
È difficile parlare di calcio, oggi, se non si conosce il significato del termine “intensità”. Quando una partita sembra fare le scintille si dice che c’è una grande intensità e in Italia, dove ci sentiamo sempre in ritardo rispetto al resto del mondo, quasi sempre imputiamo i brutti risultati delle nostre squadre nelle coppe europee alla differenza di intensità. Parliamo accorati della mancanza di giocatori “di gamba”, del fatto che il ritmo del nostro campionato è troppo basso. Quando mi presento al primo panel dell’ECA Club Connect, quindi, mi fa un certo effetto sentire che ad essere messa in discussione è proprio l’intensità.
A parlare, sul palco, c’è Arsene Wenger, che se fossimo a San Remo verrebbe chiamato super ospite. Wenger viene interrogato sullo stato attuale del calcio e sulle sue prospettive future in quanto allenatore leggendario dell’Arsenal degli “Invincibles”, forse la squadra che più ha reso la Premier League quello che è oggi, ma anche perché, da diversi anni ormai, è Chief of Global Football Development della FIFA. In altre parole, è una delle persone che più ha un’influenza reale, tangibile sulle decisioni che cambieranno il calcio nel prossimo futuro.
Wenger dal palco dice che il numero di sprint nelle partite è aumentato del 70% dal 2000 al 2025, e in parte collega questo numero a una deriva che gli sembra preoccupante. Dice che negli ultimi anni la libertà dei giocatori si è ridotta, che sono spinti più a fare quello che gli viene detto che a esprimere se stessi, che c’è il bisogno di «ricreare l’imprevedibilità». D’altra parte, se aumenta l’intensità e quindi la velocità del gioco, significa che a diminuire sono il tempo e lo spazio per il pensiero. Se la partita si trasforma in un flipper impazzito avere delle giocate memorizzate in anticipo permette di riguadagnare quella frazione di secondo che l’evoluzione del gioco ci ha tolto.
Nel pomeriggio incontro una delle due persone senza cui forse non saremmo arrivati a fare questo tipo di riflessioni oggi. Quando si parla di evoluzione del calcio contemporaneo si fa di solito riferimento alla “scuola tedesca” nel suo complesso, e in particolare al percorso di Jurgen Klopp dal Mainz e poi dal Borussia Dortmund fino ai successi globali del Liverpool, e si tende a mettere in secondo piano il ruolo che ha avuto Roger Schmidt, considerato al più una figura esoterica, un eccesso.
La registrazione integrale dell'intervista. La versione testuale che trovate qui è stata tradotta, editata e rimaneggiata per esigenze di chiarezza.
Roger Schmidt, che oggi è da quasi un anno senza panchina dopo l’esperienza con luci e ombre al Benfica, rimane però l’allenatore che ha posto le basi tattiche del progetto Red Bull, che ha plasmato lo stile adrenalinico che oggi siamo abituati ad associare alle sue squadre. Un’idea che era partita come una trovata di marketing per vendere un energy drink ha finito per rivoluzionare il calcio europeo al punto da diventare una delle preoccupazioni di Arsene Wenger. Oggi quella che nemmeno 15 anni fa appariva come "un'avanguardia troppo estrema per avere successo" è diventata la nostra realtà e anche Jurgen Klopp lavora per la Red Bull, a conferma che le due storie provenissero dallo stesso ramo.
La parabola di Roger Schmidt è stata raccontata da Emanuele Atturo in questo pezzo, che vi consiglio di leggere se volete approfondire la sua figura. Nel 2007, mentre Klopp sta costruendo la sua reputazione al Mainz, Schmidt è ancora un ingegnere poco sicuro di avere un futuro nel mondo del calcio. Viene convinto ad allenare dal club dilettantistico del Prussia Munster con la promessa che se lo avessero licenziato gli avrebbero trovato un lavoro da ingegnere in città. Dopo tre anni, però, decide di non guardarsi più indietro. Riesce a ottenere la panchina del Paderborn, in Serie B tedesca, e qui inizia a farsi conoscere, in primo luogo da quel Ralf Rangnick che, dopo essere diventato la new sensation del calcio tedesco con le esperienze all’Hoffenheim e allo Schalke 04, ha assunto la guida dell'universo calcistico della Red Bull, ancora nelle prime fasi della sua espansione.
