Sébastien Frey è un ex portiere francese, considerato tra i più forti della sua generazione. Il quarto giocatore straniero con il maggior numero di presenze in Serie A (446). In Italia ha difeso la porta di Inter, Hellas Verona, Parma, Fiorentina e Genoa in quindici stagioni da protagonista, per poi concludere la carriera in Turchia, nel 2015.
A settembre è uscita la sua autobiografia, Istinto puro, scritta con il giornalista Federico Calabrese per Minerva Edizioni. «Quando giocavo ho sempre cercato di proteggermi e tutelarmi, non volevo si sapesse della mia vita privata, sono una persona riservata. Ma il progetto di questo libro mi ha convinto, ci ho pensato e ho capito che era arrivato il momento di raccontarsi», mi dice al telefono, quando lo chiamo per approfondire alcuni passaggi della sua vita, che mi hanno incuriosito. Di seguito potete leggere l'intervista che ho realizzato con lui.
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Partiamo dalla fine: cosa insegna la tua storia?
A non arrendersi mai. Nonostante le difficoltà, la sfortuna, le battute d’arresto, con la determinazione e la perseveranza si può uscire da qualsiasi situazione negativa, salvo casi eccezionali. Un problema può diventare un’opportunità. A 26 anni, in uno scontro di gioco con un attaccante durante una partita tra Juventus e Fiorentina, mi sono infortunato al ginocchio sinistro - un infortunio grave, un trauma contusivo alla tibia con lesione da stiramento ai legamenti crociato posteriore e collaterale laterale - che mi è stato ricostruito. I medici mi hanno detto che se mi fossi fatto male di nuovo, avrei dovuto ritirarmi e probabilmente mettere una protesi, che comunque dovrò indossare intorno ai sessant’anni. Ora convivo con l’artrosi, appena il clima diventa umido il ginocchio mi fa male, tanto. Certe mattine mi alzo dal letto e mi muovo come un vecchio. Ho imparato ad accettarlo, ma non è facile.
Come dici nel libro, quel problema diventa un’opportunità nel momento in cui chiami Roberto Baggio, che aveva passato un calvario simile.
Roberto si è rivelato una persona splendida: mi è stato vicino e mi ha fatto conoscere il buddismo, che mi ha cambiato la vita. Così ho reagito, nel libro spiego come.
Leggo da Wikipedia questa definizione di te: «Portiere dotato di grande personalità, reattivo tra i pali, abile nell'uno contro uno e in grado di disimpegnarsi coi piedi; meno efficace nelle uscite». Sei d’accordo?
No, per le parole finali. Prima di infortunarmi ero molto spericolato, uscivo spesso dalla porta, mi lanciavo allo scontro con i giocatori. Poi, potevo farlo solo quando ero sicuro di prendere la palla. Ho dovuto adattare il mio modo di giocare: meno uscite, per evitare contrasti duri con gli attaccanti, e più esplosività e reattività sulla linea di porta, così ho vissuto le stagioni migliori. Per anni sono stato considerato uno dei portieri più forti, ma probabilmente, considerando quello che mi è successo, ho più meriti degli altri.
Leggendo il libro si capisce che la determinazione non ti è mai mancata, ha sempre fatto parte del tuo carattere sin da bambino.
Sono nato così, perché per inseguire i miei sogni sono dovuto crescere in fretta. Volevo diventare un calciatore professionista, avevo il talento per farlo. I miei genitori sono stati sinceri con me: «Se vuoi provarci, insisti, ma noi non possiamo permetterci di starti dietro, dobbiamo lavorare». Ho sentito da subito il peso della responsabilità: non potevo solo tentare, dovevo riuscirci. E così a dieci anni sono andato via di casa, mi sono trasferito dai miei nonni, che avevano più tempo per accompagnarmi agli allenamenti e per seguirmi in generale.
Racconti che tua nonna ti ha fatto trovare il telefono con cui chiamavi casa staccato, per indurirti.
Sì, all’inizio mi mancava la mia famiglia, finché un giorno mia nonna reagisce così, e mi dice che non avrei più chiamato i miei genitori. Era il suo modo di farmi crescere e diventare indipendente, un uomo. Sapeva che se avessi chiamato mia madre in lacrime, lei sarebbe corsa a prendermi, e il mio percorso nel calcio sarebbe finito lì. È stato un momento durissimo per me, ma le sono grato perché affrontare quella situazione mi ha reso più forte, anche se ero solo un bambino.
Quasi venti minuti di Frey, per ricordarvi il suo talento.
Chissà quanti talenti si perdono per strada perché non reggono situazioni simili, difficili da gestire, per di più da così piccoli.
