Nella NBA, come nella vita, a volte è tutta una questione di tempismo. Se Isaiah Thomas fosse stato free agent nell’estate del 2017, reduce da una stagione scintillante a quasi 29 punti di media con i Boston Celtics che gli valse un posto nel secondo quintetto All-NBA di quell’anno, oggi sarebbe molto più ricco e la sua carriera sarebbe stata molto meno tumultuosa. Con ogni probabilità avrebbe “comandato” sul mercato un contratto a tre cifre, ma soprattutto di lunga durata sui quattro o cinque anni che gli avrebbe dato una stabilità mai davvero avuta in carriera. Il ricordo stesso che avremmo di lui sarebbe stato certamente diverso, e sarebbe stata una presenza costante nelle nostre vite nelle ultime sei stagioni.
Invece non solo era ancora sotto contratto per la stagione 2017-18 a 6.2 milioni di dollari, ben al di sotto del suo valore di mercato e al suo rendimento in campo in quel momento, ma ha continuato a giocare per mesi su un infortunio all’anca destra che rappresenta uno spartiacque nel corso della sua carriera. Da quel giorno in poi Thomas non è più riuscito a trovare un posto fisso in NBA: i Boston Celtics secondo Thomas non furono mai del tutto trasparenti nel comunicargli i rischi a lungo termine di quel problema accusato a marzo e in estate — dopo una cavalcata playoff in cui Thomas ha continuato a giocare nonostante la morte della sorella — lo spedirono ai Cleveland Cavaliers per arrivare a Kyrie Irving. Da lì in poi è cominciata una processione: da Cleveland ai Lakers, da Denver a Washington, da New Orleans di nuovo ai Lakers per poi andare a Dallas e infine Charlotte, la sua ultima destinazione nota. Dal 2017 in poi Thomas ha segnato in totale 1.278 punti in 109 partite (53 da titolare); solamente nel 2016-17 chiuse a quota 2.199 in 76 partenze in quintetto. Praticamente il doppio.
Nonostante siano passati ormai sei anni da quando Isaiah Thomas era uno dei volti di riferimento della NBA, la sua fama rimane intatta. Lo abbiamo appurato con mano lo scorso giugno, quando insieme ad altri 16 giocatori ha partecipato all’evento One Court all’Università Bocconi di Milano organizzato dalla NBPA, l’associazione giocatori della lega. Una tre giorni di lezioni in cui IT è stato comunque il giocatore più acclamato, anche per la sua estrema disponibilità a concedersi agli appassionati — e anche a noi per una chiacchierata sulla sua carriera, che in questi ultimi giorni sta provando a riavviare firmando con l’affiliata della G-League degli Utah Jazz, i Salt Lake City Stars.
32 punti all’esordio con la nuova maglia, per gradire.
«Nella mia testa io avevo già visto tutto»
Facendo questo lavoro ormai da diverso tempo mi è capitato di incontrare diversi giocatori NBA, ma rimango sempre colpito dal carisma che trasudano anche nelle situazioni più normali. Nonostante IT sia decisamente più basso di me, è impossibile non rimanere in qualche modo impressionati dalla sicurezza che i suoi comportamenti e le sue parole trasmettono, e da come nella sua testa la sua storia sia tutt’altro che conclusa. Una storia che è cominciata, come ben noto, dalla sessantesima scelta al Draft del 2011: in un’epoca in cui andare “undrafted” (e quindi potersi scegliere la propria squadra come free agent) viene preferito a essere scelto in fondo all’ultimo giro, Thomas l’ha aggiunta alla lunga serie di volte in cui è stato sottovalutato: «Essere l’ultima scelta del Draft ha aumentato la mia voglia di dimostrare chi ero, ma non era la mia unica motivazione» ci ha detto. «Era importante e certamente l’ho usata nei miei primi anni nella lega per dimostrare che si erano sbagliati, e ovviamente ero deluso di essere stato scelto per ultimo, ma allo stesso tempo ero contento che il mio sogno di essere scelto al Draft fosse diventato realtà».
All’inizio degli anni ’10 era ancora piuttosto fresco il ricordo di Allen Iverson, il punto di riferimento per tutti i giocatori delle dimensioni di Thomas, ma si andava già in una direzione di pallacanestro positionless. Con il senno di poi, il fatto che IT sia riuscito a ritagliarsi un posto in NBA è un mezzo miracolo; il fatto che sia riuscito a sfiorare i 30 punti di media in una stagione potrebbe essere irripetibile, visto che solamente lui e “The Answer” ci sono riusciti a quell’altezza e che i giocatori sotto il metro e 80 attualmente in NBA sono appena due, e di nessuno dei due probabilmente avete sentito parlare (vi risparmio la ricerca su Google: sono Jacob Gilyard di Memphis e Markquis Nowell di Toronto).