A Salisburgo Rangnick sceglie Roger Schmidt. È un momento per certi versi magico e inspiegabile di questa storia: un allenatore con un curriculum tutto sommato modesto, che si era convinto di fare questo lavoro solo pochi anni prima, che improvvisamente si ritrova a guidare una delle squadre che più cambierà il calcio negli anni successivi. Come ha fatto Schmidt a convincere Rangnick di essere l’uomo giusto per la sua visione?
«In realtà è stato lui a chiedermi di diventare allenatore lì», mi risponde Schmidt. «Ci conoscevamo da prima, quando allenavo a Paderborn nella Serie B tedesca. Ovviamente io lo conoscevo anche prima, di fama, ed è per questo che ho deciso di accettare la sua offerta. Penso sia stata un’ottima decisione. Al Red Bull Salisburgo siamo partiti da zero e abbiamo cambiato tutto. Loro volevano creare uno stile di gioco completamente nuovo che si sarebbe dovuto adattare al loro brand, e che per questo doveva essere aggressivo, intenso. Penso fosse un progetto con una grande capacità di sviluppo e il risultato a cui siamo arrivati dopo due anni è stato incredibile. Come giocavamo calcio a quel tempo, con quei giocatori… Ancora oggi, quattordici anni dopo, penso che sia il calcio più intenso e aggressivo che abbia mai visto».
«Ringrazio Rangnick per avermi portato a Salisburgo, per aver creduto in me. Io ho imparato molto da lui, d’altra parte è anche un grande allenatore. Ho imparato molto anche da Helmut Gross, che allora era un consigliere a Salisburgo. Penso che tutti insieme abbiamo creato qualcosa di davvero speciale».
Quest’aura da profeta, da portatore di futuro, continua ad aleggiare intorno a Schmidt anche dopo Salisburgo. Un allenatore per alcuni troppo estremo, ma che proprio per questo è percepito come un'avanguardia, che quindi solletica l’immaginazione dei club più ambiziosi. Nel 2014 passa al Leverkusen, nella Bundesliga stravolta dall’arrivo di Pep Guardiola (che proprio contro il calcio distruttivo di Schmidt soffrirà spesso); nel 2017 accetta l’offerta del Beijing Gouan, in un momento in cui la Cina sembra il futuro del calcio globale.
«Andare lì è stata una scelta difficile perché non sapevo niente del calcio cinese. Ovviamente è stata anche una questione di soldi perché a quel tempo la Cina stava spendendo molto in giocatori e allenatori per sviluppare il suo movimento. Il mio istinto mi diceva che poteva essere una grande opportunità per evolvere come allenatore ma anche come persona, in una cultura completamente diversa. Era una grande sfida e per affrontarla volevo basarmi sulle mie idee. Non volevo cambiare troppo, anche se dovevo giocare con otto giocatori cinesi e solo tre stranieri. Volevo giocare come giocavamo con il Bayer Leverkusen e con il Red Bull Salisburgo. E alla fine stata un’esperienza che mi è piaciuta molto. Sono grato di essere stato lì, di aver conosciuto i giocatori cinesi, lo staff, che sono ancora nel mio cuore».
«[Con il Beijing Gouan] Abbiamo vinto la coppa nazionale dopo trent’anni [in realtà sono 15, nda], ed eravamo sulla buona strada anche per vincere il campionato. Purtroppo in quel momento volevano rinnovare il mio contratto per altri due anni e per me era impossibile. Stavo lì già da due anni e mezzo, ed ero senza la mia famiglia perché mio figlio era troppo piccolo per andare in Cina e mia moglie era rimasta con lui in Germania. Per me era abbastanza, quindi ho rifiutato il rinnovo e loro mi hanno licenziato: anche questa è la Cina. La mattina dopo ho prenotato il mio volo per tornare a casa e all’aeroporto c’era una marea di tifosi che cantavano, mi hanno dato una cosa come cinquanta o cento sciarpe del Beijing Guoan. Non so come sono venuti a sapere quando sarei tornato in Germania. È stato molto emozionante. È stato un vero peccato fermarsi a quel punto, penso che avremmo potuto vincere il campionato alla fine di quella stagione».