Ho visto tanti ragazzi talentuosi nei settori giovanili, finché bisognava scegliere se fare i calciatori nella vita, che significava entrare in convitto, quindi trasferirsi lontani dalla famiglia. E in convitto è una lotta per la sopravvivenza, devi farti rispettare. È come partire per il militare, ci sono regole, orari, non si sgarra. Se ci vai, rinunci all’adolescenza: niente feste, svaghi, discoteche. Prendi i primi soldi, si costruisce un progetto intorno a te, quindi sei giudicato continuamente, perché ti devi meritare la permanenza. Devi avere una convinzione, una disciplina e una perseveranza cieca, sin dall’inizio.
Sei cresciuto nel Cannes, che ai tempi aveva il settore giovanile migliore di Francia, fino a esordire in prima squadra e attirare le attenzioni dell’Inter.
A quindici anni facevo quattro allenamenti al giorno, mamma era quasi preoccupata. Nella mia carriera spesso sono stato il più giovane perché ho bruciato le tappe, ma ero un giovane adulto. Ho sempre avuto la cultura del lavoro, che mi è rimasta anche da professionista affermato: trascorrevo ore al campo, ero il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via - mi prendevo un caffè con i magazzinieri, passavo a salutare tutti - avevo un’attenzione maniacale ai dettagli. Quando ero un ragazzo, mi hanno detto: «Seba, tu diventerai un campione perché hai fame. Ricorda che potranno attaccarti su una prestazione, perché tutti sbagliano e fa parte del percorso, comprese le critiche. Ma fai in modo di non farti mai attaccare sulla professionalità, lì devi essere sempre impeccabile», ed è stato il mantra della mia vita in campo. Anche perché non volevo solo giocare in Serie A, il mio obiettivo era essere considerato il più forte.
Immagino che quindi, oltre al calcio, non esistesse nient’altro per te.
La dimensione personale di un calciatore è complessa. Giocare a calcio è uno stile di vita, più che un lavoro. E se lo fai ad alti livelli, hai tante partite tra campionato, coppe, Nazionale, sei poco a casa. Ho scelto di diventare padre da giovane proprio perché volevo trovare un equilibrio e costruire una mia dimensione di affetti da cui tornare a casa la sera per staccare la spina. Sono stato sfortunato nella scelta della persona con cui farlo, perché poi rincasare e sentirsi soli è bruttissimo. Bisogna essere lucidi nel selezionare le persone che vuoi al tuo fianco, perché i calciatori attirano tanti arrivisti, gente che vuole starti intorno solo per godere del tuo status, dei soldi, del lato superficiale.
Tornando al campo, il tuo istinto ti ha mai tradito? Parlo anche delle scelte di carriera, come quando nel ‘97 hai rifiutato la Juventus.
Mai, sia in porta che nelle scelte di carriera. Non rimpiango niente perché ho sempre deciso in autonomia, consultandomi con il mio procuratore che è stato come un padre, ma l’ultima parola è spettata a me, ho fatto di testa mia. L’unica volta in cui forse sono stato condizionato, è stata quando ero al Parma e vengo a sapere che mi vuole il Bayern Monaco. Ne ho parlato con la mia ex moglie, che non mi avrebbe seguito in Germania perché non le piaceva, quindi avrei avuto la famiglia lontana, con due figli piccoli. Non me la sono sentita, ma con il senno di poi sono bravi tutti. Un altro retroscena amaro risale ai tempi di Firenze: avrei voluto chiudere la carriera lì, ma un dirigente ha deciso di farmi la guerra e ho preferito evitare di andare allo scontro, per non creare problemi che turbassero lo spogliatoio.
Probabilmente, se avessi fatto altre scelte, avresti vinto di più, ma hai sempre dato la priorità all’affetto e al calore dei tifosi, in piazze in cui sapevi di poter essere protagonista, rispetto che ai trofei. Sei andato in controtendenza, soprattutto rispetto al calcio attuale. Perché?
Di portiere in campo ce n’è uno per squadra. All’apice della mia carriera non mi sarebbe interessato andare a fare la riserva in un club blasonato, vincendo venti trofei senza essere protagonista. Ho scelto un ruolo che potesse farmi sentire speciale, ho voluto viverlo fino in fondo. E non è un caso che io sia nella Hall of Fame della Fiorentina e nelle Leggende di Parma e Inter: si vede che dove sono andato ho lasciato un segno e questo, per me, vale di più di un trofeo. Si ricordano di me non perché ho vinto, ma per quello che ho rappresentato, che è un sentimento più profondo e difficile da suscitare. Restare nel cuore dei tifosi, e non solo, anche degli avversari, perché ti sei fatto apprezzare anche come persona, ha un valore inestimabile.
Frey in grande spolvero durante una partita tra leggende di Inter e Chelsea.