Quando gli chiedo come è riuscito a raggiungere quel livello di successo, Thomas non ha avuto dubbi nel trovare la risposta guardandosi dentro: «Bisogna credere in se stessi, questa è la cosa più importante. Se non ci credi tu, nessun altro lo farà. Ho sempre creduto di poter segnare 30 punti di media in NBA: l’ho sognato, l’ho visualizzato. È stata una sorpresa per tutti gli altri, ma nella mia testa io avevo già visto tutto e ho lavorato per sfruttare al massimo quell’opportunità. E quando è successo era quasi destino che accadesse: non poteva andare in nessun altro modo perché ho davvero lavorato molto per fare in modo che succedesse. Per questo ripeto sempre che bisogna credere in se stessi: devi avere così tanta fiducia nei tuoi mezzi da sembrare pazzo».
Oltre alla sua incrollabile fiducia nei suoi mezzi, però, Thomas al suo meglio era imprendibile, riuscendo a sfruttare la mancanza di centimetri a suo favore e con un uso del posteriore per “tenere dietro” gli avversari da insegnare a tutti i portatori di palla di qualsiasi altezza. «Il mio superpotere era essere imprevedibile: ho lavorato così tanto sul mio gioco da sentire di non avere punti deboli. Avevo solo bisogno di un’opportunità, e quando l’ho avuta ho dimostrato di poter essere uno dei migliori giocatori del mondo. E poi giocavo con il cuore, che è una capacità che non puoi misurare. Ah, e anche che ogni volta che entravo in campo cercavo di ucciderti. Metti assieme tutte queste cose e capisci perché sono riuscito ad avere successo anche con la mia altezza».
La partita più memorabile di una stagione memorabile.
Essere amato ovunque si vada
“Opportunità” è una parola che ritorna spesso nei discorsi di Thomas: l’ha inseguita, l’ha voluta e una volta che ne ha avuta una, ai Sacramento Kings, non se l’è fatta sfuggire, viaggiando in doppia cifra di media già al suo primo anno di NBA. «A Sacramento è cominciato tutto: è lì che ho gettato le fondamenta per la mia carriera NBA. Sacramento mi ha dato un’opportunità e ha creduto in me quando nessun altro voleva farlo, e per questo proverò sempre amore per la città e per l’organizzazione. Mi hanno dato un’opportunità per la quale sarò sempre grato».
A Sacramento i tifosi lo ricordano ancora con affetto, ma è a Boston che IT ancora oggi è un idolo — e se pensate a lui in una maglia NBA, molto probabilmente ve lo immaginerete con il biancoverde addosso. «A Boston mi amano» dice Thomas emozionandosi un po’. «Non so perché, ma è un amore genuino ed è ricambiato, perché amerò sempre la città di Boston. Per me è una seconda casa. I migliori anni della mia carriera individualmente sono arrivati lì, e sono stati anni splendidi. Mi hanno accolto a braccia aperte e mi hanno trattato come se avessi vinto dei titoli di MVP o degli anelli: non ho fatto nessuna delle due cose, ma hanno visto quanto fossi dedicato al mio lavoro e questo li ha contagiati».
Un amore che trascende i titoli che (non) è riuscito a vincere, forse anche perché con lui i Celtics sono tornati a essere competitivi dopo l’epopea dei Big Three a cavallo degli anni ’10. «A volte rimango sorpreso dell’amore che provano per me. Quando sono tornato lì per gara-7 contro Philadelphia c’erano anche Rajon Rondo e Paul Pierce, eppure l’ovazione per me è stata probabilmente più grande rispetto a quella per loro, nonostante siano rimasti lì per 10 anni e abbiano vinto un titolo. Non so perché, ma c’è qualcosa di speciale tra me e Boston: è una bella sensazione che mi rende orgoglioso».
Quando gli chiedo se il motivo è da ricercare anche nel modo in cui è finita la sua storia, con uno scambio estivo in cui è stato a tutti gli effetti scaricato dalla franchigia e dalla dirigenza, lui trova comunque un modo per parlare bene dei Celtics: «Probabilmente sono così legati a me anche per come è finita, ma soprattutto per quello che ho dovuto passare nella mia vita in quel periodo, con la scomparsa di mia sorella. Mi hanno visto affrontare il dolore, mi hanno visto combattere, mi hanno visto giocare infortunato mettendo a rischio la mia carriera. Per questo l’amore è così genuino».
