
La mattina di Natale mio figlio Giulio, sei anni in divenire, si è fiondato sotto l’albero, ha esaminato scientemente i pacchi, ha individuato il più importante, l’ha scartato e si è trovato tra le mani un famoso videogioco calcistico per una famosa console. «Lo sapevo», si è limitato a dire. Non erano ancora le sette ed era già in campo. Ovviamente la squadra che aveva scelto di impersonare è la squadra per cui fa il tifo, contingentemente la stessa per cui io faccio il tifo, che magicamente nel videogioco vinceva, mentre spesso, nella realtà, non lo fa.
Mi sono chiesto se, a ruoli invertiti, avrei fatto lo stesso (ovviamente sì). E anche se l’ingenuità del tifoso sognatore, di chi nutre una passione così profonda da apparire scioccamente ridicola, che gli anni siano sei o quarantatré suonati, non sia in fondo sempre quella: una sospensione dell’incredulità, l’illusione di una magia intatta. Il discorso vale tanto per la squadra del cuore quanto per Babbo Natale.
L’idea che mi sono fatto di Sergio Pellissier, vedendolo in campo ai tempi in cui ero io quello che la mattina di Natale cercava sotto l’albero un famoso videogioco di una famosa console, e poi leggendo le sue interviste o chiacchierandoci, è che lui ci credesse, anzi che ci creda ancora, e che questo - come si dice - sia il suo segreto, in barba a tutti i nostri bias che ci fanno apparire questo tipo di discorsi un po' posticci.
L’ultima volta che lo avevo intervistato, nel 2021, il Chievo Verona, che era stata la sua casa per vent’anni circa, era scomparso, fagocitato dai debiti e radiato da ogni campionato professionistico. Lui aveva creato una società ex novo, l’aveva provata a chiamare AC Chievo 1929 cercando a tutti i costi di non far scomparire quel nome, quei colori, le mura che hanno ospitato vent’anni di convivenza. Ha provato ad iscriverla alla Serie D. Pellissier era convinto che quella casa non fosse proprio per niente tutta da bruciare. Cavilli burocratici, però, gli avevano impedito di usare quel nome. Che poi cos’è, un nome? Aveva quindi chiamato la nuova squadra FC Clivense, apparentemente consapevole che "quella che chiamiamo 'rosa' anche con un altro nome avrebbe lo stesso profumo", e l’aveva iscritta in terza categoria.
Di acqua, sotto i ponti, da quel settembre del 2021 ne è passata un bel po’. «Subito dopo l’iscrizione mi sono reso conto che ok, mi ero iscritto, ma non avevo neanche un giocatore, non avevo un allenatore, niente. Partivo da zero. Ed era complicato trovare le figure che servivano, perché erano già tutti accasati. Quindi mi è venuta l’idea di fare una selezione, ma semplicemente perché non avevo nessun altra soluzione». Il primo tassello è stato il mister Allegretti. Poi sono stati organizzati i provini con la paura di non riuscire a trovare gli uomini giusti. «C’era chi veniva da categorie inferiori, naturalmente, chi aveva smesso da poco e anche chi veniva dall’estero. Ne sono arrivati tantissimi, e quindi abbiamo avuto anche la possibilità di scegliere. Certo, non è stato facile: magari ti veniva la tentazione di prendere qualcuno che aveva giocato nelle categorie superiori, ma poi riflettevi, è fermo da sette anni».
Con l’entusiasmo non si vincono i campionati, magari, ma cementare un gruppo: quello sì. «Nelle prime settimane d’allenamento vedevi che qualcuno non era neanche male, ma non avevano mai giocato insieme, non avevamo neppure un campo, giocavamo su campi prestati, su metà campo, neanche a campo intero. Alla prime amichevole, il giovedì prima dell’esordio in campionato, abbiamo perso 5-1 contro una squadra di seconda categoria. La preoccupazione di trovarsi, la domenica successiva, a fare una brutta figura, ecco: quella c’era».
Invece all’esordio la Clivense vince, di fronte a 400 spettatori, e gioca un campionato mirabile, con una serie di nove vittorie consecutive e un girone di ritorno spettacolare.