Dopo la Cina, la carriera di Schmidt prende una piega inaspettata. Nei tre anni in cui è stato lontano, il calcio europeo ha preso sempre più le sembianze delle sue idee. Jurgen Klopp ha vinto la Champions League, il Red Bull Lipsia ha raggiunto una semifinale della massima competizione europea e con la pandemia i cambi sono passati da tre a cinque, per permettere alle squadre di mantenere un’intensità che altrimenti sarebbe insostenibile giocando ogni tre giorni. Schmidt si siede prima sulla panchina del PSV, nella patria del calcio euclideo di matrice olandese; poi su quella del Benfica, una squadra innamorata dei giocatori più tecnici, nel compassato calcio portoghese. Il fatto che due club così lontani dai suoi principi l’abbiano scelto è il segno che le sue idee hanno vinto o che lui nel frattempo è cambiato?
«[ride] Ad essere onesti anche a Salisburgo giocavamo un ottimo calcio. La prima cosa che si notava era l’aggressività senza palla, il pressing, il gegenpressing ma eravamo anche molto bravi in transizione e avevamo alcuni giocatori di alto livello tecnico come Sadio Mané e Kevin Kampl. Credo che siamo riusciti a unire le due cose. Certo, il PSV e il Benfica mi hanno chiesto di diventare il loro allenatore per cambiare il loro stile di gioco, perché non stavano riuscendo a dominare i rispettivi campionati come volevano».
«Poi ogni club è diverso. Non è un pattern: non puoi trasporre esattamente ciò che hai fatto in un posto in un altro. Ti devi sempre adattare. I principi, però, quelli rimangono: l’aggressività, il pressing alto, il gegenpressing, le transizioni, il calcio proattivo sono sempre gli stessi. Certo, devi adattarti alle qualità dei giocatori, o al calendario: è diverso giocare una volta alla settimana o avere le coppe. Se devi giocare ogni tre giorni devi creare un ritmo nel gioco, avere un buon possesso palla, anche per trovare il momento migliore per attaccare. Altrimenti rischi di ritrovarti esausto a un certo punto della partita, o stanco in una fase importante della stagione».
(È molto interessante l’utilizzo della parola “ritmo”, rythm in originale, da parte di Roger Schmidt, la riutilizzerà in questo senso anche più avanti. Una parola che in Italia si utilizza quasi come sinonimo di “intensità”, per indicare un gioco di grande livello fisico, e che invece l’allenatore tedesco intende quasi in senso opposto. Una velocità conosciuta, “di crociera”, a cui una squadra può controllare il gioco senza fatica).
Chiedo a Schmidt se ci sono dei giocatori che gli hanno fatto cambiare idea sul calcio nel corso della sua carriera, che lo hanno cambiato come allenatore. «Ho avuto diversi giocatori di grandissimo talento in un momento iniziale delle loro carriere», mi risponde. «Kevin Kampl, Sadio Mané, Kai Havertz, Hakan Calhanoglu, Julian Brandt, Son Heung-min. Al PSV ho allenato Cody Gakpo, Denzel Dumfries, Noni Madueke, e in Portogallo Gonçalo Ramos, Joao Neves ed Enzo Fernandez. Erano tutti molto giovani e penso che, nonostante questo, avessero già un livello piuttosto alto e si prendessero già molte responsabilità».
«Se devo rispondere alla tua domanda, però, penso a giocatori più esperti. Ho due nomi, in particolare. Uno è Renato Augusto, l’ho allenato al Beijing Guoan. Un giocatore fantastico, aveva già 32-33 anni all’epoca, ma era davvero incredibile come guidava il gioco, come lo attraeva a se stesso, come lo dominava. Ho anche leggermente cambiato lo stile di gioco per esaltare i suoi momenti migliori dentro la partita. Perché lui era quello che decideva tutto».

«L’altro è Angel Di Maria. Lui ha deciso di tornare al Benfica, dove ha cominciato la sua esperienza in Europa, dopo una carriera fantastica. Voleva tornare dove aveva cominciato e questo per me era già qualcosa di speciale, perché non è stata una questione di soldi. Poteva andare in Arabia Saudita e guadagnare in due anni molti più soldi di quanti ne ha guadagnati al Benfica, e quindi per me anche solo la sua scelta è stata impressionante. Ma ancora più impressionante era vedere come si comportava in campo, quanto amava giocare a calcio, vincere le partite, dominarle. Come era capace di prendersi la responsabilità nei momenti decisivi. La sua qualità era semplicemente incredibile in quasi tutto. E magari non sarà il giocatore perfetto per il mio stile di gioco ma insieme siamo riusciti a trovare un’intesa per portare la sua incredibile qualità sul campo, e giocare il calcio che lui voleva giocare».
