo non sia di grande aiuto. Però insomma, è un dato di fatto che non si può modificare, e bisogna adattarsi a questa realtà, poi non è la prima volta che mi succede di avere in così poco tempo così tante interruzioni.
Che ostacoli ci sono nella vita di tutti i giorni?
Indubbiamente la lingua è la difficoltà maggiore. È questo lo scoglio più difficile, anche se poi per quanto riguarda i concetti non c'è molta differenza, per cui al di là di usare una terminologia invece di un’altra ci si adatta abbastanza bene. Ma è chiaro che nella quotidianità, anche quando sei in campo durante la partita, riuscire a trasmettere con velocità determinati concetti e soluzioni diventa più difficoltoso. Diventano fondamentali i ragazzi che hai a disposizione che fanno da interpreti, anche se il loro stesso linguaggio è abbastanza scolastico e non proprio tecnico, e questo non agevola la comunicazione. Ma per il resto non vi sono grandi problemi, ci si adatta bene. Come sempre come quando ho vissuto realtà diverse dalla nostra mi sono reso conto di aspetti molto positivi, anche per la città come detto sono rimasto colpito. Ora non posso dire di conoscere Shenzhen a pieno, così come non posso dire di conoscere la Cina, che è un paese immenso e con molte differenze al suo interno, ma quella che sto vivendo è qualcosa che mi sta sorprendendo. Insomma, per sentito dire credevo di andare incontro a molte difficoltà ma per molti versi siamo indietro noi rispetto a loro.
Se dovesse individuare una differenza nel modo di lavorare in Cina rispetto all’Italia quale sarebbe?
Il modo di lavorare non è che tanto sia legato alla Cina o all'Italia, gli allenatori che si susseguono hanno una loro modalità di proporre concetti e lavorare, bisogna capire quelle che sono state le loro abitudini e cercare di modificarle se ritieni sia necessario farlo. Per il resto sono molto distanti da noi dato che la cultura e il vissuto incide anche su quella che è la professione. Dunque portarli in una determinata direzione non è un compito facile, però credo che piano piano ci si possa arrivare.
Ad esempio che differenze ha riscontrato in Cina nel rapporto con la dirigenza del club e la stampa? In Italia sono elementi a volte molto invasivi.
Il nostro presidente è una persona che sta abbastanza ai margini. È chiaro che è informato e segue, ma ha dei dipendenti che sono preposti ad avere un rapporto con squadra e staff, e che poi trasferiscono le informazioni al presidente. Anche da questo punto di vista è un po’ una crescita che i club cinesi devono cercare di fare, può dare dei vantaggi una comunicazione più diretta; dall’altro lato, però, probabilmente ti permettono di avere meno pressione addosso e lavorare con maggiore tranquillità. Bisogna trovare il giusto equilibrio. Sicuramente in Italia dirigenti e presidenti talvolta sono un po’ eccessivi. Qui invece è l’opposto, da quello che sto capendo, e bisogna trovare la giusta misura. Per quanto riguarda la stampa abbiamo chi ci ragguaglia su questo fronte. Le conferenze sono meno intense rispetto a quello che si vive in Italia. Ho visto molte donne che fanno le giornaliste e questo mi ha piacevolmente sorpreso. Per quanto vissuto fin ora sono tutti molto tranquilli e professionali, non c’è forse quella malizia che in Italia siamo abituati a vedere.
Prima ha parlato del ruolo del traduttore: come ha dovuto cambiare il suo modo di esprimersi per comunicare al meglio?
Direi che sostanzialmente non cambia molto. Durante la settimana è importante avere un dialogo continuo con la squadra non solo verbale ma anche con video e match analysis. Queste cose aiutano loro a comprendere meglio il linguaggio che io adotto, e quindi è un crescere continuo. Anche nelle traduzioni delle varie situazioni, anche tattiche, unisco l’inglese con la traduzione simultanea, anche scritta, in cinese. Questo aiuta loro a comprendere meglio quando vedono le immagini. Così piano piano stiamo cercando di imparare anche noi la loro terminologia, è un po’ un adattarsi da entrambe le parti. Già il fatto di aver imparato tutti i nomi dei giocatori cinesi è un fatto positivo [ride]. Comunque sono un po’ quelle difficoltà che si trovano andando in realtà nuove dove ci sono giocatori che sono meno conosciuti, dove il primo mese c'è un po' di difficoltà a stabilire un dialogo efficace.
Foto Shenzhen FC
Lo Shenzhen non ha un difensore straniero, mentre avete tre attaccanti e un centrocampista che vengono da altri Paesi. Pensa che un incremento nel numero degli stranieri, come sta succedendo in Giappone e Arabia Saudita, possa essere favorevole allo sviluppo del talento locale?
Io credo che qualche limite è bene che ci sia, la cosa non mi dispiace, l’idea di un’apertura totale non mi trova molto d’accordo. È chiaro che è fondamentale prendere stranieri che non abbiano solo un nome importante che li accompagni, ma anche gli stimoli giusti, la voglia, il desiderio di farsi vedere e insegnare. Spesso e volentieri in queste realtà ci si ritrova ad avere a che fare con giocatori stranieri, che sono magari anche famosi in tutto il mondo, ma spesso danno la sensazione di tirare i remi in barca. Questo non è positivo, né per loro né per la crescita di un movimento calcistico come quello cinese.
Durante la scorsa Coppa d’Asia, Marcello Lippi si lamentava del fatto che non ci sono attaccanti cinesi in grado di reggere il confronto con gli stranieri. Per quella che è la sua esperienza fino ad ora si trova d’accordo con questa affermazione?
Chi fa gol è colui che dà le maggiori garanzie di poter vincere. E quindi la linea di strategia di un po’ di tutti i club è quella di acquistare attaccanti importanti che possano risolvere le partite facendo gol. Io credo che questo sia abbastanza comprensibile e si possa anche accettare, a patto però che si continui anche a lavorare sui giovani cercando di far crescere degli attaccanti cinesi. Però è chiaro che se la maggior parte dei ruoli occupato dagli stranieri sono quelli offensivi lo spazio diventa inferiore e si preclude la possibilità di crescita ai calciatori locali. Bisogna trovare il giusto compromesso. Come detto prima, preferisco prendere giocatori che abbiano stimoli e voglia di misurarsi in una realtà differente e che non siano solo 30enni a fine carriera, ma anche calciatori di 25-26 anni che possano fare il salto di qualità in questo campionato per poi proporsi in una lega diversa.
Lei negli anni 90’ ha giocato anche a New York e in Arabia Saudita. Ora si trova in Cina in veste di allenatore. Come queste esperienze all’estero hanno influenzato il quotidiano ed il modo di vivere la professione?
Il calcio come la vita evolve continuamente come le culture di ogni paese. È un evolversi continuo in funzione di quello che è l’andamento sociale di ogni paese. Ho vissuto esperienze da calciatore ottime, belle, all’estero, penso sia un peccato non averle fatte anche prima, così come mi sto rendendo conto, da allenatore, che lavorare in realtà diverse sia molto positivo, costruttivo, migliora anche quella che è la tua visione uscendo dal proprio orticello. Averlo fatto da calciatore mi ha preparato anche all’esperienza odierna e la cosa mi piace, io credo che quando uno ha possibilità di vivere realtà e culture diverse ne esca più ricco di conoscenze. È qualcosa che ho sempre percepito quando sono andato a giocare in un Paese straniero: è un'esperienza nuova che vivo nel quotidiano serenamente, cercando di comprendere ancora meglio quello che mi circonda. E ne esco migliorato da ogni punto di vista.