La paura di fare una brutta figura, l’ansia da prestazione, non so se dica qualcosa di Sergio Pellissier come uomo o come professionista – l’acribia del perfezionista? lo spavento di chi soffre una sindrome dell’impostore? – ma di certo ritorna. Ad esempio nell’aprile del 2022, quando nella partita che potrebbe sancire la promozione della Clivense Sergio sceglie di tornare in campo, pochi giorni dopo aver compiuto 43 anni. Ovvero, tre anni dopo aver calcato per l’ultima volta il prato verde. «Uno si ricorda un giocatore per quando era ad alti livelli, quando era competitivo. Conserva quel ricordo. La mia paura, quando sono tornato dopo tre anni di inattività, non era tanto quella di farmi male, quanto soprattutto quella di deludere le persone che conservavano quel ricordo». In quella partita Pellissier segna una doppietta. Un gol, su rigore assegnato al minuto 31, come il suo numero di maglia. L’ultimo gol da professionista l’aveva segnato alla Fiorentina; nella stessa partita, Lafont gli aveva negato la doppietta.
Il tema della memoria, del ricordo, dell’ancoraggio a un passato che è un’Arcadia mitica, è un tema molto presente in ogni discorso che ruota intorno a Sergio Pellissier perché, più per metonimia che per osmosi, lo è ogni discorso che ruota intorno al concetto Chievo Verona. A un passato mitico a cui aneliamo, che siamo abituati a conoscere in un certo modo ma che al suo ripresentarsi in altra forma un po’ di disorienta, e un po’ ci spaventa.
Se c’è un obiettivo vero verso il quale Pellissier si è votato in maniera quasi totalizzante, questo è la rievocazione di una serie di condizioni, ambientali, sportive ed etiche, che hanno caratterizzato la storia del Chievo Verona. Mentre la Clivense vinceva campionati, scalava la scala gerarchica del calcio partendo dalle fondamenta, acquisiva titoli sportivi, trovava un suo posto nel mondo, Pellissier rincorreva comunque l’idea di rilevare il marchio, come se senza non fosse la stessa cosa. Nonostante la rosa, pur non chiamandosi rosa, continuasse a profumare di rosa.
«Sono stato sempre molto propositivo», mi dice quando gli chiedo se abbia mai pensato a rinunciare a questa rincorsa. «Credo nei miei sogni e volevo assolutamente che quel marchio tornasse a casa. Avrei fatto di tutto per farlo accadere, avrei lottato fino allo stremo. Non sarebbe stato giusto che andasse a qualcun altro, soprattutto se a quel qualcun altro non fosse interessato niente.
L’ostinazione, alla fine, è stata ripagata: il 10 maggio dell’anno scorso, finalmente, Pellissier e la sua cordata (in cui a spalleggiarlo c’è anche Enzo Zanin, ex giocatore del Chievo al fianco di Sergio dalla prima ora) sono riusciti a rilevare il marchio dell’AC Chievo Verona. «Però mi è dispiaciuto buttare via tutti quei soldi, e sicuramente questo è stato un dispetto enorme. Sarei comunque andato avanti a oltranza, a costo di trovare i soldi da qualche parte. Per tutta la sofferenza, per quanto abbiamo costruito in tre anni, per tutti i tentativi di tenere in alto quel nome, non sarebbe stato giusto perdere proprio adesso». Pellissier allude al fatto che dopo due aste saltate perché la basa d'asta fissata era troppo alta (500mila euro per marchio e logo in prima convocazione, 285mila alla seconda) ed erano andate deserte, all’ultimo tentativo (in cui la base d’asta era fissata a centomila euro) tutto sembrava pronto per un’acquisizione pacifica del marchio se non fosse che per un'offerta presentata in extremis da un’altra società interessata a rilevare l’AC Chievo Verona, vale a dire il Vigasio. Un club neopromosso in Serie D che forse non vi dice niente, ma il cui presidente onorario, forse per mera coincidenza o forse no, è Luca Campedelli, ex proprietario dei furono gialloblu. Vale a dire il capitano al timone del veliero che affondava, quando è affondato. Quello che aveva spinto Pellissier, legato e con una spada dietro la schiena, ad abbandonare la nave.
«Se non ci fossimo stati noi quel marchio sarebbe fallito: è stata la nostra ostinazione a rincorrerlo a tenerlo in vita. La nostra voglia di recuperare il suo valore».
Gli chiedo cosa abbia pensato la sera prima del momento topico, del giorno in cui nell’ufficio del curatore fallimentare si sarebbero decise le sorti del marchio Chievo Verona. «Che purtroppo non saremmo stati gli unici, e avremmo dovuto spendere più di quanto potevamo spendere. Era il mio rammarico più grande. Perché solo noi avevamo lottato per quello, e poi si è presentato qualcun altro a rompere le scatole». Quel qualcun altro, che Pellissier non nomina mai per nome, alla fine lo ha costretto a spendere più di quello che avrebbe voluto (circa 350mila euro). Pellissier ancora non se n’è ancora fatto una ragione: «Non aveva nessun senso presentarsi a quell’asta». Nella sua visione è come se qualcuno abbia provato a scrivere il finale di stagione di una serie capace di creare hype solo grazie alla sua regia. «E noi abbiamo sprecato soldi che ci sarebbero potuti servire per investire». «Perché se vuoi puntare a fare qualcosa di importante devi investire, e avere la passione o l’entusiasmo di credere in un progetto. Sei sempre sull’orlo del fallimento».
