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15 set 2015
Djokovic vince un'altra finale contro Federer e si pone come padrone sempre più incontrastato del tennis contemporaneo.
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Durante i minuti di premiazione della finale del singolare femminile tutta italiana, quando Flavia Penetta stava annunciando il ritiro a fine stagione mentre riceveva il trofeo, Boris Becker archiviava l'impresa con un tweet di complimenti, per poi passare a quello che davvero gli stava a cuore:

Boris Becker è l'allenatore di Novak Djokovic. La cosa con cui si voleva divertire ovviamente era la nuova risposta kamikaze di Roger Federer, colpita correndo verso il rettangolo di servizio e tentando un attacco a sorpresa mandando la palla dall'altra parte in controbalzo. SABR, per chi ancora non lo sapesse, vuol dire Sneak Attack by Roger, e pare che l'acronimo l'abbia coniato lo stesso Federer. Già da giorni Becker la criticava aspramente, dicendo che ai suoi tempi a chi ci provava gli avrebbero servito direttamente in faccia.

Alla vigilia della finale tra Federer e Djokovic tutti aspettavano con ansia l'impiego della nuova tattica, che aveva dato i suoi frutti nella finale che i due avevano giocato a Cincinnati, vinta da Federer in due set. A New York invece è andata così:

Nel punto subito dopo, così:

Ora, chiunque abbia visto qualche partita di Federer avrà notato come non venga praticamente mai scavalcato da un lob, essendo estremamente agile nel posizionamento a rete e forse il migliore autore di smash di tutto il circuito. Andy Murray, maestro dei lob, lo ha scavalcato qualche volta, ma nessuno ci riesce due volte di seguito, in più costringendolo a tentare la sbracciata a vuoto nel tentativo di recuperare la pallina. Quando i campioni vengono passati da un lob lo capiscono subito e accettano la disfatta con compostezza. Djokovic ha sorpreso Federer a tal punto da lasciarlo a dimenarsi in mezzo al campo a cercare di mettere una pezza alla situazione, inutilmente.

La finale degli US Open, vinta da Djokovic in quattro set (6-4 5-7 6-4 6-4) ha avuto un andamento fotocopia della finale di Wimbledon che i due hanno giocato due mesi fa: Djokovic vince il primo, Federer alza il livello nel secondo, poi ne paga le conseguenze nel terzo e nel quarto. Ci sono state alcune variabili: più errori gratuiti da parte di entrambi, soprattutto Federer, che ha convertito solo quattro su ventitré (!) palle break e ha giocato una partita dove paradossalmente il dritto l'ha tradito più spesso di un insolitamente solido rovescio. La sostanza è che Federer non è più in grado di battere Djokovic al meglio dei cinque set, semplicemente perché la partita è troppo lunga e Djokovic ha più marce nella gestione atletica della lunga durata. Al meglio dei tre set Federer può ancora costruire quelle trappole da cui Djokovic non fa in tempo a uscire, in una distanza agonistica dove il punteggio può scappare via in fretta, mentre il problema sulla lunga distanza è che accumulare lo score per vincere può sembrare un compito infinito.

Non è comunque risultato da poco, considerando che dall'inizio della stagione Djokovic ha perso solo cinque partite, e Federer è l'unico ad averlo battuto due volte nel corso dell'anno. E non c'è tanto da stupirsi se Federer in finale non ha confermato i livelli di performance delle settimane precedenti: non poteva, perché giocava contro Djokovic. E non poteva per diverse ragioni, la prima delle quali è che praticamente nessun altro riesce a imporre il proprio gioco su di lui, tranne che in singole occasioni. In più c'è la questione dei 34 anni di Federer, ma durante questa finale americana l'età è un dato che ha giocato forse più psicologicamente che altro: si tratta di un circolo vizioso in cui, partendo dalla consapevolezza che da fondocampo con Djokovic la partita non si vince, bisogna trovare il modo di forzare, ma così forzando i margini di errori si abbassano e bisogna mandare la palla in spazi che sono molto più piccoli di quelli che gli altri avversari ti concedono, e allora la mira diventa più difficile, e si sbaglia di più, molto di più.

Si sbaglia a volte prima ancora di colpire, si sbaglia decidendo quando, come, perché fare un colpo piuttosto che un altro. È una condizione psicologica che ricorda quella sofferta da Federer nei tanti match contro Nadal, anche nel pieno delle forze: contro un avversario che difende a oltranza le traiettorie vanno esasperate, si finisce nel delirio di voler sfondare questo muro avversario, a volerlo battere anche sul suo stesso terreno, poi si comincia a proporre un gioco offensivo nei momenti sbagliati, infine si va in confusione. Federer con Nadal andava in confusione come un combattente che cede non appena vede il proprio stesso sangue colare, scioccato dall'essere improvvisamente vulnerabile. Con Djokovic è un po' diverso, perché i loro rispettivi stili si combinano meglio che quello di Federer con Nadal, e il loro antagonismo stimola entrambi a raggiungere i rispettivi apici. Ma ormai Federer può solo sperare di battere Djokovic con una guerra lampo, mentre l'altro non chiede di meglio che sprofondare insieme in un assedio reciproco.