Da stella a mentore
Anche nei suoi passaggi successivi, pur non essendo riuscito a toccare di nuovo quei livelli, ha comunque trovato il modo di farsi apprezzare in buona parte delle altre squadre in cui ha giocato (ecco: a Cleveland no). Un po’ perché ai tifosi viene facile immedesimarsi in lui, e un po’ perché ha comunque avuto l’umiltà di calarsi in un ruolo differente come quello di mentore. «Aiutare gli altri è una cosa che ho sempre fatto, perciò non ho dovuto cambiare molto del mio approccio. Una volta che mi sono reso conto che in campo non avrei potuto avere lo stesso impatto che avevo avuto per la maggior parte della mia carriera, ho cercato un modo di dare una mano quotidianamente alla squadra in altri modi. Sono sempre stato un leader disposto ad aiutare. Invecchiando il mio lavoro è diventato quello di restituire qualcosa alle giovani generazioni, insegnando loro il gioco e mostrando come comportarsi da professionisti, prendendosi cura di tutti gli aspetti del business dentro e fuori dal campo».
Nei suoi tanti passaggi ha avuto anche un’esperienza ai Denver Nuggets, che potevano già contare su Nikola Jokic e Jamal Murray ma erano ben lontani dall’essere materiale da titolo, come ha candidamente ammesso lui stesso: «Pensavo che sarebbero diventati una squadra molto forte, ma mentirei se dicessi che avevo intravisto una squadra da titolo. Però sono molto contento per tutti i membri dell’organizzazione, a partire da coach Malone [che aveva già avuto nel suo terzo anno a Sacramento, viaggiando a oltre 20 punti di media, ndr] e tutti quelli che ho incontrato nello spogliatoio quell’anno, ad esempio Michael Porter Jr. che è uno dei ragazzi con cui sono ancora in contatto. È bello vederli avere successo, se lo sono meritato con il lavoro: sono davvero stati la miglior squadra dell’ultima stagione NBA, senza nessun dubbio».
Quello di aiutare gli altri è un ruolo che Thomas ha cominciato a fare non solo negli spogliatoi di mezza NBA per i suoi compagni di squadra, ma soprattutto per i suoi concittadini dell’area di Seattle (anche se lui è di Tacoma e ci tiene a sottolinearlo a ogni occasione) per i quali è diventato un punto di riferimento come altri lo sono stati per lui: «Noi siamo fatti così. Ricordo che i ragazzi più grandi come Jamal Crawford e Jason Terry mi hanno dato una mano e mi dicevano sempre: quando tu avrai successo, fai in modo di aiutare il prossimo che arriva dopo di te. L’area di Seattle-Tacoma è fatta così: siamo davvero una famiglia, quasi una fratellanza, in cui tutti si danno una mano. Kevin Porter Jr. è di Seattle. Paolo Banchero è anche lui di Seattle. Sono miei amici intimi. È bello vedere che anche la prossima generazione di ragazzi sta avendo successo».
Proprio sull’attuale stella degli Orlando Magic gli chiedo qual è stato il momento in cui ha realizzato che potesse diventare materiale da NBA: «Mi sono reso conto di quanto sarebbe diventato forte Paolo nell’anno del Covid, il 2020. Ho sempre pensato che sarebbe diventato un giocatore NBA perché ha i mezzi e ha il talento. Ma quell’anno è migliorato così tanto da passare dall’essere una scelta al Draft ad essere la prima scelta assoluta. E questo dice molto della sua etica del lavoro, la sua passione per il gioco, e anche di chi è come persona. È davvero un grande ragazzo. Il suo unico limite è il cielo ed è sulla buona strada per avere una delle migliori carriere possibili».
E quella di Thomas? Stando a sentire lui, non è ancora finita — anche se sta già pensando al suo futuro, ad esempio partecipando al programma della NBPA per lavorare in televisione: «Sto ancora lavorando per farmi trovare pronto. Ho solo 34 anni, ho parlato con un paio di squadre e spero di trovare un’opportunità per giocare due o tre anni e finire la carriera nel modo in cui io voglio che finisca. Il broadcasting però è una delle cose che mi ha sempre interessato e diventare commentatore è sicuramente un’opzione perché amo parlare di pallacanestro. Mi ha preso molto tempo, ma ho imparato moltissime cose che non sapevo sulla televisione e potrò usarle quando comincerò a fare quel tipo di esperienze».
Arrivati a questo punto è decisamente improbabile che qualche squadra NBA creda ancora in lui, perché le sue limitazioni fisiche e tecniche erano tali da compromettere la struttura difensiva di ogni sua squadra anche quando era nel suo prime, figuriamoci ora che siamo nella parte finale della sua carriera e non può più farne 30 a sera per giustificare quello che “costa” in termini difensivi. Ciò non toglie che, osservando col giusto distacco quello che è stato, forse se ne può avere un apprezzamento maggiore: ci sono ottime probabilità che un giocatore del genere non lo vedremo mai più, quantomeno al livello che ha toccato Isaiah Thomas nel 2016-17, rimanendo come l’Ultimo Grande Piccolo nella storia della NBA. E scusate se è poco.