Il portiere è l’unico ruolo solitario in uno sport di squadra. Come ci si sente a ricoprirlo?
Quando raggiungi certi livelli, sei abituato a reggere la pressione, anzi, ti carica. Il portiere è quel ruolo in cui se fai venti interventi in una partita fai il tuo dovere, ma se commetti un errore diventi subito un colpevole. Fa parte del gioco, ci si abitua e, quando si sbaglia, bisogna avere la forza mentale di reagire immediatamente, perché la partita continua. E se vivi un momento critico, conta anche l’appoggio, la fiducia di chi hai intorno, dello staff che lavora con te.
Ricordo il caso eclatante di Loris Karius, portiere del Liverpool nella finale di Champions del 2018. Ha fatto due errori evidenti e da quel momento la sua carriera è crollata, come se non si fosse più ripreso.
La finale di Champions League è una delle partite più guardate al mondo, sbagliare in un contesto simile è una mazzata tremenda. Per di più, è successo nell’epoca dei social media, che sotto questo aspetto sono maledetti, tra i leoni da tastiera e il fatto che un video può circolare in rete per anni - e per il protagonista diventa difficile voltare pagina, la sua reputazione resta inchiodata a quel momento virale, diventa una persecuzione. Credo che Karius ne sia uscito distrutto a livello psicologico, e anche io, al suo posto, avrei fatto tanta fatica a riprendermi, ha subìto un linciaggio mediatico. Mi è dispiaciuto tantissimo per lui.
Tanti ex calciatori dicono che i portieri sono personaggi particolari.
Li definirei stravaganti, creativi, fuori dagli schemi. In spogliatoio ero quello che portava lo stereo, a Firenze ho appeso un canestro alla parete, facevo scherzi, ci tenevo a condividere momenti di svago con i miei compagni. Forse proprio perché il mio era un ruolo solitario in campo, non avevo compagni di reparto o qualcuno con cui dividere le responsabilità, durante la partita non c’è modo di fare gruppo - anche durante le esultanze per i gol segnati, il portiere resta in porta, cerca l’abbraccio del pubblico. Quindi cercavo di vivere questa dimensione in altri modi.
Se dovessi scegliere un’abilità che permette a un portiere di spiccare rispetto agli altri, quale sarebbe?
Non ho dubbi, la personalità.
Parlando di portieri italiani, Donnarumma è ancora una spanna sopra a tutti?
Gigio lo sento spesso, è in una fase delicata della sua carriera. Penso che a breve dovrà fare una scelta, perché in Francia è perseguitato dai media, lo attaccano ingiustamente. Sicuramente ha fatto qualche errore in partite importanti, in Champions, ma lo giudicano con troppa severità. Credo che il suo futuro sarà lontano da Parigi, non è più nel club e nell’ambiente giusto per lui. Starebbe meglio in Italia, o altrove. Se cambia aria, torna ai suoi livelli.
Chi ti piace oltre a lui?
Sono molto curioso di vedere come si comporta Di Gregorio alla Juventus, perché ha fatto un bel salto di realtà dal Monza. Se farà bene, potremo parlare di un grande portiere. Mi piace tanto Guglielmo Vicario, perché ha fatto la gavetta ed è riuscito ad imporsi in un campionato estero, difficile e competitivo. Seguo anche Marco Carnesecchi, mio figlio ci ha giocato insieme alla Cremonese: è strutturato fisicamente, ha un’ottima impostazione tecnica, voglio vedere il suo rendimento durante la stagione. Può diventare un portiere importante.
Ti nomino alcuni attaccanti con cui hai giocato, descrivili con un aggettivo: Christian Vieri.
Il bomber per eccellenza, con un senso del gol impressionante.
Adriano.
Una forza della natura. Finché suo padre gli è stato vicino, era uno degli attaccanti più forti al mondo. A Parma vivevano insieme, era il suo punto di riferimento, lo seguiva ovunque. Quando è mancato, Adriano si è perso. Non si è mai ripreso davvero ed è un peccato, è un gigante con il cuore buono.
Ronaldo.
Il fenomeno, un giocatore unico. Il più forte: chi lo ha vissuto lo sa.
Roberto Baggio.
Divino. Bello da veder giocare, amato da tutti.
Il fatto che quest’anno in Serie A regni l’equilibrio, sia per la lotta scudetto che in ottica salvezza, è un buon segnale? Alcuni sostengono sia per un livellamento verso il basso del campionato.
Per me è il contrario, da un paio d’anni vedo una ripresa, la qualità del campionato sta aumentando. Ci sono più squadre competitive, vedrai che nei prossimi mesi sarà uno dei campionati più interessanti da seguire, si lotterà fino alla fine. Inter e Napoli potrebbero ingranare un’altra marcia a breve, la Juventus seguirà la scia, il Milan lo vedo meno attrezzato per lo scudetto. L’Atalanta fa un gran lavoro da anni, la Fiorentina è la sorpresa e ne sono felice, spero reggano il passo. E occhio alla Lazio, giocano bene, con personalità e qualità.