Insomma, sgombrando dalle tante suggestioni narrative, il tutto è piuttosto semplice: Federer a 34 anni gioca ancora un tennis eccezionale, Djokovic è all'apice della sua carriera, incarnazione del tennis opposto a quello che Federer gioca ancora, e in una condizione che nessuno riesce a raggiungere. Basta pensare a Murray o a Nadal, due giocatori simili che sembrano essere rimasti indietro rispetto al continuo miglioramento di Djokovic: un tempo il suo tennis sembrava la bandiera del gioco moderno, adesso somiglia molto di più a qualcosa che fa solo lui.

«Ti fa sbagliare molto, ma non ti fa sbagliare mai nello stesso modo. Se ti facesse sbagliare sempre nello stesso modo gli avversari comincerebbero a trovare il timing giusto, e riuscirebbero a colpirlo. Ti fa sbagliare il destro in tanti modi diversi, come ti fa sbagliare il gancio sinistro in tanti modi diversi. Cambia sempre il modo in cui difende, ed è questo che lo rende così difficile da affrontare».

Così il pugile Paulie Malignaggi descrive Floyd Mayweather, ma potrebbe benissimo parlare di Djokovic. Sempre esposto al gioco altrui, sempre a rincorrere gli angoli cercati dagli avversari, Djokovic recupera e neutralizza la forza della strategia avversaria, pronto a tirare due o tre colpi quando la guardia dell'avversario è ormai bassa. Mayweather schiva i colpi degli avversari intuendo miracolosamente dove andranno, Djokovic li rincorre e li rimanda dall'altra parte ancora più pesanti di come gli sono arrivati. In entrambi i casi l'avversario viene fatto sfogare e si sfibra per eccesso di propositività offensiva, perdendo lucidità ed esponendosi sempre di più al contrattacco.

Con la vittoria a New York Djokovic vince tre Slam in un anno per la seconda volta in carriera dopo esserci riuscito nel 2011. Federer ci è riuscito tre volte, nel 2004, 2006 e 2007; Nadal una volta, nel 2010. Non era mai successo che tre giocatori in attività avessero raggiunto questo risultato, e Federer e Djokovic sono gli unici ad averlo fatto più di una volta. Tanto si discute sul fatto se questa sia l'età d'oro del tennis maschile, certo che alcuni numeri sembrano confermarlo: dal 1970 al 2003 solo due volte erano stati vinti tre Slam dallo stesso giocatore in una sola stagione, Jimmy Connors nel 1974 e Mats Wilander nel 1988. Dal 2004 a oggi è accaduto SEI volte su dodici stagioni.

È colpa della scarsa concorrenza ai piedi dell'élite o è merito di un gruppetto di atleti che ha portato lo sport a livelli sconosciuti? La top 20 è piena di trentenni o quasi che non sono mai diventati i campioni che sembravano essere (Gasquet, Tsonga, Berdych), e i più giovani si stanno guadagnando con merito l'etichetta di lost generation: Milos Raonic, Kei Nishikori, Grigor Dimitrov, Ernests Gulbis, Alexandr Dolgopolov, Benoit Paire negli anni hanno preso strade diverse, alcune di grande successo altre meno, ma tutti hanno avuto dei momenti in cui hanno fatto pensare che potessero andare lontano. Tra chi si è perso e chi ha raggiunto un plateau agonistico, nessuno sembra destinato a dominare. Il più promettente di loro, Juan Martín del Potro, che nel 2009, a vent'anni, aveva battuto Federer nell'ultima finale a New York che aveva giocato prima di quest'anno, ha una carriera piagata da problemi al polso, con i quali tuttora combatte. Di questi tempi le partite le guarda in televisione:

Nuove leve stanno emergendo, e forse saranno loro a scippare ai meno giovani il passaggio di consegne, lasciandoli a bocca asciutta mentre aspettavano che i senatori si eclissassero. Già dall'anno prossimo forse si potrà vedere qualcosa: Nadal compirà 30 anni, Murray e Djokovic 29, Federer addirittura 35. Forse il futuro sarà un ritorno alla norma, e stiamo semplicemente per entrare in un'altra era in cui nessuno vincerà più 3 Slam in un singolo anno per decenni. Nel frattempo i veterani continuano a prendersi tutto: Djokovic sarà di nuovo numero 1 a fine stagione per la quarta volta in carriera, Federer è sempre numero 2 dalla fine dell'anno scorso, Murray è numero tre. Sono dodici anni che al numero uno ci sono solo Federer, Nadal e ora Djokovic, dodici anni che il mondo del tennis maschile è retto da pochi personaggi sopra una folla di comprimari. Come figli che continuano a rimanere a casa da mantenuti, abitano in una casa acquistata e arredata da altri, giocatori al vertice senza infamia e senza lode, bizzarro ibrido di eccellenza e assoluta medietà.

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