«La libertà che lasciavo a Di Maria, lui me la restituiva tutta. Poi ovviamente devi sempre trovare l’equilibrio nella squadra. Quindi alcuni giocatori dovevano correre un pochino di più in alcuni frangenti della partita, così che Angel potesse essere decisivo».
Tra i vari giocatori allenati da Schmidt c’è anche Hakan Calhanoglu, la cui evoluzione sembra seguire passo passo quella del calcio europeo degli ultimi anni. A Leverkusen, Calhanoglu era un numero 10 atipico, iper-verticale, che toccava pochi palloni e contribuiva molto al pressing. “Rispetto a Calhanoglu”, scriveva Emanuele Atturo quasi dieci anni fa ormai “Özil fa quasi pensare a dei filmati d’epoca. Calhanoglu rappresenta un'ulteriore evoluzione del ruolo: più verticale, più diretto, ancora più intenso”. Questa interpretazione così estrema, e anche così contro-culturale rispetto all’idea classica del trequartista, era ovviamente influenzata dal calcio di Roger Schmidt, a cui chiedo se è sorpreso dalla sua evoluzione, che lo ha portato a diventare all’Inter un regista cerebrale e sempre nel vivo del gioco.
«No, non mi ha sorpreso», mi risponde «Hakan - mi pare avesse 19 o 20 anni quando era al Bayer Leverkusen - ha iniziato la sua esperienza lì insieme a me, ed era chiaro che fosse un giocatore eccezionale, un leader. Quando giocava non aveva mai paura, non aveva mai dubbi sul campo anche se aveva solo vent’anni. Era sempre in grado di garantire la prestazione anche nei momenti difficili di una partita. Potevi già vedere che sarebbe diventato un top player. Quando ero a Leverkusen ho avuto diverse discussioni con Hakan su quale fosse il ruolo migliore per lui in campo. A quel tempo giocava più da seconda punta. Lui si sentiva un numero 10 e voleva avere il numero 10 sulle spalle ma per me a quel tempo aveva già le qualità per fare il playmaker. Sapeva leggere il gioco molto bene, giocare anche da dietro, prendere decisioni intelligenti, leggendo le azioni d’attacco. Anche tecnicamente era perfetto: sapeva cambiare gioco con facilità, aveva un ottimo lancio, si prendeva la responsabilità di fare i passaggi più difficili e sapeva tirare da qualsiasi posizione. Insomma, era molto completo e adesso ha un ruolo che è perfetto per lui, anche considerando la sua età e lo status che ha raggiunto all’interno dell’Inter».
Certo, Calhanoglu ha ormai più di 31 anni ma mi sembra che il suo arretramento sul campo sia stato molto più veloce di quello avvenuto a molti trequartisti prima di lui in epoche precedenti. Viene da chiedermi cosa succederà ai trequartisti del futuro. Quanti ne sopravviveranno in una zona in cui ormai il principale playmaker è diventato il pressing? In che direzione andrà il calcio nei prossimi dieci anni?
«Il calcio è sempre più fisico, la velocità del gioco non fa che aumentare. La domanda è: siamo al limite? Accelerare il gioco sempre di più è davvero la soluzione? Bisogna anche tenere in considerazione la quantità di partite che ormai bisogna giocare in una stagione. C’è bisogno di uno stile di gioco che abbia la giusta intensità ma anche un ritmo attraverso cui dominare le partite, risparmiando energie per i momenti giusti della partita e le fasi decisive della stagione. Insomma, non si può tornare indietro ed eliminare l’intensità dal gioco, questo è chiaro, ma dobbiamo tenere in considerazione la fatica che comporta giocare ogni tre giorni, per 65 partite a stagione. È faticoso anche per gli allenatori, mica solo per i giocatori [ride]».
«Bisogna trovare il giusto equilibrio tra intensità, ritmo e controllo: penso che questa sia la sfida più grande».