A proposito di come cambiano i tempi, hai dichiarato a DAZN: «Oggi il portiere non può essere considerato come un semplice, ultimo difensore. Al contrario, può essere il primo attaccante». In che senso?
Ai tempi della Fiorentina, Cesare Prandelli voleva che l’azione ripartisse da dietro, quindi sono stato un portiere all’avanguardia da questo punto di vista, sapevo giocare con i piedi. Con la costruzione dal basso voluta da Guardiola, questa tendenza è stata estremizzata, per cui i club preferiscono un portiere che abbia una visione di gioco e un buon palleggio, rispetto a uno che para di più, e trovo sia sbagliato. Chi fa quel ruolo, prima di tutto deve parare. Poi ci sono i portieri moderni che sanno fare bene entrambe le cose e sono prototipi perfetti, come Ederson, Ter Stegen, Neuer, Oblak e Alisson.
Hai detto che la squadra a cui sei più legato è la Fiorentina. Qual è il ricordo più bello che conservi dell’esperienza a Firenze?
Se chiudo gli occhi, più che una partita o una parata ricordo una serata con i miei compagni, una cena di squadra, un momento divertente nello spogliatoio. Mi è rimasto impresso l’aspetto umano, eravamo un gruppo di amici veri, prima che di calciatori. È stata un’esperienza indimenticabile.
Il calcio ha almeno un paio di zone d’ombra: la questione legata al doping, che ha tenuto banco soprattutto negli anni Novanta, e quella più recente sulle commozioni cerebrali. A proposito dei farmaci, ti è capitato di assistere ad episodi ambigui nel corso della tua carriera?
Per fortuna no. Parlando per me, sono sempre stato rigoroso: non ho mai preso una medicina, neanche per il raffreddore, senza prima consultare un medico del club, per evitare di assumere qualcosa di proibito senza saperlo. Ma gli scandali legati al doping sono scoppiati prima che giocassi, quindi credo le cose fossero già cambiate. Ho visto delle immagini in televisione girate nello spogliatoio del Parma [probabilmente Frey si riferisce a un servizio de “Le Iene” in cui si vedono dei giocatori fare delle flebo prima di una partita, nda], ma in quel caso erano semplici sali minerali, per curare la disidratazione se vieni da giorni di febbre o simili. E in ogni caso, a me i medici hanno sempre spiegato cosa mi stavano dando, ero informato su quello che facevano.
E il fatto che i calciatori giochino sempre più partite, a un ritmo di calendario ormai forsennato, come te lo spieghi?
È un problema, basta guardare le statistiche sugli infortuni, che sono drammatiche. Anche se sei un atleta, il corpo ti presenta il conto. Giocare settanta partite all’anno non è umano, e certi infortuni ti segnano per sempre. Io, purtroppo, lo so bene.
Passando invece ai traumi cerebrali, c’è una tua intervista su La Gazzetta dello Sport risalente al 2006, in cui denunci l’urgenza di regole più stringenti che tutelino i portieri nelle uscite basse sugli attaccanti, dopo il tuo incidente al ginocchio e i traumi cranici di Cech e Cudicini, ai tempi portieri del Chelsea. Oggi credi che i tuoi colleghi siano al sicuro o non è cambiato niente?
Ho notato che i portieri hanno cambiato modo di uscire. La mia generazione si buttava di testa sui piedi dei giocatori, che dovevano avere l’intelligenza di saltare per evitare l’impatto. Oggi i portieri escono, si fermano prima del contrasto, e allargano braccia e gambe per cercare di coprire la porta e restringere il bersaglio dell’attaccante. È un modo di chiudere lo spazio che arriva dalla scuola tedesca. E forse i giocatori sono diventati più rispettosi e attenti nei confronti dei portieri.
Hai mai sofferto di traumi o commozioni cerebrali in campo, o hai visto qualche tuo compagno accusarle?
Ne ho visti diversi. Mi ricordo di Giuseppe Cardone, che giocava nel Parma con me, in una partita contro il Bologna: salta in un contrasto aereo, prende una gomitata involontaria, sviene, cade male e riporta una frattura scomposta di tibia e perone. È stato fermo quasi due anni. Io non ho mai avuto grandi problemi, al di fuori di qualche mal di testa. Ho letto dei dati inquietanti sulla correlazione tra calcio, e in particolare colpi di testa, e malattie neurodegenerative. Non ti nego che, nonostante non mi sia mai successo nulla di eclatante, sono vicende che mi preoccupano.