Non ha mai pensato di lasciar perdere, Pellissier? Non ha mai avuto voglia di dirsi ma chi me lo fa fare? «Io sono una persona che ha bisogno di responsabilità», mi dice, ed è una frase che mi colpisce: un’eredità che si porta dietro da quando scendeva in campo con la fascia da capitano? «Ho bisogno di prendere decisioni, di andare avanti con i miei sogni: se non avessi sognato tutto quello che ho sognato adesso non saremmo qua. Però ci vogliono persone che come te ci credano, in un progetto. Da soli non si va da nessuna parte».
C’è qualcosa, nella voce di Pellissier, mentre parliamo, che trasmette una calma pacata, che è però facile da confondere con la disillusione. Con una specie di rassegnazione. Quando gli chiedo se è felice – con negli occhi le scene dopo l’acquisizione del marchio, l’esultanza rabbiosa come dopo un gol – mi dice che sì, certo, ma non con troppa convinzione, o almeno così sembra a me. «Ci siamo un po’ arenati, e io vorrei qualcosina in più dal progetto». Pochi giorni prima i suoi avevano vinto, qualche giorno dopo avrebbero inanellato la quarta vittoria consecutiva. Ma la squadra è a metà classifica, distante diciassette punti dalla capolista Ospitaletto. «Se vuoi ambire a tornare ad alti livelli hai bisogno di qualcuno che investa. Io per questa maglia, per questo marchio, per quello che mi ha dato in tutti questi anni mi sento in dovere di cercare di dare il massimo per farlo crescere, per farlo tornare dove merita di essere. Lo faccio col cuore, perché ho sempre fatto così e non so fare diversamente. Il calcio è passione, ma è anche un investimento, tanto per cominciare emotivo, e poi economico. Uno si dà degli obiettivi, ma nessun obiettivo è realistico se non arriva qualcuno che investe i campionati non si vincono. Io vivo nei sogni, il mio sogno era far ritornare il Chievo e ci sono riuscito: ora il mio sogno è diventato tornare a farlo competere tra i professionisti. Poi nella vita non si può mai sapere: magari arriverà qualcuno che mi dirà porto avanti tutto io, tranquillo, e in quel caso io non avrei nessun problema ad andare via. Il mio unico obiettivo è sempre stato far tornare il Chievo dov’era prima. Solo a quel punto potrò dire che il mio l’ho fatto, e potrò essere sereno».
A me sembra che nonostante tutti i sacrifici e gli investimenti di questi anni, il fatto che Sergio Pellissier sia pronto a farsi da parte, o immolarsi, di fronte a un bene superiore sia un messaggio massimamente positivo, leggermente straniante solo perché desueto. «Sai, ci sono tifosi che fanno cori solo per la maglia, e altri che li fanno per i presidenti. I giocatori passano, i presidenti pure: siamo tutti di passaggio. Quello che non passa sono i colori, ma anche il concetto rappresentato da quei colori».
Giulio, anni sei in divenire, a un certo punto della mattinata si è fermato per un attimo e mi ha spiegato perché non riuscisse a staccarsi dal videogioco. «Perché adesso la Roma è quella vera». Si riferiva al fatto che nella versione precedente del videogioco la sua squadra del cuore avesse uno stemma diverso, maglie diverse, colori diversi. In qualche modo sentiva come se non fosse la sua squadra. Ora, dopo un anno intero di partite giocate con entusiasmo, con fiducia nonostante la lontananza da tutto quello che nel mondo reale rappresenta l’identificazione, si sentiva appagato. Me lo sono immaginato pieno di una felicità leggera, come Pellissier il giorno in cui è diventato proprietario del marchio del Chievo Verona. Ci sarebbe stato bisogno di parlare di diritti di immagine, forse. Oppure del fatto che una rosa, anche se cambia nome, non è detto che non abbia lo stesso profumo. Oppure, semplicemente, lasciarlo sognare, in quella maniera in cui solo Sergio Pellissier, e i ragazzini di sei anni in divenire, sanno fare senza sentirsi in colpa, facendoti sembrare scemo per tutto il disincanto che tu, invece, infili nelle tasche ogni giorno.